Lavoro agile? |
L’insidia nascosta nel “lavoro agile”:
potrebbe rivelarsi un cattivo espediente del capitalismo per caricare sulle
spalle della popolazione femminile, relegata in casa, il lavoro per il mercato e
insieme il lavoro familiare non retribuito, sopperendo alla scarsità cronica di
servizi sociali…
di Liliana Frascati*
Prima dell’epidemia di corona virus la
locuzione smart working
(lavoro agile o snello in italiano) era sconosciuta alla maggior parte della
popolazione. Il “lavoro agile” sarebbe una semplificazione del telelavoro che
viene utilizzato dal 2004, una forma di lavoro da remoto, caratterizzata da una
postazione fissa e predeterminata nel contratto, di solito svolta presso la propria
abitazione, utilizzando la postazione installata e manutenuta dal datore di
lavoro.
Lo
smart working si differenzia dal
telelavoro soprattutto perché i lavoratori e le lavoratrici non sono più
obbligati/e a legarsi a un luogo fisico fisso, perché vanno benissimo non solo
il proprio domicilio ma anche una sede distaccata, un ristorante, un pub o un
parco o qualunque luogo in cui si possa portare un computer o uno smartphone.
Durante
la pandemia, per evitare affollamenti e problemi di distanziamento, i dipendenti “agili” sono stati/e quasi due
milioni, mentre prima si arrivava poco oltre il mezzo milione, in rapporto
ad una platea potenziale di oltre otto milioni. Pertanto, è stato possibile
testare lo smart working nelle aziende e nella pubblica amministrazione, nella
quale era comunque già pronto un progetto di utilizzo sempre più esteso dello
stesso.
Il
lavoro agile è stato normato con la legge n. 81 del 2017, che prevede i seguenti
criteri: accordo tra le parti, lo smart working deve essere frutto di un accordo
scritto tra lavoratore e azienda e può essere sottoscritto non solo in caso di
avvio di un nuovo rapporto di lavoro, ma anche in caso di contratto di
assunzione già in corso.
Ovviamente
si tratta di un accordo in cui il potere
contrattuale sta più dalla parte del datore di lavoro che dalla parte del
dipendente, anche se esso prevede per lo/la smart
worker parità di trattamento retributivo rispetto ai colleghi che svolgono
pari mansione in ufficio o “secondo le modalità tradizionali”; diritto alla
disconnessione, riconoscimento del diritto al riposo - esattamente come accade
per tutti gli altri lavoratori - anche se può lavorare con la massima
flessibilità, pur attenendosi al limite di durata massima giornaliera e
settimanale stabilito dalla legge e dalla contrattazione collettiva di settore.
L’accordo
prevede sicurezza e tutela del lavoratore, il datore di lavoro dovrà consegnare
annualmente allo smart worker un
documento informativo su tutti i possibili rischi connessi allo svolgimento della
propria mansione, tra cui eventuali malattie professionali, nonché garantire il
rispetto della normativa vigente in materia di salute e sicurezza.
In
questi mesi sono stati spesi fiumi di parole
per esaltare questa modalità di lavoro, sottolineando soprattutto quelli
che sarebbero gli aspetti vantaggiosi per il/la dipendente, cioè la possibilità
di conciliare famiglia e lavoro, maggiore motivazione e responsabilità,
risparmio del tempo e dei costi di tragitto per andare e tornare dalla sede
fisica. Per il datore di lavoro i vantaggi sarebbero: la riduzione dei costi
che si ottiene riorganizzando gli spazi ed inserendo politiche di aree e
scrivanie condivise; la potenziale ottimizzazione dei processi (riduzione dei
tempi, anomalie, rischi) con effetti migliorativi dello standard di lavoro; il
prospettato aumento di produttività che ricade sull’intera organizzazione. Non mancherebbe
il vantaggio sociale per la comunità, poiché ne conseguirebbe una riduzione del
traffico con un tasso minore di inquinamento. Quest’ultimo aspetto in verità è sopravvalutato,
dovendosi aggredire la questione ambientale complessivamente, non parzialmente,
essendo massima la responsabilità di padronati e potentati che tengono le redini
del sistema capitalistico, di per sé contro natura, piuttosto che quella minimale
di lavoratori e lavoratrici che subiscono i processi economici. Tutto bene, allora?
