archivio

Per una documentazione più dettagliata sulla produzione pregressa di Awmr Italia vai a:

http://digilander.libero.it/awmr/index.htm


**************


APPUNTI PER UNA STORIA DEL MOVIMENTO FEMMINILE NEL SALENTO
DAL RISORGIMENTO AL FASCISMO
di ADA DONNO
Estratto da «Contributi», anno 1 n. 4, Maglie, dicembre 1982


Ritengo di dover fare una breve premessa a queste mie note, che valga a rendere conto dei criteri che mi hanno guidata nella ricerca, ma anche a giustificare le molte mancanze che io stessa vi leggo. Destino comune agli oppressi di ogni epoca sembra essere quello di venire espropriati della storia che fanno e della cultura che producono con la propria attività. Infatti accade spesso che soltanto chi, individuo o gruppo sociale, abbia la possibilità di scrivere la storia venga considerato “autore” di storia, mentre coloro che sono stati esclusi da questa possibilità sono stati esclusi anche dalla riconoscenza della società per la loro attività.
In questo senso penso di poter dire che le donne siano state espropriate della storia che hanno fatto nei millenni ed abbiano vissuto con la Storia e la Cultura ufficiali un rapporto di marginalità, se non di alienazione: sono state escluse dai libri di storia e sono state escluse, a lungo, dall'accesso alla cultura e perfino alla semplice istruzione.
Da quando però le donne vanno affermando la propria identità di soggetto protagonista della storia al pari dell'uomo, vogliono anche essere riconosciute come autrici di storia e di cultura. Tale autoaffermazione è desiderio legittimo di singole donne, intellettuali finalmente riconosciute, ma è anche compito assunto dichiaratamente dai movimenti femminili che, da quando esistono e sono organizzati, vanno determinando profonde modificazioni nella realtà secondo le proprie esigenze e le proprie rivendicazioni.
Poiché sono convinta che il processo di liberazione della donna non possa essere separato dal più generale processo di trasformazione della società, nel senso dell’eliminazione delle cause sociali remote dell'oppressione femminile (che hanno molti aspetti in comune, in ultima analisi, con quelle che determinano l'oppressione di un gruppo sociale da parte di un altro, lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro, i privilegi di una classe a danno di un'altra) e poiché sono convinta altresì che le idee e le azioni delle quali sono portatrici e protagoniste le classi lavoratrici, composte di uomini e di donne, possano condurre a questa trasformazione, credo che il processo di liberazione della donna non si possa scindere dal processo di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione sociale delle classi e dei gruppi sociali finora subalterni. A questo processo la donna porta il suo contributo specifico, affermandosi quale ideatrice e costruttrice, non meno dell'uomo, di una nuova società di persone libere ed uguali, nella quale il suo apporto non sia misconosciuto come per il passato e nella quale essa possa, riappropriandosi di ciò che le è stato tolto, occupare con pieno diritto il posto che le spetta in quanto altra metà dell'umanità.
A tale ri-appropriazione mira quella parte ormai consistente dell'attività teoretica dei movimenti femminili rivolta alla ricostruzione del passato, dal prossimo al più remoto, alla ricerca delle tracce della presenza delle donne nella millenaria storia dell'umanità.
Cercare riferimenti specifici alle donne, alla loro vita e alle loro opere nella storiografia ufficiale, nei documenti, nelle carte del passato non è impresa agevole. Fatte le dovute eccezioni, che riguardano quelle donne che nel corso dei secoli si sono trovate, per congiunture del tutto particolari, ad occupare posti tradizionalmente riservati agli uomini, in generale i riferimenti al genere femminile si possono trovare là dove si parla dei costumi di un'epoca o di una regione, quasi che le donne fossero un elemento del folklore. L'altra possibilità è che, per un caso eccezionale, delle donne abbiano compiuto delle imprese considerate eroiche, e allora ci capiterà la fortuna di un riferimento esplicito alle donne della tale o tal altra città che si distinsero per la loro audacia durante il tale assedio o la tale impresa. Altrimenti, e cioè quasi sempre, alle donne è riservato il ruolo di riflesso di figure maschili: madre del tale eroe, sposa del tal altro, sorella o figlia del tal altro ancora. E così via.
Ora, l'unico modo per cambiare le cose è che le donne stesse scrivano la propria storia: e in effetti hanno cominciato a farlo già da qualche tempo.
Per raccontare una storia delle donne salentine sarebbe utile riportare alla luce, intanto, quanto singole donne di questa terra hanno lasciato scritto, a testimonianza di sé, nel corso dei decenni passati; ma soprattutto bisognerebbe ricostruire le vicende di quei movimenti di donne che hanno lasciato traccia di sé nella nostra terra.
Beninteso, questa mia può essere soltanto una traccia di lavoro, poiché molti sono i fatti, le parole e anche i significativi silenzi contenuti nella memoria delle donne, che aspettano di essere storicizzati.

