21/12/19

Giustizia per la Palestina


La Corte penale internazionale indagherà sui crimini di Israele


La giurista gambiana Fatou Bensouda, procuratrice della CPI

La procuratrice generale della Corte penale internazionale (CPI) de L’Aia, Fatou Bensouda, ha accolto la richiesta palestinese di aprire un'indagine sui crimini di guerra commessi da Israele nei territori palestinesi. 
L’Autorità Palestinese ripetutamente aveva presentato richiesta alla Corte di indagare sulle responsabilità di Israele riguardo alla repressione sanguinosa delle proteste palestinesi, in particolare in occasione delle Marce del Ritorno, iniziate nel 2018 in Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, durante le quali sono morti almeno 273 palestinesi e oltre 16mila sono rimasti feriti.

Ora, finalmente, la CPI ha accolto le richieste palestinesi affermando che "c’è una base ragionevole per procedere a un'indagine". 
Un primo passo positivo e incoraggiante, secondo le parole del segretario dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Saeb Erekat, in direzione di “mettere fine all'impunità delle forze di occupazione israeliane in Palestina”.

Un passo lungamente atteso, nella drammatica situazione dei Territori militarmente occupati da Israele, dove i diritti umani della popolazione palestinese sono sistematicamente conculcati e violati.  

La decisione della CPI ha suscitato l’immediata reazione israeliana, come c’era da aspettarsi.  Netanyahu ha dichiarato che Israele si opporrà a qualsiasi indagine, in sostanza usando l'argomento che “la Palestina non è uno stato sovrano”. Ma l’Ufficio della Procuratrice Bensouda ritiene di avere giurisdizione per indagare sui crimini commessi nei Territori Palestinesi Occupati, in quanto la Palestina è uno stato membro della CPI dal 2015 e aderente allo Statuto di Roma (che, al contrario, Israele non ha mai sottoscritto).

I Palestinesi hanno tutto il diritto di esigere giustizia e la condanna degli autori dei crimini che hanno lungamente subito. Possono cominciare a sperare che esista una giustizia internazionale anche per loro?

15/12/19

COP25 MADRID / UN'ALTRA OCCASIONE PERDUTA


Ancora una volta una grande delusione



Giovanna Pagani, WILPF Italia

Nella sessione plenaria pomeridiana del 13 dicembre si sono susseguiti gli interventi degli Stati sulla bozza di testo finale. La presidente di questa COP25, la ministra cilena dell'ambiente Carolina Schmidt, ha ricevuto un corale apprezzamento per la sua leadership, ma per quali risultati? 
Solo 73 paesi hanno aderito all'Alleanza di Ambizione Climatica 2050, anno in cui si dovrebbe realizzare la Neutralità climatica: Zero emissioni e dunque il contenimento del riscaldamento a +1,5 gradi.
Peccato che le emissioni totali dei 73 paesi (la maggioranza di essi i più poveri e più fragili e penalizzati dal Cambiamento Climatico) corrisponde al 10% delle emissioni globali!!!.
Per fortuna i giovani di FFF ed Extinction Rebellion sono sempre più determinati a denunciare i Paesi ricchi che in modo molto irresponsabile hanno determinato il disastro ambientale e climatico, seminando distruzione e disperazione.
Insieme a loro, le donne del Women Gender Constituency, all'esterno, davanti ai cancelli della sede della COP25 gridavano Giustizia Climatica e Diritti Umani Ora! 
Reinterpretando l'Internazionale hanno rilanciato l'obiettivo di assicurare un FUTURO in un ambiente sano con diritti umani.
I giovani di FFF (e noi donne con loro) giudicano questa COP25 un' ulteriore occasione perduta. Ma insieme a loro  non ci arrenderemo  e agiremo come detonatori di coscienza climatica.

Madrid, 13 dicembre

12/12/19

IRAQ / LA FDIM DENUNCIA

Fermare la repressione violenta delle manifestazioni popolari in Iraq 

«A due mesi dall'inizio delle manifestazioni nel paese fratello Iraq - si legge in una nota del Centro regionale arabo della Federazione Democratica Internazionale delle Donne (FDIM/WIDF) - dove il 1° ottobre scorso la popolazione è scesa in strada con lo slogan "Sulla strada per riprendermi i miei diritti", per protestare contro la corruzione e le privatizzazioni, povertà e miseria, le sanguinose azioni repressive, con gas lacrimogeni e proiettili, hanno provocato centinaia di morti tra i manifestanti e migliaia di feriti, molti dei quasi rimasti disabili. Ciò ci induce a denunciare l'uso di forza eccessiva e la violenza contro i manifestanti che chiedono l'eliminazione della corruzione e della povertà, nonché il rispetto dei loro diritti umani.
Il Centro Regionale Arabo della Fdim/Widf invita tutte le organizzazioni femminili e internazionali a denunciare la violenza repressiva su manifestanti pacifici che chiedono i loro diritti. Chiede inoltre che si estenda la campagna di solidarietà, la più ampia possibile, con la popolazione irachena che ancora deve far fronte alle ingerenze esterne e al terrorismo dell’ISIS con le sue cellule attive e dormienti, oltre ad altri fenomeni lasciati dall'occupazione americana in Iraq e che aggravano l'attuale crisi.»

08/12/19

LIBANO / LE DONNE AL CENTRO


Le donne nel cuore della sollevazione popolare



Quello che ci si aspettava è successo!
Oggi ci troviamo in una situazione nuova senza precedenti, le donne libanesi sono profondamente coinvolte in tutto ciò che accade, di positivo o negativo, e partecipano alla ribellione della popolazione con decisione e determinazione.
Fin dagli anni '40, le donne libanesi difendono i loro diritti nelle città e nelle campagne e sono al centro della battaglia per la democrazia: sono state e rimangono in prima linea con l’obiettivo di stabilire uno stato civile non confessionale, democratico, come base e via di salvezza.
Le donne e gli uomini libanesi subiscono le conseguenze oggi le conseguenze delle ripetute crisi e le continue guerre settarie nel loro paese.
Questo è il motivo per cui le donne libanesi sono scese in piazza nella lotta sin dal primo momento della rivolta del 17 ottobre e rimangono ancora al centro, senza dubbio, fino al raggiungimento degli obiettivi della sollevazione popolare;

In primo luogo, la ribellione del nostro popolo deve continuare a intensificarsi e la condizione per lasciare la strada è concordare una soluzione politica ed economica che salvi il paese dal catastrofico sistema di quote settarie e confessionali e che getti le basi per uno stato prospero, laico e democratico.