Intanto, si può confrontare la situazione italiana con quella di altri Paesi
europei, premesso che lo stesso Parlamento Europeo ha approvato la risoluzione
del 13/9/2016 (principio generale n°48), a sostegno del “lavoro agile”, che
mette in evidenza i benefici sociali, affermando l’importanza dell’equilibrio
tra lavoro e vita privata per sostenere il rilancio demografico, preservare i
sistemi di sicurezza sociale e promuovere il benessere e lo sviluppo delle
persone e della società nel suo insieme.
In quasi tutti i Paesi europei tale
modalità di lavoro è presente in misura assai
maggiore dell’Italia. In particolare, nella Scandinavia lo Smart Working è
largamente diffuso da molti anni, in considerazione di un’economia, basata sui
servizi e combinata ad una diffusione capillare del Wi-Fi, che ha permesso già
per molte professioni che non vi sia molta differenza tra l’operare da remoto o
in ufficio. Secondo l’Eurostat la media europea dei lavoratori subordinati in
regime di lavoro agile nel settore privato o pubblico è dell’11,6 per cento,
contro il 2 per cento per l’Italia, perlomeno prima della pandemia. Svezia e
Olanda conducono la classifica con il 31 per cento, mentre la Francia è al 17
per cento e la Germania all’8,6 per cento.
Lo
smart working rappresenta già la nuova frontiera del lavoro in Italia e
nell’Ue? Proviamo ad applicare qualche categoria marxista alla valutazione
economica del lavoro agile per vedere dove si va a sbattere, in particolare
rispetto all’orario di lavoro che è stato il parametro di determinazione del
salario, da duecento anni fino ad oggi.
Le imprese hanno sempre tentato,
purtroppo spesso anche riuscendoci, di costringere il dipendente a lavorare al
massimo delle sue possibilità, garantendosi cioè che il tasso di sfruttamento
sia quanto più alto possibile, fino al limite stabilito dalle condizioni
tecniche di produzione, per ottenere così il massimo del plusvalore. Finché il
tempo di lavoro è stato la base del rapporto contrattuale, ogni giusta pausa,
ritardo, allentamento dei ritmi o sacrosanta lotta per avere dei ritmi di
lavoro più umani, si è ripercosso negativamente sul saggio di sfruttamento e
conseguentemente sul profitto. Il padronato è riuscito in parte a neutralizzare
i lavoratori garantendosi “automaticamente” il massimo saggio di sfruttamento,
servendosi del lavoro a cottimo e del similare lavoro a domicilio, tipologia
che ha realizzato nuove modalità di organizzazione della produzione, il
cosiddetto toyotismo.
Ovviamente,
i termini cottimo e lavoro a domicilio
sono stati messi in soffitta ed al loro posto sono state adottate altre
espressioni come lavoro ad obiettivi o lavoro agile o l’inglesismo smart
working, in relazione alle modalità on line di svolgimento, rese possibili
dall’evoluzione tecnologica. Ma le regole normative e/o contrattuali relative
ai vecchi termini ed ai nuovi sono praticamente le stesse; di fatto attualmente
è lavoro da casa e così si dovrebbe definire.
Stabilendo
le modalità specifiche delle attività e misurando la produttività sul
lavoratore modello, è possibile definire con una certa precisione quali sono
gli “obiettivi” d’impresa raggiungibili dal singolo operatore in un determinato
lasso di tempo. Per esempio, tutta la gig-economy, economia dei lavoretti
(espressione infelice ma reale), si basa su questo, i rider, i call
center, etc.