I primi movimenti femminili organizzati, in Italia, risalgono al Risorgimento e conviene partire di là per il nostro discorso, cominciando col dire che nel corso dei moti rivoluzionari dell'800 italiano s'incontrano delle figure di donne, talvolta con ruoli niente affatto secondari negli avvenimenti: ma sono per lo più figure solitarie, diversamente da quanto era accaduto ad esempio in Francia, dove le donne avevano partecipato in massa alla rivoluzione, portando nella lotta anche le istanze di liberazione del proprio sesso; o a differenza dell'Inghilterra, dove le associazioni femminili assumevano un ruolo di primo piano nel movimento di rinnovamento sociale. Il fermento di idee sulla liberazione della donna contagiò pure i circoli intellettuali della nostra borghesia rivoluzionaria, soprattutto al Nord, ma non si tradusse in un movimento di massa, né organizzazioni femminili furono significativamente protagoniste dei fatti politici del secolo. I tentativi fatti nella seconda metà dell'800 da parte di donne rivoluzionarie, perché la questione femminile fosse posta come base di un movimento politico organizzato, non ebbero largo seguito. Lo stesso movimento femminista, che cominciava a coinvolgere numerose donne della piccola borghesia cittadina, non si distinse efficacemente per un'azione decisa alla testa di movimenti femminili, come in Inghilterra, o per lo sforzo di collegarsi con le donne del popolo, come in Francia. Per questo è stato giustamente osservato che « il femminismo italiano fu più nelle menti che nei fatti » (F P. Bortolotti, Milano 1975).
In generale, dunque, si può dire che le donne del Risorgimento non seppero collegare i temi della rivoluzione nazionale con quelli dell'elevazione sociale del proprio sesso. A ben guardare, molte di esse erano state spinte all'azione politica più che altro dall'amore per i rispettivi mariti, figli o fratelli: ciò non toglie nulla, certamente, alla forza e sincerità del loro impegno, al loro coraggio ed alla celebrata fierezza ed abnegazione alla causa risorgimentale, ma esse trascurarono di battersi nel contempo per il risorgimento della donna. Le associazioni femminili fiancheggiatrici del movimento rivoluzionario che sorsero in Italia non formulavano richieste circa i diritti delle donne e loro caratteristica fu la funzione di organismi ausiliari delle organizzazioni maschili, adibiti alla raccolta di fondi, ai compiti di assistenza o simili. Questa peculiarità non troppo felice della rivoluzione borghese italiana, oltre che con le specifiche condizioni storico-sociali, si può spiegarla forse meglio con l’egemonia esercitata dalle concezioni mazziniane tendenti a scindere la «questione nazionale» dalla «questione sociale» e a rinviare «a dopo» quest'ultima. Sicché anche il problema della condizione femminile che in altri paesi d'Europa già dalla fine del '700 veniva energicamente agitata accanto alle altre questioni sociali, veniva di fatto messo da parte.
Il Mazzini certamente non ignorava il problema e anzi non mancava di accennare, qua e lì, alla «condizione sempre negletta della donna», ma le istanze mazziniane in favore delle libertà femminili non uscivano dai limiti di una visione della donna come «angelo della famiglia», sublime compagna del rivoluzionario, ma preferibilmente fuori, essa stessa, dalla lotta.
E quando capitava, com’era inevitabile, che delle donne prendessero parte all'attività rivoluzionaria di prima linea, esse lo facevano esclusivamente in quanto combattenti della causa nazionale senza portare nella lotta le istanze di liberazione specifiche della condizione femminile. È questo il caso della gallipolina Antonietta De Pace, fervente repubblicana e mazziniana, la quale fin da giovanissima si dedicò anima e corpo alla causa dell'unità d'Italia: anzi, come dicono i suoi biografi, «ben presto, come vinta dal fascino dell'idea cospiratrice, dimenticò il mondo femminile e cospirò ». (M. D. Crety, Lecce 1913).
La sua esperienza fu certamente eccezionale e la sua figura occupa un posto di rilievo nella storia nazionale al pari delle altre eroine celebri del Risorgimento, le Poerio, le Settembrini, le Agresti o le Cairoli, i cui nomi, per dirla con le parole alquanto retoriche  dello «Spartaco» (voce ufficiale della locale democrazia mazziniana, prima, e dei socialisti poi), «hanno avuto una bella pagina nel libro d'oro del martirologio italiano» («Spartaco», Gallipoli 1891). I mazziniani nutrivano una grande ammirazione nei confronti di quelle madri e spose che avevano dimostrato fedeltà alla causa dei loro uomini: nello «Spartaco» del 3 marzo 1891, in morte di Rosa De Pace, sorella di Antonietta, si legge un necrologio, pregno di commozione, in cui se ne esalta la «spartana virtù» e la si addita ad esempio per le «madri, spose e giovanette gallipoline», ricordando come suo figlio Francesco fosse caduto sui monti del Tirolo mormorando, estreme parole, «Italia ... mamma».
Viceversa, questi stessi uomini democratici volentieri mettevano in ridicolo, in piccoli trafiletti, le iniziative delle «signorine femministe».