In secondo luogo, sia adottata una legge elettorale al di fuori della restrizione confessionale settaria, sulla base della proporzionalità, e il Libano intero sia considerato un collegio elettorale.

Terzo: sia fermata la corruzione e siano recuperati i soldi saccheggiati.
Quarto: siano recuperate le proprietà marine e fluviali.
Quinto: sostegno ai settori economici produttivi.
Sesto: rifiuto della tassazione che colpisce le persone povere e a basso reddito e adozione di imposte progressive.
Settimo: indipendenza della magistratura e istituzione di un sistema contabile vero ed equo.
Ottavo: preservare la natura pacifica delle proteste, condannare ogni forma di repressione, punire qualsiasi infrazione contro manifestanti pacifici e rilasciare immediatamente le persone arrestate.
Nono: denunciare l'intervento straniero negli affari interni del Libano e le imposizioni della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale e le loro ricette per accelerare il collasso della già complicata e debole economia libanese, nonché i tentativi di deviare il movimento di protesta in una direzione estranea agli interessi del popolo libanese o di attentare alla pace civile del Libano.

L'Ufficio Regionale Arabo della Federazione Democratica Internazionale delle Donne

07/12/19

COLOMBIA/TERZA MISSIONE DELLA FDIM/WIDF


Accordi di pace in Colombia: le donne della Fdim ne verificano l'approccio di genere 

 https://www.fdim.org.sv/comunicado-de-prensa/



 La Federazione democratica internazionale delle donne (FDIM/WIDF), nell'ambito della Componente Internazionale per la verifica dell'approccio di genere nell'attuazione dell'Accordo Finale per la pace in Colombia, si rivolge agli organismi e le organizzazioni internazionali, alle organizzazioni sociali e agli enti governativi, alla Commissione per il monitoraggio, la promozione e la verifica dell'attuazione dell'accordo finale (CSIVI) e alla cittadinanza in generale per esporre in forma preliminare e sintetica gli elementi contenuti nella Relazione Finale della Terza Missione di Verifica.

1. In quanto organizzazione internazionale che monitora l'attuazione dell'approccio di genere nell'Accordo di Pace, chiediamo al presidente della Repubblica di Colombia Iván Duque di dare priorità al dialogo con le organizzazioni e i settori coinvolti nello Sciopero Nazionale e garantire la partecipazione cittadina e il rispetto della protesta sociale, come riportato nell'accordo di pace. Questi elementi sono nodali per rendere la Colombia un paese riconciliato.

2. La Terza Missione si rammarica della morte dello studente Dylan Cruz a causa dell'uso eccessivo della forza da parte dello Squadrone Mobile Antisommossa (ESMAD). Rivendicare pacificamente il diritto a istruirsi e vivere in una società più giusta non può essere causa di morte. Chiediamo alla Procura della Repubblica e all'Ufficio del Procuratore Generale della Nazione di procedere rapidamente nelle indagini su questo fatto e al contempo, in questo momento di dolore, inviamo un abbraccio ai parenti e compagni.

3. Ci preoccupa che, tre anni dopo la firma dell'Accordo Finale di pace, i progressi nella sua attuazione non siano significativi e che lo siano ancora meno le misure volte a sviluppare l'approccio di genere. Ciò ha portato alla persistenza di un divario tra l'attuazione generale dell'Accordo di Pace e l'Approccio di Genere, cosa che riproduce le iniquità e le disuguaglianze a danno delle donne, in particolare nei territori colpiti dalla guerra. È necessaria una maggiore volontà politica per mettere in pratica l'Approccio di Genere, nonché per fornire risorse sufficienti a garantire l'esecuzione delle misure.
4. Accogliamo con favore il rafforzamento della leadership femminile colombiana in un contesto di costruzione della pace, fatto che purtroppo ha come risvolto l’esposizione ulteriore delle donne ad atti criminali, in particolare quelle che guidano le lotte per l'accesso alla terra e la sostituzione di colture illecite. Dal maggio 2018 ad oggi, 24 donne sono state uccise, 447 sono state minacciate e 13 hanno subito attentati alle loro vite; secondo l'Ufficio del Difensore Civico, il 65% degli omicidi è avvenuto nelle aree rurali. Consideriamo che quest'anno sono aumentate le minacce alle leader indigene ed esigiamo dalle autorità competenti di attuare programmi a tutela della vita delle donne.

5. L'esistenza e la persistenza di gruppi armati nei territori stanno frenando il rafforzamento e la visibilità delle dirigenti donne, poiché creano ansia e incertezza, a causa di questa situazione in alcuni comuni le donne si sono tirate indietro e la loro partecipazione è diminuita.
6. Suggeriamo una maggiore articolazione tra i diversi strumenti di politica pubblica per la pace - come i Piani di Sviluppo con Approccio Territoriale (PDET), il Programma Nazionale Integrale per la sostituzione delle colture illecite (PNIS), i Piani d'Azione per la Trasformazione Regionale (PATR) - con il Piano di Sviluppo Nazionale e i Piani di Sviluppo Territoriale, e meno con il documento del Consiglio per la Politica Economica e Sociale (CONPES 3932 e CONPES 393), al fine di integrare l'Approccio di Genere e le azioni positive per le persone LGBTI.

7. Insistiamo sulla necessità d'imprimere maggiore velocità alla dotazione di terra per le donne rurali e indigene senza terra o con terra insufficiente, la dotazione di strade, nonché l'investimento in programmi di assistenza tecnica e finanziaria per progetti produttivi.

8. Suggeriamo al governo della Colombia di riprendere in modo completo il Programma Nazionale per la Sostituzione delle colture per uso illecito (PNIS), poiché ciò contribuirà alla ricostruzione del tessuto sociale e produttivo e dell'identità culturale delle comunità indigene e rurali. Rivolgiamo un appello rispettoso al governo perché, nella sua politica di guerra alla droga, eviti la militarizzazione dei territori, poiché essa genera angoscia e terrore.