In
questo modo padrone e lavoratore/lavoratrice sottoscrivono un contratto di
lavoro, per lo più individuale, sganciato, almeno in gran parte, dall’orario e
dal luogo di lavoro ma incentrato sul “traguardo” da raggiungere, legandolo
ovviamente al salario. Nel cottimo e nel lavoro a domicilio il raggiungimento dell’obiettivo
era ed è la condizione necessaria al percepimento del salario divenuto perciò
variabile.
Oggi,
con il contratto di lavoro agile si possono verificare due soli esiti: o il
dipendente realizza la prestazione nei tempi prestabiliti, assicurando quindi
il massimo plusvalore, oppure non percepisce il salario, del tutto o in parte. In
questo modo è il lavoratore stesso ad autocontrollarsi, visto che la sua
possibilità di sostentamento è legata al raggiungimento degli obiettivi nei
tempi prestabiliti che sono sempre i più ristretti possibili.
La lotta economica si sposta in tal modo
sulla misurazione dei risultati, prerogativa
quasi assoluta del padronato, visto che la contrattazione è individuale e nella
maggior parte dei casi o si realizzano gli obiettivi proposti dall’azienda o si
perde il lavoro. Se valutato alla luce delle predette considerazioni, il lavoro
agile perde gran parte delle attrattive, sbandierate dai suoi estimatori,
dirigenti e datori di lavoro. Finché la scelta di lavorare da remoto sarà volontaria,
sarà bene pensarci almeno due volte prima di sottoscrivere il relativo
contratto individuale.
E i sindacati hanno qualcosa da dire
e da fare al riguardo? Direi che quelli italiani sono in ritardo, come è già successo
con il lavoro precario e con il part time, per citare i due aspetti
macroscopici della flessibilità lavorativa (bel nome anche questo!) imperante
negli ultimi trent’anni.
Lo
smart working è stato finora
applicato in base alla legge che prevede il contratto individuale ma nulla è
stato detto sulla contrattazione nazionale e decentrata che potrebbe almeno
porre più paletti al lavoro da remoto, soprattutto relativamente alla definizione
dell’orario, flessibilità a parte dello stesso.
La
Cgil di Landini, qualche settimana fa, ha messo i puntini sulla i, anche tenendo
presente i pareri espressi da 6mila lavoratori smart in risposta ad un
questionario, pareri che non erano poi così entusiasti. Ma intanto sono passati
tre anni e la regolazione del lavoro agile, soprattutto tenendo presente i
diritti e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, non c’è stata per
gli oltre 500mila dipendenti che già svolgevano tale impiego né tantomeno per
il milione ed oltre che si è aggiunto durante la pandemia. E poi c’è la
questione di genere.
Partiamo
da un dato sconcertante, in Italia la percentuale di occupazione femminile, fra
le donne in età lavorativa, è solo del 53% rispetto alla media europea del 67%,
risultando penultima in Europa. La prima è la solita Svezia con il suo 80%. Un
terzo delle donne europee occupate, italiane comprese, lavora a tempo parziale,
quasi quattro volte il tasso degli uomini (8%).
I
dati parlano chiaro, il part time è uno strumento di conciliazione fra i tempi
di lavoro ed i tempi di vita, utilizzato dalle
donne che svolgono anche parte o gran parte del lavoro di cura non retribuito.
Più che la conciliazione tra impiego e famiglia, ci vorrebbe una condivisione
paritaria del peso familiare fra uomini e donne.
Per
quanto riguarda il lavoro agile, le percentuali fra donne e uomini si equivalgono,
in alcuni Paesi europei prevalgono di poco le donne, in altri gli uomini, il
che si spiega perché trattasi di lavoro a tempo pieno, quindi a stipendio
intero. Mettendo da parte il periodo dell’epidemia in cui le donne in smart working sono state costrette a
lavorare fra le mura di casa e, contemporaneamente, a seguire i/le figli e
figlie nello studio a distanza, essendo state chiuse tutte le scuole, il lavoro
agile potrebbe rivelarsi un cattivo espediente per “permettere” alla
popolazione femminile di mantenere la retribuzione piena e contemporaneamente
di farsi carico di gran parte o tutto il lavoro familiare, allontanando ancora
di più la prospettiva di una maggiore condivisione dei lavori di cura fra
uomini e donne e sopperendo alla scarsità ormai cronica di servizi per l’infanzia
e per l’età anziana.