Antonietta De Pace non ha lasciato, che si sappia, scritti a testimonianza del suo pensiero riguardo alla condizione femminile, né più in generale alla questione sociale. Si può supporre, tuttavia, che a lei meridionale non dovette sfuggire quale prezzo pagasse il Sud per l'unità d'Italia e quanto poco gli ideali per i quali ella aveva combattuto si fossero poi realizzati. Ella che era accorsa a Napoli ad incontrare Garibaldi per salutarlo entusiasticamente come il « liberatore del Mezzogiorno », probabilmente dovette assistere con dolore alle successive vicende del processo di unificazione nazionale, all'inasprirsi delle differenze e dei contrasti fra nord e sud che furono all'origine della odierna      «questione meridionale ». L'unificazione si era risolta in una annessione al regno sabaudo, le idee di libertà dei rivoluzionari borghesi annegavano nel mare del trasformismo politico e dei compromessi con la classe aristocratico-feudale. 1 borghesi che raggiungevano i posti di potere si preoccupavano più di salvaguardare i propri interessi particolari che dì realizzare la promessa e conclamata liberazione del popolo meridionale dal giogo borbonico. Le masse contadine deluse, attraversata la parentesi del brigantaggio (ci furono non poche donne che seguirono gli uomini anche su questa via, ma questo è un altro discorso), si trovarono a dover subire una nuova oppressione, imposizione di nuovi tributi e tasse gravose, il saccheggio delle risorse, mentre le casse del Regno di Napoli venivano svuotate a favore di quelle piemontesi: tutte cose, queste, che finirono con l'apparire agli occhi dei meridionali come il solo risultato concreto dell'unificazione, provocando l'esplosione della lunga serie di rivolte popolari nel Sud post-unitario.
Alla De Pace, a quanto pare, non rimase altro da fare che dedicare il resto dalla sua vita ad attività filantropiche, prodigandosi assieme ad altre dame della buona società napoletana in iniziative che avevano per scopo dichiarato «l'istruzione e l'elevamento delle classi povere».
Ma la filantropia, elemento comune a queste donne del Risorgimento, era cosa ben diversa da una effettiva solidarietà con le donne del popolo, le quali non avevano avuto alcuna possibilità di dare voce alle proprie rivendicazioni di proletarie sfruttate, essendo prive di qualsiasi diritto sociale. Su di esse ricadeva il peso maggiore dell'oppressione che schiacciava il popolo meridionale. in particolare le masse contadine, che registravano dopo l'unità un progressivo impoverimento per effetto della politica governativa.
I primi movimenti di massa che vedono partecipi le donne sono pertanto le rivolte popolari che costellano la storia del Sud: dopo la prima violenta sommossa del 1868 contro la tassa sul macinato, fino alla fine del secolo, la storia del popolo meridionale è un susseguirsi di lotte e conflitti con l'autorità statale. La gravissima crisi olivicola e vinicola che investe la Terra d'Otranto nell'ultimo decennio rende la situazione insopportabile. Secondo lo «Spartaco» ricade sul governo Crispi la responsabilità di aver « gettato sul lastrico migliaia di famiglie ». La crisi si trascina a lungo ed è causa di continue sollevazioni della popolazione esasperata, duramente represse dall'autorità prefettizia. In seguito ai tumulti del 1° maggio 1891 a Gallipoli e in altri paesi del circondario, lo «Spartaco» commenta: «Gli ospedali e le carceri sono pieni». Tra il 1896 e il 1898 tutto il Sud è investito da un'ondata di rivolte causate dal rialzo del pane. Violenti disordini si verificano ancora a Gallipoli il 23 e 24 gennaio 1899: la folla inferocita incendia il circolo dei signori e tenta l'assedio al municipio. La fame e la disoccupazione (da tre mesi è chiusa la fabbrica dei bottai che dava lavoro a centinaia di operai) spingono i dimostranti a scendere in piazza. In un editoriale del 20 febbraio intitolato Il pane, lo «Spartaco» ammonisce le autorità: « ... Dovreste pensare che in tutta la provincia la miseria e la fame è terribile ». I moti di quest'ultimo sanguinoso decennio del secolo si concludono con un bilancio di decine di morti e feriti.
Con crescente frequenza i resoconti prefettizi testimoniano la presenza sulle barricate delle donne che, con i ragazzi, diventano i personaggi principali degli scontri con la forza pubblica. Al grido di «pane e lavoro» esse sono spesso alla testa dei dimostranti che attaccano gli uffici e incendiano i municipi e pagano duramente le conseguenze della loro disperazione. Esse non hanno rivendicazioni specifiche da sostenere, non sono in grado di formulare richieste circa i loro diritti di donne sfruttate, perché nessuno le ha educate a questo: scendono nelle strade lottando contro l'autorità statale accanto ai loro fratelli di classe, sotto la spinta della fame e della miseria.