9. Esiste un'importante articolazione tra gli Spazi Territoriali di formazione e re-incorporazione (ETCR) e di questi con le comunità, distinguendosi come una pratica di riconciliazione e coesistenza territoriale. In questo, le donne ex combattenti svolgono un ruolo importante grazie al loro dialogo con le organizzazioni della società civile, che ha permesso il riconoscimento delle loro conoscenze, esperienze e proiezioni della loro leadership.
10. Raccomandiamo al governo nazionale di migliorare le condizioni materiali degli ex combattenti, accelerando l'attuazione dell'accordo sui temi della dotazione di fattori produttivi come terra, credito, strade di accesso, in modo che i progetti produttivi siano sostenibili.
11. È necessario che il governo nazionale svolga le azioni necessarie per migliorare i servizi sanitari negli ETCR, con medici e infermieri permanenti, nonché programmi di salute sessuale e riproduttiva per le ex combattenti. In ambito educativo suggeriamo di eseguire programmi speciali, con nuove metodologie e pedagogie che tengano conto dei lavori di cura che diventano un vero ostacolo alla continuità degli studi.
12. Accogliamo con favore l'integrazione dell'approccio di genere nell'intero Sistema di Verità, Giustizia e Non Ripetizione, nelle sue commissioni e metodologie. Tuttavia, è necessario che il governo nazionale fornisca le risorse necessarie perché adempia alle sue funzioni, nei territori rurali. Suggeriamo inoltre di prorogare il periodo della Commissione di Chiarimento della Verità (CEV), poiché vi è un ritardo nell'attuazione degli impegni.
13. Nell'idea di andare avanti nella ricerca di una pace completa, suggeriamo al governo nazionale di riprendere il tavolo di dialogo esplorativo con l'ELN.




14. Riconosciamo l'importante ruolo svolto dall'Alta Istanza delle Donne nell'interlocuzione con i diversi attori dell'attuazione dell'Approccio di Genere, guadagnando in riconoscimento e legittimità: affinché questo ruolo continui a essere svolto è necessario aumentarne il finanziamento.
Le organizzazioni femminili, con le quali la FDIM ha cooperato e lavorato in Colombia per questa nuova tappa, si sono dichiarate RESISTENTI E INCISIVE verso il nuovo governo, che invitano a riconoscere il valore etico della pace, CREATIVE nell'esercizio della loro cittadinanza - perché sanno che bisogna trasformare le menti e i cuori bellicosi e ciò si può fare a partire da sfide ALTERNATIVE E AMOREVOLI PER LA COSTRUZIONE DELLA PACE – e nonostante i rischi conservano la loro speranza, poiché la rivendicazione dei loro diritti di donne ha insegnato loro quanto lungo possa essere il cammino verso un mondo migliore per tutte e tutti.
La grande sfida dell'attuazione dell'Approccio di genere è contribuire al superamento della oppressione e aumentare la partecipazione alla vita sociale e politica evitando la stigmatizzazione e l'invisibilità della sua leadership.
Infine, esortiamo le istituzioni statali ad approfondire gli sforzi necessari per raggiungere la corretta attuazione dell'accordo di pace, nei suoi contenuti, tempi e impegni definiti, nonché a pensare a una strategia per accelerare la presenza dello Stato in modo efficace nei territori e le zone prioritarie.
A tal proposito e conseguentemente con gli obiettivi di questa missione, oggi, 3 anni dopo la firma dell'accordo, la FDIM ribadisce il suo sostegno al processo di pace, alle donne e al popolo colombiano.
Non desisteremo finché la Colombia non sarà un paese che avrà raggiunto la pace con giustizia sociale e piena democrazia!

Bogotá D.C, Colombia, 29 novembre 2019.

03/12/19

COLOMBIA/La FDIM denuncia la sanguinosa repressione poliziesca


Per la difesa della vita e del diritto alla protesta sociale, le donne levano la voce

Lo studente colombiano Dylan Cruz ucciso dagli Squadroni Antisommossa durante lo sciopero nazionale

La Terza Missione internazionale della FDIM di verifica dell'attuazione dell'Accordo di Pace firmato tra lo stato colombiano e le FARC-EP, insieme alle organizzazioni nazionali di donne che difendono la pace e i diritti umani, lamentano la morte del giovane manifestante Dylan Cruz per presumibile uso eccessivo della forza da parte dello Squadrone Mobile Antisommossa (ESMAD). 

Protestiamo perché si è voluto mettere a tacere la voce di uno studente che stava ultimando il suo percorso scolastico ed era sceso in strada pacificamente per esigere il suo diritto ad istruirsi e a vivere in una società più giusta. In questo momento di dolore inviamo un abbraccio alla sua famiglia e ai suoi colleghi.

Chiediamo che le istituzioni, il Ministero e la Procura avanzino nelle indagini davanti a questo fatto che oggi indigna il popolo colombiano, così come davanti ad altre denunce di cittadini che sono state fatte per uso eccessivo della forza da parte delle istituzioni di polizia.
Come organizzazione internazionale che accompagna e verifica l'attuazione dell'approccio di genere nell'Accordo di pace, chiediamo al governo nazionale del presidente della Repubblica di Colombia, Iván Duque, di dare priorità al dialogo con le organizzazioni e i settori aderenti alla convocazione dello sciopero nazionale, nonché di garantire l'attuazione globale dell'Accordo di Pace che sancisce misure per rafforzare la partecipazione dei cittadini e il rispetto delle proteste sociali, come elementi nodali per fare della Colombia un paese riconciliato.

Troviamo, nella domanda sociale della popolazione colombiana, voci che insistono sulla democratizzazione della società e l'abilitazione di politiche sociali che consentano efficacemente di superare lacune, disuguaglianze e ingiustizie storiche, ecco perché come FDIM ci uniamo a queste richieste e in particolare a quelle delle donne colombiane per una vita degna e pacifica.

Valledupar, 26 novembre 2019.

Federazione internazionale delle donne democratiche (FDIM)

20/11/19

Non una di meno a Roma il 23 novembre



Contro la vostra violenza, la nostra rivolta! Manifestazione nazionale convocata da Non una di meno

Il prossimo 23 novembre la marea femminista tornerà a inondare le strade di Roma contro la violenza patriarcale, economica, istituzionale al grido di Non Una Di Meno. Scendiamo in piazza per affermare che l'unico cambiamento possibile è a partire dalla rivolta permanente: dalle pratiche, dalle lotte, dalla solidarietà femministe.

Ogni 72 ore in Italia una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza, solitamente il suo partner; 3 femminicidi su quattro avvengono in casa; il 63% degli stupri è commesso da un partner o ex partner; continuano le violenze di matrice omolesbotransfobica. La violenza non ha passaporto né classe sociale, ma spesso ha le chiavi di casa e si ripete nei tribunali e nelle istituzioni.

Per questo il lavoro dei centri antiviolenza femministi va riconosciuto, garantito e valorizzato. Difendiamo e moltiplichiamo gli spazi femministi e transfemministi, come la casa delle donne Lucha y Siesta di Roma sotto minaccia di sgombero!

L'indipendenza economica e la libertà di movimento sono le condizioni fondamentali per affrancarsi dalla violenza. Ma servono atti concreti: un salario minimo europeo, un reddito di autodeterminazione svincolato dalla famiglia e dai documenti di soggiorno. Serve abolire i decreti sicurezza e le leggi che mantengono in condizione di ricattabilità le persone migranti, e in particolare le donne!

