13/07/20

Smart working, sì o no? L'insidia nascosta nel "lavoro agile"

Lavoro agile?


L’insidia nascosta nel “lavoro agile”: potrebbe rivelarsi un cattivo espediente del capitalismo per caricare sulle spalle della popolazione femminile, relegata in casa, il lavoro per il mercato e insieme il lavoro familiare non retribuito, sopperendo alla scarsità cronica di servizi sociali…





Prima dell’epidemia di corona virus la locuzione smart working (lavoro agile o snello in italiano) era sconosciuta alla maggior parte della popolazione. Il “lavoro agile” sarebbe una semplificazione del telelavoro che viene utilizzato dal 2004, una forma di lavoro da remoto, caratterizzata da una postazione fissa e predeterminata nel contratto, di solito svolta presso la propria abitazione, utilizzando la postazione installata e manutenuta dal datore di lavoro.

Lo smart working si differenzia dal telelavoro soprattutto perché i lavoratori e le lavoratrici non sono più obbligati/e a legarsi a un luogo fisico fisso, perché vanno benissimo non solo il proprio domicilio ma anche una sede distaccata, un ristorante, un pub o un parco o qualunque luogo in cui si possa portare un computer o uno smartphone.

Durante la pandemia, per evitare affollamenti e problemi di distanziamento, i dipendenti “agili” sono stati/e quasi due milioni, mentre prima si arrivava poco oltre il mezzo milione, in rapporto ad una platea potenziale di oltre otto milioni. Pertanto, è stato possibile testare lo smart working nelle aziende e nella pubblica amministrazione, nella quale era comunque già pronto un progetto di utilizzo sempre più esteso dello stesso.
Il lavoro agile è stato normato con la legge n. 81 del 2017, che prevede i seguenti criteri: accordo tra le parti, lo smart working deve essere frutto di un accordo scritto tra lavoratore e azienda e può essere sottoscritto non solo in caso di avvio di un nuovo rapporto di lavoro, ma anche in caso di contratto di assunzione già in corso.
Ovviamente si tratta di un accordo in cui il potere contrattuale sta più dalla parte del datore di lavoro che dalla parte del dipendente, anche se esso prevede per lo/la smart worker parità di trattamento retributivo rispetto ai colleghi che svolgono pari mansione in ufficio o “secondo le modalità tradizionali”; diritto alla disconnessione, riconoscimento del diritto al riposo - esattamente come accade per tutti gli altri lavoratori - anche se può lavorare con la massima flessibilità, pur attenendosi al limite di durata massima giornaliera e settimanale stabilito dalla legge e dalla contrattazione collettiva di settore.  
L’accordo prevede sicurezza e tutela del lavoratore, il datore di lavoro dovrà consegnare annualmente allo smart worker un documento informativo su tutti i possibili rischi connessi allo svolgimento della propria mansione, tra cui eventuali malattie professionali, nonché garantire il rispetto della normativa vigente in materia di salute e sicurezza.


In questi mesi sono stati spesi fiumi di parole per esaltare questa modalità di lavoro, sottolineando soprattutto quelli che sarebbero gli aspetti vantaggiosi per il/la dipendente, cioè la possibilità di conciliare famiglia e lavoro, maggiore motivazione e responsabilità, risparmio del tempo e dei costi di tragitto per andare e tornare dalla sede fisica. Per il datore di lavoro i vantaggi sarebbero: la riduzione dei costi che si ottiene riorganizzando gli spazi ed inserendo politiche di aree e scrivanie condivise; la potenziale ottimizzazione dei processi (riduzione dei tempi, anomalie, rischi) con effetti migliorativi dello standard di lavoro; il prospettato aumento di produttività che ricade sull’intera organizzazione. Non mancherebbe il vantaggio sociale per la comunità, poiché ne conseguirebbe una riduzione del traffico con un tasso minore di inquinamento. Quest’ultimo aspetto in verità è sopravvalutato, dovendosi aggredire la questione ambientale complessivamente, non parzialmente, essendo massima la responsabilità di padronati e potentati che tengono le redini del sistema capitalistico, di per sé contro natura, piuttosto che quella minimale di lavoratori e lavoratrici che subiscono i processi economici. Tutto bene, allora? Intanto, si può confrontare la situazione italiana con quella di altri Paesi europei, premesso che lo stesso Parlamento Europeo ha approvato la risoluzione del 13/9/2016 (principio generale n°48), a sostegno del “lavoro agile”, che mette in evidenza i benefici sociali, affermando l’importanza dell’equilibrio tra lavoro e vita privata per sostenere il rilancio demografico, preservare i sistemi di sicurezza sociale e promuovere il benessere e lo sviluppo delle persone e della società nel suo insieme.