Una
prova indiretta viene data dalla norma in vigore dal 2019 che impegna il datore
di lavoro, quando stipuli accordi per la prestazione di lavoro in modalità
agile, a dare priorità alle richieste di lavoro agile formulate dalle
lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo
obbligatorio di maternità.
Perché citare solo le lavoratrici
madri e non i lavoratori padri o perché non
prevedere che i tre anni siano suddivisi fra ambedue i genitori?
D’altronde
la nostra Costituzione prevede, all’art. 37, che “Le condizioni di lavoro
(della lavoratrice) devono consentire l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata
protezione”.
Pertanto,
la Carta fondamentale della nostra nazione attribuisce la funzione familiare in
toto alla componente femminile e ne esonera di fatto quella maschile.
L’articolo si può a stento giustificare in relazione al ruolo sociale femminile
dell’epoca in cui fu scritto ma oggi appare, anzi è, indiscutibilmente,
sessista e le norme attuali non dovrebbero lasciare spazio a tale mentalità ma
anzi agevolare il cambiamento di costume. Infatti, è risultato che le donne italiane,
più delle altre donne europee, svolgono giornalmente molte ore di lavoro
domestico non pagato per la loro famiglia, sia che siano casalinghe, sia che
siano occupate. Si ricorda anche che spesso le donne lavoratrici, soprattutto
con orario a tempo pieno o con una elevata professionalità o socialmente
benestanti, ricorrono al lavoro domestico prestato dalle colf, cioè da altre
donne, spesso pagate in nero o comunque con contratti deboli, contraddizione
enorme ma difficilmente sanabile senza un welfare degno di questo nome e senza
una maggiore parità familiare fra uomo e donna. Un discorso a parte meriterebbe
il lavoro da badante che vede crescere anche la percentuale di presenza
maschile.
In
sintesi, il cosiddetto lavoro in smart potrebbe
relegare di nuovo, entro le mura di casa, propria od altrui, le lavoratrici,
soprattutto con riguardo alle professionalità medio basse. Emblematica è la
situazione della Pubblica Amministrazione il cui personale vede una presenza
femminile del 56%, quindi la maggioranza. La ministra Dadone ritiene che circa
il 30/40% dello stesso potrebbe lavorare in smart da remoto, soprattutto da
casa, raccogliendo i frutti dell’esperienza maturata nei mesi del contagio,
dentro un quadro di ammodernamento tecnologico del lavoro pubblico.
Infatti,
il lavoro agile, nel pubblico impiego,
permetterebbe di prendere due piccioni con
una fava, anzi tre, finché rimarranno immutate le attuali regole di
applicazione dello stesso.
In
particolare, la spesa pubblica potrebbe
diminuire per effetto dei seguenti fattori: risparmio di spazi, quindi di
immobili destinati alle attività pubbliche, e di attrezzature se i dipendenti
in smart usano la propria connessione ed i propri strumenti informatici, come è
avvenuto in questi mesi; formazione on line, quindi a costi più bassi; meno
straordinario se lo smart working prevede il raggiungimento di obiettivi, indipendentemente
dal numero di ore lavorative; diminuzione del conflitto e della contrattazione
sindacale, stante la prevalenza data al contratto individuale; minore
solidarietà fra dipendenti in smart e quelli operanti nei classici uffici;
minore necessità di servizi oggi carenti, come gli asili nido e le strutture
per anziani, perché soprattutto le lavoratrici potrebbero o dovrebbero
affiancare al lavoro retribuito quello non retribuito di cura, assolvendo
quindi al “proprio essenziale ruolo familiare”.