Porteremo in piazza i simboli che il movimento ha costruito, i pañuelos fuxia mutuati dalla campagna argentina per l'aborto legale, i pugni di fuoco simbolo di rivolta, le maschere delle luchadoras della campagna per Lucha y Siesta. Saremo in piazza senza spezzoni organizzati né bandiere e simboli di partito e sindacali.

Il 24 novembre ci incontreremo in assemblea nazionale nel quartiere San Lorenzo, per preparare lo sciopero globale femminista dell'8 marzo 2020.
Il 22 novembre, Non Una di Meno parteciperà alla Trans Freedom March a Roma.

#23N #nonunadimeno #rivoltapermanente


L’Ufficio stampa di «Non Una di Meno»

13/11/19

Bolivia / #Noalcolpodistato / CMB



Ripudiamo il colpo di stato orchestrato dall'impero e dalle élites della regione americana contro il popolo boliviano e il presidente Evo Morales




La Confederazione delle Donne Brasiliane (CMB), affiliata alla Federazione Internazionale Democratica Femminile (WIDF), condanna categoricamente il colpo di stato perpetrato in Bolivia dalle élites economiche locali e regionali, supportate dal governo degli Stati Uniti, contro il legittimo presidente Evo Morales. 

Tra i progressi e le battute d'arresto della lotta popolare latinoamericana, il colpo di stato che ha portato il presidente Evo Morales fuori dal governo boliviano è senza dubbio uno dei contraccolpi più violenti degli ultimi tempi. Il 10 novembre, il malcontento di quelle élites si è tradotto nell'ultimatum ant-patriottico e antidemocratico lanciato al governo popolare.

Noi crediamo che la leadership di Evo Morales abbia assicurato alla Bolivia un governo che ha rappresentato gli interessi della maggioranza della popolazione, dei popoli indigeni, dei lavoratori/lavoratrici e dei giovani; esso ha operato per assicurare la fine dell'analfabetismo, per realizzare urgenti politiche sociali in un paese ricco ma disuguale, conseguire risultati costituzionali storici come la nazionalizzazione delle risorse energetiche nazionali più strategiche, il rafforzamento dell’economia pubblica.

La Bolivia è il paese in cui le donne sono la maggioranza in parlamento. È il paese che ha drasticamente ridotto la povertà.

A questo punto, chiediamo che sia rispettata la democrazia e sia fermata l’ondata di violenza e razzismo scatenati nei confronti dei settori sociali più vulnerabili. Chiediamo alle forze politiche e sociali di non regredire rispetto ai progressi sociali e culturali raggiunti.

Sollecitiamo le organizzazioni internazionali e i governi democratici della regione americana a contribuire al ripristino della democrazia e delle garanzie per tutti di una vita in pace, giustizia sociale e convivenza democratica nel paese fratello.

San Paolo del Brasile, novembre 2019

12/11/19

Bolivia/No al colpo di stato /FDIM




La Federazione Democratica Internazionale delle Donne-FDIM condanna il colpo di stato consumato in Bolivia contro il presidente Evo Morales e il vicepresidente Alvaro Garcia Linera, promosso dalle élites fasciste, oligarchiche e razziste che, con la complicità dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), pretendono di ripristinare i privilegi perduti e il controllo sulle risorse naturali e di sottomettere le popolazioni indigene che costituiscono la maggioranza assoluta della popolazione Boliviana.

Condanniamo le persecuzioni e i crimini che in questo momento si stanno commettendo da parte delle forze armate e della polizia boliviana, contro i simpatizzanti e gli attivisti del Movimento al Socialismo (MAS), che reclamano il ritorno della democrazia e del compagno Evo Morales Ayma.

Denunciamo davanti alla comunità internazionale il sequestro, gli attacchi e i saccheggi commessi contro i funzionari del governo di Evo Morales e dei suoi familiari, così come il moltiplicarsi di gruppi terroristi paramilitari che colpiscono e massacrano la popolazione civile.

Chiamiamo la comunità internazionale a sostenere il popolo boliviano, a denunciare questo colpo di stato e ad esigere che cessi la persecuzione e la mattanza da parte delle forze di repressione fasciste.

Esigiamo che gli organismi internazionali preposti a vigilare sul rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche e civili si pronuncino e non riconoscano nessun governo golpista che pretenda di imporsi col terrore e la repressione.

Non permettiamo il ritorno delle dittature golpiste in America Latina!
Respingiamo il razzismo, la misoginia, il fascismo in tutto il mondo! No pasarán!

#ElPuebloBolivianoNoEstáSolo
#EvoNoEstáSolo
Presidenza della FDIM
El Salvador, 11 novembre 2019

28/10/19

LIBERTÀ DELLE DONNE XXI - CONVEGNO A ROMA 2019



«LA VITA AL LAVORO, IL SENSO DEI LAVORI. Pensieri e pratiche femministe»




report di Paola Sozzani per La Città Futura

Roma. Molto frequentato e intenso il convegno del 11, 12 e 13 ottobre alla Casa internazionale delle Donne, in via della Lungara a Roma, indetto dal gruppo di lavoro Libertà delle donne nel XXI secolo in partnership con la stessa Casa internazionale e Transform Europe: una quarantina di relatrici, attiviste e studiose internazionali di diverse generazioni hanno apportato contributi di analisi, resoconto di casi emblematici e riflessioni sul tema del Lavoro, sul suo senso per le donne oggi, e sulle prospettive che i nuovi lavori possono dare alle più giovani: una riflessione in ottica femminista, che si è sforzata di tenere insieme teoria e pratiche, desideri e realtà, ricerca del lavoro e ricerca di sé.