Nello stesso periodo al Nord e nei paesi industrializzati d'Europa si gettavano le basi dell'organizzazione femminile proletaria: le remore del filisteismo borghese sul lavoro delle donne non valevano evidentemente per le operaie, visto che l’industria capitalistica si avvaleva abbondantemente della manodopera femminile. Anche sul lavoro le donne si portavano dietro il retaggio della loro oppressione secolare: le operaie delle fabbriche, come tutte le altre lavoratrici, percepivano salari dimezzati rispetto a quelli maschili e spesso toccava loro di svolgere i lavori più gravosi in condizioni terribili di sfruttamento. Così anch’esse si organizzavano nelle leghe di mestiere e nelle associazioni professionali femminili aderenti alla Prima Internazionale [Da notare che in seno alla Prima Internazionale proprio sulla questione del diritto al lavoro delle donne avveniva il primo duro scontro fra i marxisti, che consideravano l'indipendenza economica della donna indispensabile per la sua emancipazione ed i proudhoniani sostenitori di tesi sostanzialmente antifemminili ed opportuniste che essi rivestivano di argomentazioni pseudo-umanitarie, favorevo1i al «ritorno a casa delle donne» (cf. Clara Zetkin, Milano 1977)].
A mano a mano che in Italia le istanze socialiste cominciano ad esprimersi anche all'interno della democrazia mazziniana, la «questione sociale» va identificandosi sempre più con l'emancipazione operaia, il risorgimento politico e giuridico del popolo italiano va collegandosi alle rivendicazioni economiche e sociali. Anche la questione femminile si va precisando in questi termini nuovi e si fa strada nelle società operaie dove s'avvia un acceso dibattito sul lavoro delle donne e sul suffragio universale [A Milano, Anna Maria Mozzoni, famosa donna del Risorgimento e femminista, con una dura critica al progetto del Nuovo Codice Civile approvato nel 1861 dal Senato del Regno, che non faceva che peggiorare la posizione della donna in seno alla famiglia, aveva già iniziato quel processo di separazione dai gruppi mazziniani che la porterà ad abbracciare le idee socialiste (cf. F. P. Bortolotti, Milano 1975)]
Tuttavia la fase dell'unificazione italiana si chiude con l'inizio di un processo involutivo rispetto al problema femminile nella società, per il prevalere delle tendenze conservatrici in seno alla borghesia, che accomunava donne e operai nella sua politica repressiva. Il timore di fronte al proletariato in lotta induce la nuova classe al potere ad arroccarsi su posizioni di difesa dei propri privilegi ed essa fatica sempre più a proclamarsi promotrice delle aspirazioni più nobili dell'umanità.
Anche la causa dell'emancipazione femminile le fa paura. Pertanto alla fine di questa fase storica i movimenti femminili di origine borghese, ben lontani dall'avere realizzato il «risorgimento della donna», possono vantare solo scarse conquiste sul piano sociale, economico e culturale. Le associazioni femminili «istituzionali » si limitano a fiancheggiare l'operato dei governi; d'altra parte, l'incomprensione del rapporto esistente fra lotta per l'emancipazione femminile e lotta di classe impedisce per lo più alle associazioni femministe di collegarsi fattivamente col movimento delle donne proletarie, che cominciava ad organizzarsi ed era il solo in grado di raggiungere dimensioni di massa.
Sarà il nascente movimento socialista a riprendere la questione femminile e a svilupparla nei primi anni del XX secolo, affermando la necessità per la donna dell'alleanza con la classe operaia contro il comune oppressore, individuato nel sistema capitalistico. Il socialismo portava tra le masse lavoratrici del Nord e del Sud la parola d'ordine dell'emancipazione di classe e della piena equiparazione sociale degli uomini e delle donne. Queste parole trovano indubbiamente più rispondenza che non quelle dei movimenti femministi nella società meridionale dove il nuovo secolo nasceva trascinandosi problemi storici insoluti.
I mutamenti politici e sociali avvenuti nel secolo precedente nella società salentina, che dal punto di vista economico « rimaneva una civiltà agraria contraddistinta da un regime delle proprietà di tipo semilatifondistico » (E Grassi, Bari 1973), si erano tradotti in un abbassamento del livello di vita delle masse contadine e non mancavano di riflettersi anche sulla condizione femminile: l'espropriazione della piccola proprietà contadina ad opera dei grandi proprietari terrieri aveva innescato un processo di emigrazione della manodopera maschile dai campi favorendo l’immissione sud mercato del lavoro di nuova manodopera salariata femminile. Al contrario, per effetto dell'accresciuta concorrenza delle industrie del Nord e straniere, si registrava dopo l'Unità un drastico ridimensionamento di una tipica attività che le donne del Salento svolgevano da secoli in casa o nei piccoli filatoi e filande artigianali: la tessitura. Ma del resto, la produzione tessile, che era stata un'attività molto diffusa nell'ex Regno di Napoli, non fu la sola ad essere sacrificata: l'accentuazione del carattere mercantile dell'economia italiana, l'estensione al Sud di tariffe doganali modellate sulle esigenze dell'economia settentrionale, le misure fiscali ed altre scelte di politica economica del governo, sono tutte cose che servivano a scoraggiare ogni possibilità di industrializzazione del Sud, favorendo soltanto le esportazioni agricole e avvantaggiando i proprietari terrieri. L'unificazione del mercato nazionale determina inoltre il fenomeno della specializzazione delle colture nel Salento, accanto alle tradizionali coltivazioni dell'olivo e della vite, si ha un'improvvisa e rapida espansione della coltivazione e lavorazione del tabacco, dove la maggior parte della manodopera impiegata è costituita da donne. L'occupazione nei tabacchifici è considerata congeniale alle donne, perché la stagionalità del lavoro consente il regolare ritorno alle faccende domestiche o ai lavori agricoli. Le tabacchine percepiscono salari addirittura inferiori a quelli già miserrimi stabiliti per le donne in altri settori: queste particolari condizioni del mercato della manodopera, che assicurano al padronato altissime quote di sovrapprofitti, attirano nel Salento i capitali dal Nord o dall'estero e cominciano a sorgere gli stabilimenti privati. Le condizioni di lavoro delle operaie dei tabacchifici sono spaventose e lo sfruttamento cui sono sottoposte è feroce, soprattutto a causa del sistema di lavoro imposto che era quello del cottimo a squadre (C. G. Donno, Lecce 1981).