Che fare, quindi,
per depotenziare questo strumento che si sta affermando in tutta Europa come
alternativa al lavoro classico e tradizionale? Intanto, stabilire criteri
migliorativi, rispetto alla disciplina attuale di cui alla legge n. 81 del
2017, dal punto di vista del personale, criteri che siano fissati,
innanzitutto, nella contrattazione nazionale, per ricaduta nella contrattazione
decentrata, e che i contratti individuali debbano assolutamente rispettare,
pena la nullità degli stessi. Per esempio, per fare sì che il contratto
individuale dello smart working
assicuri lo stesso contenuto normativo ed economico degli altri contratti
individuali del lavoro tradizionale, bisogna prevedere che:
l’orario
di lavoro agile debba essere uguale, come numero di ore, a quello dei
dipendenti che operano in sede, fatta salva la maggiore flessibilità, compreso
lo straordinario per completare le attività svolte;
il
datore di lavoro sia tenuto a compensare lo smart worker per l’uso della sua
abitazione, qualora sussista, (spese per l’affitto, per il mutuo e per lo
spazio domiciliare riservato in via assoluta allo svolgimento della prestazione
in smart) come pure delle attrezzature informatiche e di altre spese connesse
nonché per i costi relativi all’accesso ad altri luoghi diversi dalla sede
dell’azienda o ente;
siano
riconosciute le assenze per malattia, per ferie e per permessi previsti dal
contratto nazionale di riferimento e da altre leggi specifiche e generali, tipo
legge 104, visite mediche, attività sindacale, assemblea del personale etc.;
siano
garantiti i percorsi professionali analoghi a quelli degli altri lavoratori dell’impresa
o ente; siano assegnati gli impieghi in smart tenendo conto, nell’ordine, della
parità di genere, dei casi di invalidità, della situazione e dei problemi
familiari, dell’età, della lontananza fra il domicilio e la sede principale e/o
secondaria della ditta o ente etc.
Pertanto,
le organizzazioni sindacali devono affrettarsi perché gli smart worker già
operanti e quelli che verranno in seguito non siano alla mercé dei datori di
lavoro pubblici e privati e gli attuali parlamentari, soprattutto le
parlamentari, dovrebbero chiedere modifiche correttive della normativa in
essere, a favore dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il
confronto con i Paesi del Centro e Nord Europa non assicura noi comuniste e comunisti
perché, in genere, essi sono caratterizzati da tradizione socialdemocratica, da
tutele sociali, da equità economica, da senso civico nonché da maggiore parità
fra i sessi nella condivisione degli impegni familiari; inoltre, hanno previsto
da anni riduzioni dell’orario di lavoro, diversamente dal nostro Paese.
Realisticamente,
purtroppo, lo smart working si diffonderà anche in Italia, perché i datori di
lavoro privati e pubblici, si ribadisce, ne ricaveranno notevoli vantaggi, in
primis quelli economici, mentre i/le lavoratori/trici non potranno fare a meno
di rinunciare alla possibilità di risparmiare i tempi ed i costi del viaggio
verso/da la sede ufficiale di lavoro, considerando le carenze croniche dei
mezzi di trasporto pubblico, e soprattutto le lavoratrici si adatteranno, potendo
dedicarsi anche alla cura della famiglia, bimbi ed anziani compresi, senza
dover ricorrere ad aiuti domestici a pagamento od al sostegno dei nonni.
Tenendo
conto dei profitti maggiori per i datori privati e dei costi minori per quelli
pubblici, bisognerebbe che almeno una parte di tali guadagni e risparmi si
traducesse in aumenti stipendiali maggiori rispetto a quelli attuali, in
maggiore occupazione, soprattutto femminile, e in una ripresa del welfare statale, soprattutto di servizi
sociali, welfare che di fatto
costituisce un salario indiretto per lavoratori e lavoratrici ed una
socializzazione dei lavori di cura. Inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro
e il mantenimento dello stesso come fattore fondamentale per la quantificazione
della remunerazione stipendiale, qualunque sia la tipologia di lavoro, compreso
il lavoro agile, dovranno essere obiettivi irrinunciabili per le forze
comuniste ed antagoniste.
Ne
guadagnerebbero il Pil e il benessere della popolazione italiana.
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