La necessità di un’economia politica femminista che ci consenta di svelare la connessione fra diseguaglianza e radici sociali della violenza e delle guerra è stata la chiave del significativo intervento della tedesca Heidi Meinzolt, responsabile per l’Europa della WILPF-Women’s International League for Peace and Freedom, e coordinatrice del gruppo di lavoro women&gender della Civic Solidarity Platform dell’OSCE- Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa istituita in seguito agli accordi di Helsinki del 1975.
Da esperta in tema di sicurezza delle persone, rispetto dei diritti delle donne e della pace, prevenzione e soluzione non violenta dei conflitti, con particolare attenzione al ruolo delle donne nei processi di pace, Meinzolt ha approfondito l’impatto delle politiche neoliberiste sui contesti sociali e sull’innesco di misure di austerità e conseguente impoverimento, crescita delle spese militari, perdita dei diritti umani e povertà delle donne.
La relatrice tedesca ha ricordato come non sia stato di aiuto nell’immettere dinamiche trasformative nel modo di fare economia negli ultimi venti anni neanche il Global Compact for Business and Human Rights, un patto volontario, senza però vincolo legale, per implementare un insieme di valori chiave nelle aree dei diritti umani, delle donne, delle tutele sindacali e standard del lavoro, legalità, contrasto alla discriminazione e al lavoro minorile e tutela ambientale. Si tratta di un’iniziativa accesa a New York nel 1999 dalle Nazioni Unite di Kofi Annan con i business leader riuniti a Davos, e nel corso di questi decenni è stato sottoscritto dai top manager di oltre 18.000 aziende da 160 Paesi del mondo che, aderendo a una piattaforma di valori condivisi e linee guida, e attraverso un forum di verifica periodico, si propongono di contribuire a una nuova fase della globalizzazione che dovrebbe essere caratterizzata dal coinvolgimento di aziende, sindacati e associazioni di categoria con azioni precise di sostenibilità nel lungo periodo, cooperazione internazionale e partnership, con il fine di immettere nelle leggi economiche anche la prospettiva di portatori di interesse sociale diverse dalle imprese, quali l’ambiente e il clima, le minoranze discriminate di tipo etnico, di genere e di orientamento sessuale, etc.

Un ottimismo progressista che si infrange però sulla realtà del Business globalizzato fatto oggi di imponenti cambiamenti climatici, recessione economica, competizione per le risorse divenute insufficienti per garantire i tassi di crescita: uno scenario che allarga il divario economico fra Paesi e produce nuovi conflitti e guerre che negli ultimi anni sono apparsi esplodere in contesti geopolitici locali apparentemente circoscritti – spesso connotati da dinamiche di tribalismo – ma che a un’analisi attenta sono il riflesso e il portato di interessi di profitto globali, e criticità volutamente immesse nel sistema dal neoliberismo forzato dalle élite economico-politiche sulle masse della popolazione mondiale.
Nei conflitti bellici l’allentamento e la dissoluzione della compagine sociale sovvertita dalle dinamiche militari – con immancabile corollario di pulizia etnica, rapimenti, stupri di guerra e sostituzione di popolazioni – espone le donne in maniera spropositata alla violenza e allo sfruttamento sessuale, come abbiamo visto emblematicamente succedere nella guerra contro l’Isis/Daesh e nei conflitti africani. Questa condizione di insicurezza persiste poi nelle fasi – o intervalli – postbellici connotandosi stabilmente come Tratta verso il Nord del mondo e traffico di esseri umani. L’aggressività della dinamica capitalista nelle comunità rurali del Sud America, portata avanti dalle multinazionali anche recentemente in Amazzonia, produce devastazioni ambientali inusitate, e l’impatto violento e il prezzo maggiore lo pagano le donne e i bambini, ricacciati e costretti in contesti depauperati, inquinati e privi di qualsiasi diritto e protezione sociale.

Nel continente Europa il capitalismo finanziarizzato sta perseguendo la flessibilità nel lavoro, l’outsourcing, cioè le esternalizzazioni e le delocalizzazioni selvagge, e i conseguenti licenziamenti di massa, per trarre profitto dal dumping intraeuropeo e, nel caso delle multinazionali, da un regime di sostanziale impunità ed “evasione fiscale” legalizzate: secondo i dati della CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, le big corporations pagano il 5% di tasse sui profitti godendo un vantaggio sistematico rispetto alle altre categorie produttive che sono tassate al 42,4%. Questi dati si riferiscono al 2017, con l’Italia al sesto posto per imposizione fiscale tra i grandi Paesi industrializzati. Sempre più la finanziarizzazione dell’economia – una dinamica parassitaria in cui si vorrebbe che il denaro creasse altro denaro senza immettere lavoro nelle società – mette le ali ai paradisi fiscali anche all’interno della UE, sottraendo risorse e minando pesantemente il welfare europeo, che aveva tentato timidamente dal dopoguerra di “socializzare i costi” della “riproduzione sociale” gravante solo sulle spalle delle donne. Ora il welfare sta declinando rapidamente e sono soprattutto le donne a pagarne il conto: dover scegliere se lavorare o fare figli (in Italia nel 2018 ci sono stati 35.000 abbandoni lavorativi di donne con figli).
Si allarga anche la fascia dei working poors: nel 2017 un lavoratore su dieci rientrava in quest’area grigia, cioè di quanti, soprattutto donne, pur avendo un impiego sono ricacciati in una condizione di povertà relativa. Intanto al crollo del welfare sociale la ricetta capitalistica contrappone la privatizzazione e conseguente monetizzazione dei rischi sociali – vera manna per enti assicurativi e Fondi di investimento – peccato che le europee guadagnino troppo poco per permettersi assicurazioni e secondi e terzi pilastri pensionistici.
Al culmine di questo “psicodramma” economico anche gli Stati, aggrediti dalle agenzie di rating, vengono batostati dalle politiche di austerità imposte dagli organismi di controllo sovranazionali che hanno abbracciato la filosofia del “debito pubblico”.
In questo contesto la questione migratoria – malgestita e maldigerita – anziché essere letta come epifenomeno e conseguenza delle contraddizioni della attuale fase capitalistica, ha finito per intercettare e aumentare il senso di frustrazione del corpo sociale europeo, che la utilizza come “capro espiatorio” deresponsabilizzante, mentre si assiste all’esplosione di grandi conflitti sociali tra cui emblematiche sono state le recenti proteste dei Gilet Gialli nei principali centri urbani della Francia.