Il primo decennio del secolo è segnato pertanto dalle lotte delle tabacchine per il miglioramento delle condizioni di lavoro, per l'abolizione del cottimo, la diminuzione dell’orario di lavoro e l'aumento del salario. Le lotte nelle campagne portano con sé fra le masse contadine la maturazione delle idee socialiste e le prime forme di organizzazione sindacale. Nel Salento si vanno costituendo, tra mille difficoltà e l'ostilità delle forze padronali, le prime leghe contadine di resistenza che cominciano ad organizzare scioperi sistematici ben più efficaci degli sporadici tumulti del passato. Le donne prendono parte alla formazione delle leghe, via via più numerose, nei paesi e villaggi agricoli. Sempre più spesso esse sono in prima fila, con i loro bambini in braccio, nei picchetti e nelle dimostrazioni di piazza; non di rado la stampa dell'epoca è costretta a registrare che esse sono « più accanite ed infervorite degli uomini ». (S. Coppola, Lecce 1977). Proprio dalle donne braccianti viene il primo grande esempio di lotta sindacale organizzata e vincente: fra il 1905 ed il 1906 si svolgono le agitazioni delle raccoglitrici di olive contro l'uso barbaro del « cappuccio ». Il «cappuccio» era una specie di sacco che le donne si legavano sui fianchi, nel quale mettevano le olive che andavano raccogliendo con ambedue le mani. « Sull'inizio, il lavoro non era tanto massacrante, ma tale diveniva quando il cappuccio, che aveva la capacità di contenere una quindicina di chili di olive e spezzava loro la schiena, tanto che quasi tutte erano deformate, incominciava a pesare e le disgraziate erano costrette a muoversi saltando come tante rane. Così fino a quando il cappuccio non era stato riempito e vuotato decine e decine di volte, fino a che il sole non fosse tramontato ». (Testimonianza tratta dal « Memoriale di Pietro Refolo », in S. Coppola, Lecce 1977).
Le raccoglitrici decisero di ribellarsi a questa condizione di bestiale sfruttamento: la lotta partì dalle donne del magliese; non senza dover superare qualche iniziale titubanza degli uomini delle leghe. Lo sciopero, che ricevette la solidarietà di tutte le categorie di lavoratori, durò 35 giorni: le raccoglitrici chiedevano l'abolizione dell'aborrito cappuccio, la riduzione della giornata di lavoro da 12 a 8 ore, l'aumento del salario giornaliero da 30 a 50 centesimi. Ma il loro grido di lotta era soprattutto uno: «Morte al cappuccio, W il paniere!» (S. Coppola, Lecce 1977).
La lotta travalicava i limiti della vertenza sindacale ed assurgeva a simbolo della lotta delle donne lavoratrici contro la schiavitù e l'oppressione feudale che continuava nel Salento: non a caso le maggiori resistenze padronali si riferivano proprio alla richiesta principale delle raccoglitrici! Ma alla fine esse vinsero.