In quasi tutti i Paesi europei tale modalità di lavoro è presente in misura assai maggiore dell’Italia. In particolare, nella Scandinavia lo Smart Working è largamente diffuso da molti anni, in considerazione di un’economia, basata sui servizi e combinata ad una diffusione capillare del Wi-Fi, che ha permesso già per molte professioni che non vi sia molta differenza tra l’operare da remoto o in ufficio. Secondo l’Eurostat la media europea dei lavoratori subordinati in regime di lavoro agile nel settore privato o pubblico è dell’11,6 per cento, contro il 2 per cento per l’Italia, perlomeno prima della pandemia. Svezia e Olanda conducono la classifica con il 31 per cento, mentre la Francia è al 17 per cento e la Germania all’8,6 per cento.
Lo smart working rappresenta già la nuova frontiera del lavoro in Italia e nell’Ue? Proviamo ad applicare qualche categoria marxista alla valutazione economica del lavoro agile per vedere dove si va a sbattere, in particolare rispetto all’orario di lavoro che è stato il parametro di determinazione del salario, da duecento anni fino ad oggi.

Le imprese hanno sempre tentato, purtroppo spesso anche riuscendoci, di costringere il dipendente a lavorare al massimo delle sue possibilità, garantendosi cioè che il tasso di sfruttamento sia quanto più alto possibile, fino al limite stabilito dalle condizioni tecniche di produzione, per ottenere così il massimo del plusvalore. Finché il tempo di lavoro è stato la base del rapporto contrattuale, ogni giusta pausa, ritardo, allentamento dei ritmi o sacrosanta lotta per avere dei ritmi di lavoro più umani, si è ripercosso negativamente sul saggio di sfruttamento e conseguentemente sul profitto. Il padronato è riuscito in parte a neutralizzare i lavoratori garantendosi “automaticamente” il massimo saggio di sfruttamento, servendosi del lavoro a cottimo e del similare lavoro a domicilio, tipologia che ha realizzato nuove modalità di organizzazione della produzione, il cosiddetto toyotismo.

Ovviamente, i termini cottimo e lavoro a domicilio sono stati messi in soffitta ed al loro posto sono state adottate altre espressioni come lavoro ad obiettivi o lavoro agile o l’inglesismo smart working, in relazione alle modalità on line di svolgimento, rese possibili dall’evoluzione tecnologica. Ma le regole normative e/o contrattuali relative ai vecchi termini ed ai nuovi sono praticamente le stesse; di fatto attualmente è lavoro da casa e così si dovrebbe definire.
Stabilendo le modalità specifiche delle attività e misurando la produttività sul lavoratore modello, è possibile definire con una certa precisione quali sono gli “obiettivi” d’impresa raggiungibili dal singolo operatore in un determinato lasso di tempo. Per esempio, tutta la gig-economy, economia dei lavoretti (espressione infelice ma reale), si basa su questo, i rider, i  call center, etc.
In questo modo padrone e lavoratore/lavoratrice sottoscrivono un contratto di lavoro, per lo più individuale, sganciato, almeno in gran parte, dall’orario e dal luogo di lavoro ma incentrato sul “traguardo” da raggiungere, legandolo ovviamente al salario. Nel cottimo e nel lavoro a domicilio il raggiungimento dell’obiettivo era ed è la condizione necessaria al percepimento del salario divenuto perciò variabile.
Oggi, con il contratto di lavoro agile si possono verificare due soli esiti: o il dipendente realizza la prestazione nei tempi prestabiliti, assicurando quindi il massimo plusvalore, oppure non percepisce il salario, del tutto o in parte. In questo modo è il lavoratore stesso ad autocontrollarsi, visto che la sua possibilità di sostentamento è legata al raggiungimento degli obiettivi nei tempi prestabiliti che sono sempre i più ristretti possibili.
La lotta economica si sposta in tal modo sulla misurazione dei risultati, prerogativa quasi assoluta del padronato, visto che la contrattazione è individuale e nella maggior parte dei casi o si realizzano gli obiettivi proposti dall’azienda o si perde il lavoro. Se valutato alla luce delle predette considerazioni, il lavoro agile perde gran parte delle attrattive, sbandierate dai suoi estimatori, dirigenti e datori di lavoro. Finché la scelta di lavorare da remoto sarà volontaria, sarà bene pensarci almeno due volte prima di sottoscrivere il relativo contratto individuale.
E i sindacati hanno qualcosa da dire e da fare al riguardo? Direi che quelli italiani sono in ritardo, come è già successo con il lavoro precario e con il part time, per citare i due aspetti macroscopici della flessibilità lavorativa (bel nome anche questo!) imperante negli ultimi trent’anni.
Lo smart working è stato finora applicato in base alla legge che prevede il contratto individuale ma nulla è stato detto sulla contrattazione nazionale e decentrata che potrebbe almeno porre più paletti al lavoro da remoto, soprattutto relativamente alla definizione dell’orario, flessibilità a parte dello stesso.
La Cgil di Landini, qualche settimana fa, ha messo i puntini sulla i, anche tenendo presente i pareri espressi da 6mila lavoratori smart in risposta ad un questionario, pareri che non erano poi così entusiasti. Ma intanto sono passati tre anni e la regolazione del lavoro agile, soprattutto tenendo presente i diritti e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, non c’è stata per gli oltre 500mila dipendenti che già svolgevano tale impiego né tantomeno per il milione ed oltre che si è aggiunto durante la pandemia. E poi c’è la questione di genere.
Partiamo da un dato sconcertante, in Italia la percentuale di occupazione femminile, fra le donne in età lavorativa, è solo del 53% rispetto alla media europea del 67%, risultando penultima in Europa. La prima è la solita Svezia con il suo 80%. Un terzo delle donne europee occupate, italiane comprese, lavora a tempo parziale, quasi quattro volte il tasso degli uomini (8%).