Questa fase dell’Europa si traduce a livello antropologico in individualismo sociale, sfiducia istituzionale, diserzione dal voto e dalla partecipazione, mentre a livello politico assume un volto ideologico, con la rinascita di istanze identitarie, da cui emergono atteggiamenti di nazionalismo esasperato, populismo e razzismo, attacco ai diritti delle donne, come si osserva in particolare nei Paesi del Gruppo di Visegrad e in Italia, ma un po’ dappertutto in Europa: atteggiamenti che si coagulano in rivendicazioni localistiche – delle minoranze Sudtirolesi in Italia e dei Danesi in Germania – e in istanze di “decontestualizzazione” e autonomia, come in Catalogna o nella richieste di “andarsene” da parte delle ristrette élite economiche della Brexit inglese.
Sul pericolo di arretramento dei diritti delle donne nei paesi centro europei si è concentrato anche l’intervento dell’ungherese Borbála Juhász, storica del femminismo e attivista in Ungheria della European Women’s Lobby. La strumentalizzazione del dibattito sul “gender” nell’Ungheria di Orban, e l’enfasi sul ruolo tradizionale della donna nella famiglia, posta da ideologie nazionalistiche e religiose reazionarie, è stato il pretesto per rilanciare una politica demografica familistica che attraverso strumenti come il congedo di maternità di tre anni per le mamme sta espellendo le donne dal mercato del lavoro.
Meinzolt ha anche portato l’esempio della società tedesca dove lo split sociale e il differenziale nelle opportunità sono in questi anni drammaticamente aumentati: traumi che producono paura e frustrazione, e grande rabbia sociale che innesca un cortocircuito di atteggiamenti di ansia, diffidenza, e aumento della violenza anche nelle relazioni interpersonali e di genere: «Anche nel cuore dell’Europa la gente sta acquistando armi, e ci troviamo ormai in presenza anche da noi di una popolazione armata: il 25% dei tedeschi tiene in casa armi leggere a cui ricorre per difesa e sempre più in caso di violenza domestica: si registra infatti un aumento di omicidi e femminicidi».

Dalla crisi del 2008, in Germania il mantra di “mettere le donne al lavoro” e del loro “Business empowerment” per sostenere la società viene ancora continuamente ripetuto, e oggi rimotivato secondo la precettistica della moderna womenomics, senza mai mettere in discussione le contraddizioni prodotte dalla crescita economica capitalistica. Anche nella discussione sul clima, anticipata dalla grande tradizione dei Verdi tedeschi, la pregiudiziale che viene sempre portata dalla politica è che «gli interventi correttivi devono salvaguardare la crescita». Nelle Università tedesche in generale non si prendono in considerazione modelli alternativi, ma alcune economiste hanno incominciato a introdurre nell’insegnamento elementi di economia femminista alla ricerca di un’alternativa alla crescita spasmodica e obbligatoria. «A questo punto è compito delle donne e delle femministe in particolare mettere in discussione questi assiomi: le donne spagnole, e perfino le svizzere a modo loro, l’hanno fatto nel 2018, scendendo in strada e reclamando un cambiamento di sistema e della filosofia stessa del lavoro, mentre le donne tedesche per ora si rifiutano di ripetere la storica esperienza delle ‘suffragette’ per chiedere i propri diritti».
Un atteggiamento che, secondo Heidi Meinzolt, il movimento delle donne contemporaneo dovrebbe rilanciare in tutta l’Europa, mutuando per esempio la campagna lanciata da WILPF Move the money from war to Peace per ridurre le spese militari e ri-orientarle verso voci di welfare sociale come lavoro, salute, scuola. Le donne devono spingere a livello istituzionale governi e UE a implementare gli obiettivi della Piattaforma di Pechino promossa dall’ONU nel 1995 e rinnovata in varie Conferenze Mondiali delle donne: un impegno sottoscritto da quasi tutti i Paesi europei per implementare 12 aree critiche per le donne, che sono state enfatizzate anche dalla recente campagna ONU “Pianeta 50-50 entro il 2030”: povertà, istruzione e formazione, salute, diritti delle bambine e violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti fondamentali, media, ambiente.

Annick Coupé, sindacalista e presidente di Attac France, associazione che si batte per I diritti ambientali, della casa, del lavoro e contro l’impunità delle multinazionali ha portato il caso Francia come esemplare della situazione dei paesi europei a sviluppo consolidato dove – con 16 milioni di uomini e 14 milioni di donne nella forza-lavoro – a fronte di 40 anni di occupazione di massa, persiste l’ineguaglianza delle donne sia nel lavoro domestico – che resiste nelle famiglie a ogni redistribuzione tra i generi – sia nel mercato del lavoro sotto vari aspetti: il tasso delle donne sottoccupate, cioè di quelle costrette a lavorare meno di quanto vorrebbero, resta alto e il lavoro discontinuo e part-time le vede all’82% del totale, riflettendosi in un futuro di pensioni povere e svilimento sociale per le donne che già oggi subiscono un differenziale pensionistico pari al 40%, mentre per le occupate il differenziale salariale con gli uomini raggiunge il 20%.
Le donne nella loro generalità in Europa non sono state in questi decenni risparmiate dall’aderire a quel dispositivo messo in gioco dal capitalismo sviluppista che è consistito nell’espansione della (bassa) classe media, una dinamica del desiderio che ha saputo creare l’illusione di una forma di mobilità sociale che appaga soprattutto il bisogno e le aspirazioni di autorealizzazione individuali. E allora nel corso delle generazioni novecentesche molte si sono gettate negli studi e nel perseguire carriere professionali un tempo riservate agli uomini: peccato che nel mercato del lavoro francese oggi le donne continuino a vivere nel de-mansionamento cronico – 2/3 dello Smic, il salario minimo introdotto in Francia nel 1950, finisce nelle buste paga delle donne – con limitate filiere professionali accessibili, blocco delle carriere, prepensionamento forzato.
Soprattutto, le giovani donne oggi sono costrette a vivere all’ombra della sottoccupazione e di salari parziali frutto di “lavoretti” e patchwork esistenziali insostenibili. L’alta scolarizzazione raggiunta dalle giovani donne e l’alta formazione universitaria che le vede ben più protagoniste dei maschi nelle lauree e nei dottorati non sono più dinamiche capaci di garantire un qualche ascensore sociale al “gentil sesso”. Non sono bastate dunque le leggi a garantire diritti sociali e lavorativi reali alle donne all’interno del costrutto patriarcale delle società occidentali: la società e il mondo del lavoro resistono al desiderio di uguaglianza femminile e potranno essere investiti dal cambiamento solo attraverso un’azione di decostruzione culturale che passi per la messa in discussione del ruolo della donna, prima che nel lavoro, nella politica, nella famiglia e nelle relazioni di genere fra donna e uomo.

Anche l’italiana Claudia Candeloro ha evidenziato come in ragione del processo di integrazione europea la normativa italiana sul lavoro abbia subito grandi cambiamenti che hanno fatto deragliare il sistema italiano delle tutele da una fase di “universalità” dei diritti guadagnata sulla scia delle lotte del movimento operaio degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento alla fase attuale, in cui vaste categorie di lavoratori e lavoratrici nella New Economy non sono più tutelati nei diritti sindacali, del lavoro e della conciliazione famiglia-lavoro. Accanto alla erosione di tutele storiche come il diritto al reintegro nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta causa (che impegnava a tempo pieno avvocati e giudici lavoristi durante le crisi industriali tra gli anni Sessanta e Novanta), si è evoluta una normativa antidiscriminatoria che ambirebbe alla tutela rafforzata di gruppi di lavoratori considerati potenzialmente a rischio di discriminazione a motivo della loro ideologia, età, genere, orientamento sessuale, o condizioni di disabilità. Candeloro denuncia come una siffatta normativa, lungi dall’aver garantito una tutela rafforzata alle lavoratrici – peraltro rimaste oggetto di ricatto su più fronti in ambito lavorativo – le costringa invece ad assumere l’onere quasi sempre insostenibile di dimostrare che la violazione dei loro diritti è conseguenza di un “atteggiamento discriminatorio”, derubricando di fatto a conflitto inter partes ( di natura privatistica) la fondamentale lesione di un diritto alla tutela nel Lavoro che è e deve restare universale.