Il movimento di lotta contro il «cappuccio», benché fosse partito localmente in maniera spontanea, s'inseriva nella campagna a favore delle leggi sulla tutela del lavoro femminile che il Partito Socialista e le camere del lavoro conducevano in tutta Italia in quegli anni e che segna la nascita del primo movimento femminile proletario. Le agitazioni operaie e le lotte grandiose di diverse categorie di lavoratrici raccoglievano grandi consensi e solidarietà anche fra i ceti medi e gli intellettuali; molte erano le femministe che si stringevano attorno all'impetuoso movimento delle donne proletarie. Le idee socialiste sull'emancipazione femminile si diffondevano: nel 1906 sorgeva la Lega socialista per la tutela degli interessi femminili che per la prima volta avanzava la richiesta della parità salariale. Tuttavia, nel momento in cui portava tra le donne la consapevolezza di lottare accanto agli uomini contro il capitale, non si può dire che altrettanta consapevolezza vi fosse negli ambienti socialisti italiani della complessità del problema femminile (nonostante l'abbondante elaborazione teorica della Seconda Internazionale sull'argomento) e della necessità di mettere fine alla condizione di inferiorità giuridica e di subordinazione morale della donna rispetto all'uomo. Quando, dopo le lotte per la tutela del lavoro femminile, partì la campagna per il suffragio universale, negli stessi circoli socialisti c'era parecchia incertezza sulla questione dell'estensione del voto alle donne, a causa  soprattutto dell'ambigua posizione della direzione nazionale, oscillante fra massimalismo teorico ed effettivo moderatismo pratico. La campagna suffragista nel Salento fu molto attiva e vide impegnati propagandisti locali e nazionali del PSI: tuttavia non è chiaro ancora se, parlando di suffragio universale, essi lo intendessero esteso anche alle donne. Certo, gli atti ufficiali del Partito, soprattutto quelli relativi al Congresso di Modena del 1911, parlavano di voto alle donne, ma la personale opposizione di Turati e di altri dirigenti nazionale, i quali temevano che l’immaturità politica delle donne favorisse i partiti moderati, lasciava spazio ad atteggiamenti diversi, dettati da convincimenti personali: evidentemente il calcolo elettoralistico prevaleva per questi dirigenti su qualsiasi altra considerazione riguardante la portata rivoluzionaria dell’emancipazione femminile. L’inserimento negli atti del congresso nazionale del Psi della prima relazione specifica sulla questione femminile e l’indicazione ufficiale del suffragio esteso alle donne erano state due personali conquiste di Anna Kuliscioff, che aveva condotto una vivace e tenace polemica con la direzione del partito, riuscendo infine a spostare sulle sue posizioni altri influenti dirigenti (fra questi, Salvemini). Intervenendo in proposito su «Critica sociale», la Kuliscioff aveva contestato a Turati di avere affermato che «le donne italiane, 999 su mille, sono assenti dalla politica; e gli assenti hanno torto». Turati si prese però la rivincita facendo passare nel Psi la decisione di non applicare all'Italia la proposta lanciata dalla Zetkin al congresso internazionale delle donne socialiste di Copenhagen nel 1910, di dedicare una giornata dell’anno (quella che sarebbe poi stato l'8 marzo) all'emancipazione femminile. La prima celebrazione dell'8 marzo in Italia avverrà molto più tardi per iniziativa delle donne comuniste. (R P. Bortolotti, Milano 1976). Gli avvenimenti di questi anni che precedono la prima guerra mondiale indicano come alle donne mancasse ancora una organizzazione autonoma capace effettivamente di mettersi alla testa di un movimento di lotta per le loro specifiche rivendicazioni.
La guerra chiuderà questo periodo di fermenti e di grandi battaglie nel quale i risultati positivi per le donne sono quelli conseguiti sul piano sindacale [La lotta per il suffragio esteso alle donne e la campagna antimilitarista degli anni immediatamente precedenti la guerra avevano rappresentato l'ultimo punto d'incontro tra movimento femminile proletario e quella parte del femminismo borghese che si dedicò ad un intensa attività pacifista. Ma le condizioni di lotta erano divenute complessivamente assai difficili per tutti i movimenti progressisti per via della crisi economica. Dall'accordo fra liberali e cattolici era uscito rafforzato il fronte moderato; il governo si preparava alle sue avventure militari con la campagna di Libia e non era disposto a sentir parlare di riforme Sociali e di voto alle donne. Le donne socialiste, di fronte alla guerra, sono schierate decisamente con la minoranza non interventista del partito, mentre assai gravi appaiono le ripercussioni nel movimento femminista borghese che al Congresso dell'Aja del 1915 si divide in due tronconi, uno contrario alla guerra e l'altro favorevole].
La guerra, con i lutti e i sacrifici che impone e le particolari condizioni che determina nella vita di ogni individuo, coinvolge le donne nei suoi tragici avvenimenti e determina una maturazione forzata delle loro coscienze. Chiamate e sostituire gli uomini, mobilitati al fronte, in misura massiccia esse passano dai lavori di casa a quelli di fabbrica o dei campi. Nel Salento la partenza degli uomini per il fronte determina un'ulteriore concentrazione della proprietà contadina e un generale impoverimento delle famiglie rurali.
Dopo le prime incertezze dovute all'attíva propaganda interventista dei partiti di governo, le tragedie della guerra, il rincaro della vita e la scarsità di beni di prima necessità provocano crescente malcontento nella popolazione. Al tributo di sangue e alle privazioni di ogni genere che la guerra impone, si aggiunge il risentimento verso i « pescecani », la nuova categoria di profittatori che si arricchiscono con le speculazioni del mercato nero e le forniture militari. 1 frequenti scioperi per aumenti salariali e contro il caro vita si tramutano sempre più spesso in manifestazioni contro la guerra di cui spesso le donne sono protagoniste. Supersfruttamento del lavoro femminile e pescecanismo erano in effetti il punto d'incontro degli interessi dei vecchi agrari e delle nuove categorie di mercanti. Il risentimento popolare esplode in grandi manifestazioni di massa al grido di « pace e pane ». Soprattutto nel '17 si ha testimonianza di sollevazioni di donne in ogni paese e villaggio del Salento, contro la guerra, la fame e gli speculatori. (Denitto, Grassi, Pasimeni, Lecce 1978). Le sollevazioni popolari si moltiplicheranno negli anni dell'immediato dopoguerra, quando la fame di terra dell'esuberante massa di contadini tornati dal fronte, la disoccupazione, il caro-viveri, la scarsità di pane e di farina, conseguenza del dissesto economico provocato da quattro anni di guerra, porteranno la vita del popolo ad un livello insostenibile. Queste dimostrazioni nelle campagne, che costellano il cosiddetto « biennio rosso », partono frequentemente dalle donne che chiedono pane e lavoro. Spesso si tratta di movimenti spontanei, non organizzati, di fronte ai quali i dirigenti sindacali assumono un atteggiamento immobilista; vengono repressi con durezza dalle autorità, concludendosi talvolta tragicamente. Le dimostrazioni si scagliano con la forza della disperazione contro quelli che appaiono loro gli immediati responsabili della fame, gli amministratori comunali che gestiscono la distribuzione dei generi tesserati.
