13/10/18

NADA QUE CELEBRAR

"Il 12 ottobre e le quote di complicità"




Il 12 ottobre viene celebrato da  secoli, con grande enfasi, come l'anniversario della cosiddetta "scoperta dell'America". Ma da qualche decennio è stato ribattezzato e viene ricordato dalle popolazioni indigene del  continente americano come "giornata della resistenza indigena", nella quale non c'è niente da celebrare. Perché l'America non fu scoperta,  semmai  invasa e saccheggiata dai conquistadores europei. 





di Ada Donno

La storia scritta dai vincitori parla della avventurosa “scoperta” di un continente – e poi della sua “evangelizzazione” e “civilizzazione” – inneggiando all'eroe Cristoforo Colombo che, per errore e per caso, ne fu autore.
Nelle espressioni più ragionate e critiche, oggi lo si definisce anche “incontro fra culture diverse”.
La storia raccontata dai vinti nega invece che tale incontro ci sia stato, lo chiama “conquista” e narra di genocidi, saccheggi, usurpazioni, cancellazioni di identità e valori culturali che erano radicati nei millenni. E nomina eroi come l’Inca Tupac Amaru, ucciso dai conquistadores; o come il suo discendente Josè Gabriel Condorcanqui, che due secoli più tardi ne assunse il nome e capeggiò una leggendaria e tragica rivolta di cacicchi peruviani contro gli occupanti spagnoli.
Opportunamente sollecitata, da qualche tempo, questa stessa storia racconta anche che accanto a Condorcanqui-Tupac Amaru c’era Micaela Bastidas, sua compagna orgogliosa e fedele, che ne condivise con tanta forza la passione per la libertà, da impugnare anch’essa le armi. “Sono pronta a morire là dove muore mio marito” aveva detto. E quando i ribelli furono travolti dalle soverchianti armi spagnole e dal tradimento, Micaela fu catturata assieme a lui sul campo di battaglia.
La legge della cattolicissima Spagna, per molti altri aspetti piuttosto discriminatoria nei confronti delle donne, le riconobbe il diritto ad un uguale trattamento e la sottopose allo stesso atroce supplizio del marito: tortura, taglio della lingua e decapitazione. A Cuzco, il 18 maggio 1781.
Una volta che hanno cominciato anch’essi a scrivere la storia, i vinti non possono essere fermati.
Molte donne (e molti uomini) del continente “scopritore” rimasero sorprese e attonite, quel giorno dell'ormai lontano 1985 in cui Rigoberta Menchù, piccola india del Guatemala,  si chiamò davanti alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra e raccontò la vita e la morte senza valore delle campesine quiché cresciute, come lei, nelle fincas di caffè coloniali.
“Me llamo Rigoberta Menchù…” cominciò a dire, e il racconto sommesso della sua insignificante sofferenza si fece parola che sopravvive al silenzio imposto alle popolazioni indigene del continente “scoperto”. Man mano che parlava, la sua voce si faceva d’oro, il suo sguardo tondo di quetzal  divenne acuto e pungente sull’uditorio mondiale e Rigoberta percepiva che, nominandosi, stava ridando storia e vita a se stessa e alla sua gente.
Quel racconto di Rigoberta diede la possibilità anche a molti e molte di noi di ripensarsi.
Ma la scelta di campo non sempre è agevole. Si tratta di scardinare concezioni rocciose e rinunciare al privilegio: non soltanto quello economico – il che sarebbe già tanto – ma anche a quello di considerarsi come appartenenti alla “civiltà”, quella per antonomasia, quella che per destino fatale illumina ed orienta tutte le altre. E il dibattito nei luoghi del femminismo occidentale - ancora oggi - dice quanto sia facile incappare in certe trappole.
La disuguaglianza e il privilegio attraversano anche il genere femminile, si materializzano nell’ineguale distribuzione dei diritti delle donne e si esprimono attraverso diversi punti di vista.
La scelta di campo - anche in questo caso e anche nella giornata del 12 ottobre dell’anno 526 dopo Colombo - non può lasciare spazio ad equivoci. Bisogna ritirare dalla società dei conquistadores le proprie “quote di complicità”, sia quelle ereditate dal colonialismo che quelle che continuano a riprodursi attraverso i meccanismi della dominazione e dello sfruttamento economico, ed investirle in quote di solidarietà.

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