Skerdilajda Zanaj – Economista, docente associata e delegata di Genere all’Università del Lussemburgo, nonché consulente del governo albanese per la regolamentazione economica e il processo di adesione all’Unione Europea – ha presentato il caso del suo paese, l’Albania: la nazione europea più povera ma con un tasso di partecipazione delle donne al lavoro maggiore che in Italia. Nella Culture Economics le ricerche recenti indagano, formalizzano attraverso dati matematici ed enfatizzano l’impatto dei differenziali di formazione, genere, etnia, e altre variabili socio-economiche tra le discriminanti nell’accesso al lavoro e a migliori opportunità occupazionali, soprattutto dopo l’avvento della New Economy. Con riferimento a 4 fattori fondamentali attivi sul divario di Genere nel lavoro nella generalità dei Paesi – fattori storico-geografici, norme sociali e loro trasmissione, sviluppo economico e povertà – Zanaj ha evidenziato come in Albania l’atteggiamento sociale nei confronti delle donne e dei loro ambiti lavorativi sia stato diverso durante l’occupazione ottomana per cinque secoli dal 1478 al 1912, l’occupazione italiana e tedesca dal 1939 al ‘43 e nell’esperienza della Repubblica Socialista di Albania tra ’46 e 1991.
Nel 2003 uno studio realizzato da Guiso, Sapienza e Zingales aveva evidenziato come, pur con differenziali fra le diverse religioni, le persone religiose e i fedeli attivi esprimono meno supporto verso i diritti delle donne e verso un ruolo delle donne all’interno della famiglia diverso da quello tradizionale. Lo studio Telhaj&Murphy del 2019, ha analizzato secondo seri criteri econometrici la variabilità della partecipazione al lavoro delle donne nel periodo “antireligioso” successivo al 1967, anno in cui l’Albania si era dichiarata primo paese ateo al mondo, vietando ogni forma di espressione religiosa. Dalla ricerca emerge il profondo impatto della religione sui ruoli di genere e l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Da paese “feudale” fino al 1946, dove la donna lavorava nei campi, sostanzialmente esclusa dal mercato del lavoro, in 20 anni sono state guadagnati grandi diritti al lavoro per le donne, prima nella fase dell’Albania comunista, e poi il trend è continuato grazie alla trasmissione intergenerazionale tra madre e figlia albanese del nuovo modello culturale di donna-lavoratrice e le donne non sono più “tornate a casa”. Oggi l’accesso alla formazione universitaria delle donne albanesi è in costante crescita e la loro partecipazione al mercato del lavoro è esplosa raggiungendo il 57,7% con un incremento veloce di 8 punti negli ultimi 5 anni, mentre il divario salariale fra donne e uomini è di solo 5,4 punti percentuali, quando la media mondiale è del 18,4% (dati ILO-International Labour Organization, 2018).

Tra gli studenti universitari albanesi il 44,6% sono maschi e il 67,9% sono femmine e gli stage di specializzazione all’estero (Tirana-Lussemburgo, per es.) vedono protagoniste quasi solo le studentesse, che si mettono in gioco molto più dei colleghi maschi. Oggi le donne in possesso del titolo di professore ordinario nell’università di Tirana sono il 45,2%, mentre in Lussemburgo sono il 14,2%, e nel 2017 la presenza femminile negli organi accademici dirigenti a Tirana è stata del 38,1%.
Un aspetto particolare è poi la propensione e l’alto numero di studentesse iscritte alle facoltà di scienze esatte – le cosiddette STEM: Science, Technology, Engineering and Mathematics – più alto della Francia e Belgio messi insieme (Dati EUROSTAT), pur avendo l’Albania un’unica università pubblica fondata nel 1957, l’Università statale di Tirana, da cui è gemmata divenendo autonoma l’Università Politecnica. Fondato nel 1957, l’ateneo di Tirana oggi comprende sette facoltà con oltre trenta Dipartimenti che coprono le scienze umane e sociali, economiche, naturali e biomediche. Gli studenti immatricolati sono circa 14.000 e i professori 600. Il fenomeno della propensione alle Stem sembra riflettere però anche una scarsa libertà di scelta delle donne ed è stato osservato in vari paesi in via di sviluppo come Algeria, Tunisia, Vietnam, Albania, Indonesia, dove la scelta delle competenze diventa pregiudiziale per l’inserimento lavorativo nei campi tecnologici dei nuovi lavori, mentre nei paesi a sviluppo socio-economico di più antica data come quelli nord e centro europei (Svezia, Irlanda Svizzera, Germania, Francia, Italia) le donne continuano a scegliere secondo il proprio “gusto” valoriale che appare tuttora legato a modelli culturali tradizionali (facoltà umanistiche, scienze sociali o dell’area medica) che non intercettano le possibilità lavorative offerte dal modello di sviluppo globalizzato e sempre più tecnologizzato.

Skerdi Zanaj sottolinea anche come, oltre all’alta formazione, un altro fattore che impatta sul lavoro delle donne sono le politiche di genere dello Stato (Gender Policies) risultato dell’attività legislativa prevalentemente parlamentare: ebbene, queste politiche di genere aumentano e si qualificano proporzionalmente alla presenza nei Parlamenti nazionali e sovranazionali di un alto numero di deputate e senatrici donne: in Albania si è passati dal 18% del 2013 al 29% del 2018. Molto interessante a questo proposito lo Studio Lippman del 2019 che in Francia ha analizzato l’attività parlamentare nell’arco del 2017, in cui sono stati presentati circa 300.000 emendamenti parlamentari. Dallo studio emerge come le donne parlamentari difendano gli interessi e i diritti delle donne più dei deputati maschi, concentrando la propria attività legislativa sulle questioni di genere, seguite dai temi riguardanti i minori e la salute. I parlamentari maschi hanno invece una maggior probabilità di presentare emendamenti sulle questioni elettorali e militari. Le donne in Parlamento dunque hanno il doppio delle probabilità di avviare emendamenti relativi alle donne, ed è quindi evidente come le Quote di Genere negli ambiti della rappresentanza politica producano uno spostamento delle decisioni politiche e una maggiore priorità per le questioni femminili in Parlamento.