L'importanza assunta dalle donne nella produzione e nella società negli anni della guerra era sembrata al movimento femminile l'occasione favorevole perché fossero ripresentate le proposte paritarie che in passato erano state respinte, da quella salariale a quella sull'elettorato. Nel clima di esaltazione indotto dagli eventi bellici anche i partiti di governo si erano sbracciati a fare promesse. Ma a guerra finita le cose cambiarono: la discussione sull'elettorato femminile si trascinò stancamente per due anni, continuamente ostacolata, dalla Camera al Senato dove infine il progetto di legge venne respinto. L'appoggio ad un progetto di legge sul divorzio che aveva fatto una timida apparizione nel momento di crescita del movimento femminile, venne ritirato dagli stessi socialisti intimiditi dal mutato clima politico (E P. Bortolotti, Milano 1976).
Alle donne che durante la guerra avevano sostituito gli uomini sul lavoro ora si chiedeva di riprendere il tradizionale posto in famiglia: questo soave suggerimento veniva anche dagli ambienti socialisti che si preoccupavano esclusivamente del reinserimento dei reduci nei posti di lavoro. Dure critiche su questo punto venivano rivolte anche alle dirigenti dell'Unione Femminile Socialista da parte delle donne comuniste che, in concomitanza con l'uscita dalla Seconda Internazionale e dal PSI dei terzinternazionalisti, organizzavano al suo interno la dissidenza, accusando la direzione riformista di non opporsi con sufficiente energia all'ondata di licenziamenti delle lavoratrici e alla marea montante antifemminile in tutto il paese.
Di fronte all'inasprimento dello scontro di classe i partiti borghesi sono attestati su posizioni reazionarie e si uniscono, alle elezioni amministrative del '21, in un unico blocco elettorale con i fascisti che ne facilitano la vittoria scatenando l'offensiva squadristica contro il movimento sindacale e socialista. Nel Salento inizia la persecuzione sistematica degli iscritti alle leghe contadine; di li a qualche anno esse saranno sciolte ed i contadini, per lavorare, saranno costretti a rivolgersi alle « Camere Nazionali », guardate di buon occhio dal padronato agrario che ha realizzato la « pacificazione » con il sindacalismo fascista. Dopo la marcia su Roma si assiste all'indecorosa corsa degli esponenti locali della classe dirigente liberale verso le file fasciste per assicurarsi i posti di potere, a conferma del tradizionale trasformismo, politico dei gruppi dirigenti borghesi del Salento. (S. Colarizi, Bari 1970).
Gli ultimi sussulti di resistenza popolare al fascismo si verificano nel '24, dopo il delitto Matteotti: in numerosi paesi del Salento si conserva la memoria di numerosi episodi di vero e proprio eroismo di cui sono protagoniste delle donne. Negli strati popolari la necessità di opporsi al fascismo dilagante unisce uomini e donne.
Il movimento femminile di estrazione borghese è invece avviato a fatale involuzione: il femminismo attraversa una crisi profonda iniziata con l'adesione di molte sue esponenti alla campagna di Libia ed ai programmi colonialisti del governo: tra le associazioni femminili riunite nel Consiglio delle Donne Italiane vanno affermandosi tendenze nazionalistiche sempre più accese che ben presto degenerano in posizioni apertamente antidemocratiche. Esaltando in chiave nazionalistica la partecipazione delle donne al Risorgimento, alcune associazioni femminili borghesi invitavano ad una « politica patriottica » che consisteva in pratica nella propaganda ideologica antisocialista e razzista, nell'esaltazione delle imprese dello squadrismo fascista, ben tollerato negli ambienti conservatori. Le associazioni femminili cattoliche, da parte loro, assumevano una posizione dichiaratamente « neutrale » di fronte al fascismo. Ormai di emancipazione femminile non si parlava più e in breve tempo arrivava la soluzione fascista della questione femminile con la soppressione di tutte le associazioni femminili non fasciste e con l'espresso divieto per le donne di fare politica. Si chiudeva così una fase storica del movimento femminile in Italia. Volendo fare un bilancio storico e politico possiamo dire che in questa fa-se si è realizzato il passaggio di gestione della questione femminile nelle mani del movimento operaio.
Al Sud, per la verità, i movimenti di donne hanno avuto carattere spiccatamente sindacale e non c'è stato il tempo e forse neppure le condizioni perché si ponesse concretamente l'esigenza di una organizzazione femminile di massa capace di sostenere le rivendicazioni specifiche delle donne: questo problema però cominciava a porsi come un compito concreto per il movimento operaio, se si considera che una delle richieste avanzate con maggiore urgenza dalle comuniste alla direzione della Unione Femminile Socialista era stata quella di creare una Commissione Nazionale per la condizione femminile nel Mezzogiorno. Per ora, comunque, anche il movimento femminile è costretto ad entrare nella clandestinità. L'obiettivo del fascismo sarà quello di respingere la donna in casa, escludendola dagli impieghi, dalle professioni e dalle scuole. Le misure prese dal fascismo contro le donne sono note, dalla preclusione delle carriere professionali all'aumento per le tasse delle studentesse. La riduzione delle tariffe salariali (il salario femminile tornerà ad essere la metà di quello maschile e verranno abolite le licenze di maternità) che avrebbe dovuto essere in linea con l'intenzione di ricacciare le lavoratrici tra le pareti domestiche, si risolverà invece in un incoraggiamento per il padronato ad assumere manodopera femminile, sia nelle fabbriche che nelle campagne, dove le donne saranno chiamate a svolgere i lavori più gravosi. Nel Sud si arresterà per molti anni il processo di alfabetizzazione delle donne iniziato ai primi del secolo; la « ruralizzazione », al di là delle campagne demagogiche del regime, vedrà tornare in auge forme di servitù feudale che sembravano cancellate e che umiliano le donne: nei contratti colonici fascisti ricompaiono clausole come quella che impone il permesso del padrone per i matrimoni dei componenti la famiglia colonica, o come l'imposizione dell'obbligo a tutto il nucleo familiare colonico di lavorare esclusivamente per l'azienda assegnatagli, cosa che penalizza soprattutto le donne che, per far fronte ai bisogni della famiglia, sono spesso costrette a cercare fonti esterne di guadagno, ad esempio in lavori agricoli stagionali o negli stabilimenti di tabacco (M. De Giorgi - C. Nassisi, Lecce 1979).
La concezione fascista della donna, enunciata in ogni occasione utile dagli zelanti ideologi di regime, troverà infine la sua piena applicazione pratica nella campagna demografica, diretta principalmente alle donne la cui funzione umana e sociale viene identificata con il compito di « far figli, molti figli, perché numero è potenza ».
Sarà utile approfondire il tema della condizione femminile durante il fascismo, che intendeva far ritornare la donna ad uno stato di completa subordinazione al «maschio», esaminare il rapporto che esistette fra le donne ed il regime, riportare alla memoria quegli episodi di insofferenza o di aperta rivolta che s'accesero pure nel Salento durante il ventennio, fatti che contrastano con una certa linea storiografica tendente a presentare le donne come soggiogate dal fascismo e addirittura sue attive collaboratrici. Ma questi argomenti hanno bisogno di un capitolo a parte.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

AA. VV., Studi sulla società meridionale, Napoli. Guida, 1979. (Con il saggio di A.M. VISCEGLIA: Lavoro a domicilio e manifattura nel XVIII e XIX secolo, produzione, lavorazione e distribuzione del cotone in Terra d'Otranto.
S. COLARIZI, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari, Laterza, 1970.
S. COPPOLA, Leghe contadine del Basso Salento agli inizi del secolo e «Memoriale» di Pietro Refolo, Lecce, Salento Domani, 1977.
M. DE GIORGI-C. NASSISI, Antifascismo e lotte di classe nel Salento (1943-47), Lecce, Milella, 1979. (Con un saggio di F. GRASSI).
DENITTO-GRASSI-PASIMENI, Mezzogiorno e crisi di fine secolo. Capitalismo e movimento contadino, Lecce, Milella, 1978.
M. DOMENICA CRETY, Le donne celebri nella provincia di Lecce, Lecce, 1913.
G. C. DONNO, Classe operaia, sindacato e partito socialista in Terra d'Otranto 1901-1915, Lecce, Milella, 1981.
F. GRASSI, Il tramonto dell'età giolittiana nel Salento, Bari, Laterza, 1973.
A. MANGONE, L'industria del Regno di Napoli 1859-1860, Napoli, Fiorentino, 1976.
B. MARCIANO, Della vita e dei fatti di Antonietta De Pace, Napoli, 1901.
M.       MERFELI), L'emancipazione della donna e la morale sessuale nella teoria socialista, Milano, Feltrinelli, 1977. (Con un saggio di CARLA RAVAIOLI).
A. M. MOZZONI, La liberazione della donna, Milano, Mazzotta, 1975. (Con un saggio di F. PIERONI BORTOLOTTI).
F. PIERONI BORTOLOTTI, Alle origini del movimento femminile italiano (1848-1892), Torino, Einaudi, 1963.
Socialismo e questione femminile in Italia (1892-1922), Milano, Mazzotta, 1974.
C. RAVERA, Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1978.
C. ZETKIN, La questione femminile e la lotta al riformismo, Milano, Mazzotta, 1977.
«Spartaco», organo dell'Ass. democratica Elettorale della Circoscrizione di Gallipoli, Annate 1887-1903, Gallipoli, Biblioteca Comunale.