Enrica Rigo, professora associata di Filosofia del diritto all’Università Roma Tre, è una ricercatrice sui temi giuridici della cittadinanza anche in rapporto ai confini esterni dell’Europa e in rapporto al processo di allargamento europeo e alla critica postcoloniale. Riga è anche attivista a Roma del movimento Non Una di Meno. Dalla sua esperienza di direttora della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza ha riportato osservazioni sulle contraddizioni del rapporto fra donne autoctone e donne migranti: richiamandosi agli scritti di Sara Farris e raccontando l’esperimento sociale di Barbara Ehrenreich – la saggista, accademica e opinionista socialdemocratica statunitense che a fine anni novanta visse in prima persona l’esperimento sociale di sopravvivere tre mesi lavorando con un salario minimo come cameriera, donna delle pulizie e commessa nei supermercati Walmart – ci ha ricordato come la liberazione delle donne occidentali si sia poggiata storicamente e continui a fare perno sulla subordinazione delle donne migranti.
Denunciando come la mobilità dei lavoratori in Europa sia oggi appiattita sotto una definizione e regolamentazione legata al solo lavoro produttivo, Rigo ha analizzato il ruolo che la mobilità umana, in particolare delle donne, svolge nel processo di riproduzione sociale e della forza-lavoro, come emerge anche dagli studi di Silvia Federici e Alisa del Re, ed evidenziando il grande apporto delle donne migranti alle società di arrivo (sia in termini fiscali e contributivi sia in termini di lavoro di cura e di welfare sociale per donne, bambini e anziani) e naturalmente alle società di partenza in termini di rimesse economiche, fondamentali per la sopravvivenza di interi nuclei familiari nel paese d’origine.

Sulle tematiche migratorie è intervenuta anche Edda Pando, peruviana giunta in Italia da Lima vari anni fa, nel 1991, e fondatrice di ARCI Todo Cambia, dell’Università Migrante di Milano e della rete Milano senza frontiere; come attivista per i diritti dei migranti sostiene l’autorganizzazione dei migranti nel capoluogo lombardo e percorsi interculturali fra immigrati e autoctoni. Pando parla di «paradigma migrante», nel senso che i lavoratori e le lavoratrici stranieri immigrati in Italia rappresentano sempre più ciò che il sistema vorrebbe estendere come modalità generalizzata di sfruttamento verso i lavoratori e le lavoratrici autoctone: precarietà assoluta, assenza di qualsiasi stabilità lavorativa, mancanza di tutele sindacali, ricattabilità costante e perenne instabilità materiale ed esistenziale.
Enrica Rigo ed Edda Pando hanno posto questioni che chiedono una risposta urgente e politica: «Per quale motivo in Italia i Decreti Flussi non si fanno più dal 2011 e in Italia si entra solo per ricongiungimento o Asilo? Integravamo 170.000 lavoratori stranieri l’anno; ora dove li prendiamo e perché preferiamo prenderli dalle migrazioni forzate? Tra il 2014 e il 2017 le donne richiedenti asilo sono quadruplicate e si muovono per lo più sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre su quella Balcanica più del 50% sono donne e bambini. Perché stiamo chiudendo le frontiere proprio adesso? Perché non si rinnovano i permessi di soggiorno? Perché la raccolta di pomodori viene pagata 3 euro l’ora e non si costruiscono case ma ghetti per i migranti impiegati nei lavori agricoli? Perché si negano i diritti di cittadinanza e lo ius culturae, se non per colpire le condizioni di vita delle donne e degli uomini migranti, perpetuando e allargando le occasioni del loro sfruttamento?

La femminista italiana Cinzia Arruzza è professoressa presso la New School of Social Research di New York. Recentemente, insieme a Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya, ha pubblicato il volume «Un Manifesto per un femminismo del 99%». Durante il convegno alla Casa delle Donne di Roma, Arruzza è intervenuta in collegamento video riproponendo alcune delle tesi, espresse nel libro, sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla luce della nuova onda femminista su scala internazionale: «Il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi decenni era diventato egemonico per l’estinguersi delle mobilitazioni e delle lotte in tutto il mondo. Con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo a un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che persegue l’eliminazione delle diseguaglianze di genere con strumenti accessibili solo alle donne che appartengono all’élite: si pensi al modello incarnato da personalità come Hillary Clinton o altre donne che hanno perseguito un empowerment che le mette comunque in posizioni apicali e di privilegio; oppure si pensi al femminismo predicato dalle destre che in Europa, soprattutto nei paesi dell’Est, sta diventando un alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti delle donne”, come ha spiegato Sara Farris nel suo libro “In the Name of Women′s Rights: The Rise of Femonationalism”. Invece il femminismo del 99% è anche apertamente anticapitalista e antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità, non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. È parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano per un mondo che sia migliore per il 99%».
«Io penso che la recente nuova onda femminista è l’unica mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e uomini di tutto il mondo. Inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento femminista: penso soprattutto all’Argentina, ma anche alla Spagna o all’Italia. Credo che coloro che sono sinceramente interessati a un ritorno della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda femminista. Dovrebbero smettere di pensare che le mobilitazioni femministe sono un’antitesi della lotta di classe o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. Vorrei invitare a pensare al nuovo movimento femminista come a un processo di radicalizzazione e politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici – molto spesso giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate sessualmente nei luoghi di lavoro – sta emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista».

A conclusione dell’edizione 2019 di “Libertà delle donne nel XXI secolo”, a far sintesi dei molti temi dibattuti, rimbalzano le domande poste da Nicoletta Pirotta di Iniziativa Femminista Europea: «Come si ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare l’ideologia della domesticità e lo sfruttamento della catena globale della cura? È sufficiente rivendicare parità di salario, tempi di lavoro compatibili con la riproduzione, diritto alla maternità e fine delle discriminazioni di genere se non si intaccano le divisioni sessiste e razziste del mondo del lavoro? Un salario minimo europeo e un reddito di autodeterminazione possono costruire per le donne percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza? Le esperienze di autogestione e di neo-mutualismo, che stanno coinvolgendo molte donne e alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale possono essere obiettivi da lanciare su scala europea? Come diffondere la pratica dello sciopero globale delle donne, lanciato da Non Una di Meno contro l’oppressione in ogni ambito della vita e come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione, la femminilizzazione e la razzializzazione del lavoro?».