I dati parlano chiaro, il part time è uno strumento di conciliazione fra i tempi di lavoro ed i tempi di vita, utilizzato dalle donne che svolgono anche parte o gran parte del lavoro di cura non retribuito. Più che la conciliazione tra impiego e famiglia, ci vorrebbe una condivisione paritaria del peso familiare fra uomini e donne.
Per quanto riguarda il lavoro agile, le percentuali fra donne e uomini si equivalgono, in alcuni Paesi europei prevalgono di poco le donne, in altri gli uomini, il che si spiega perché trattasi di lavoro a tempo pieno, quindi a stipendio intero. Mettendo da parte il periodo dell’epidemia in cui le donne in smart working sono state costrette a lavorare fra le mura di casa e, contemporaneamente, a seguire i/le figli e figlie nello studio a distanza, essendo state chiuse tutte le scuole, il lavoro agile potrebbe rivelarsi un cattivo espediente per “permettere” alla popolazione femminile di mantenere la retribuzione piena e contemporaneamente di farsi carico di gran parte o tutto il lavoro familiare, allontanando ancora di più la prospettiva di una maggiore condivisione dei lavori di cura fra uomini e donne e sopperendo alla scarsità ormai cronica di servizi per l’infanzia e per l’età anziana.
Una prova indiretta viene data dalla norma in vigore dal 2019 che impegna il datore di lavoro, quando stipuli accordi per la prestazione di lavoro in modalità agile, a dare priorità alle richieste di lavoro agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo obbligatorio di maternità.

Perché citare solo le lavoratrici madri e non i lavoratori padri o perché non prevedere che i tre anni siano suddivisi fra ambedue i genitori?
D’altronde la nostra Costituzione prevede, all’art. 37, che “Le condizioni di lavoro (della lavoratrice) devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Pertanto, la Carta fondamentale della nostra nazione attribuisce la funzione familiare in toto alla componente femminile e ne esonera di fatto quella maschile. L’articolo si può a stento giustificare in relazione al ruolo sociale femminile dell’epoca in cui fu scritto ma oggi appare, anzi è, indiscutibilmente, sessista e le norme attuali non dovrebbero lasciare spazio a tale mentalità ma anzi agevolare il cambiamento di costume. Infatti, è risultato che le donne italiane, più delle altre donne europee, svolgono giornalmente molte ore di lavoro domestico non pagato per la loro famiglia, sia che siano casalinghe, sia che siano occupate. Si ricorda anche che spesso le donne lavoratrici, soprattutto con orario a tempo pieno o con una elevata professionalità o socialmente benestanti, ricorrono al lavoro domestico prestato dalle colf, cioè da altre donne, spesso pagate in nero o comunque con contratti deboli, contraddizione enorme ma difficilmente sanabile senza un welfare degno di questo nome e senza una maggiore parità familiare fra uomo e donna. Un discorso a parte meriterebbe il lavoro da badante che vede crescere anche la percentuale di presenza maschile.
In sintesi, il cosiddetto lavoro in smart potrebbe relegare di nuovo, entro le mura di casa, propria od altrui, le lavoratrici, soprattutto con riguardo alle professionalità medio basse. Emblematica è la situazione della Pubblica Amministrazione il cui personale vede una presenza femminile del 56%, quindi la maggioranza. La ministra Dadone ritiene che circa il 30/40% dello stesso potrebbe lavorare in smart da remoto, soprattutto da casa, raccogliendo i frutti dell’esperienza maturata nei mesi del contagio, dentro un quadro di ammodernamento tecnologico del lavoro pubblico.
Infatti, il lavoro agile, nel pubblico impiego, permetterebbe di prendere due piccioni con una fava, anzi tre, finché rimarranno immutate le attuali regole di applicazione dello stesso.

In particolare, la spesa pubblica potrebbe diminuire per effetto dei seguenti fattori: risparmio di spazi, quindi di immobili destinati alle attività pubbliche, e di attrezzature se i dipendenti in smart usano la propria connessione ed i propri strumenti informatici, come è avvenuto in questi mesi; formazione on line, quindi a costi più bassi; meno straordinario se lo smart working prevede il raggiungimento di obiettivi, indipendentemente dal numero di ore lavorative; diminuzione del conflitto e della contrattazione sindacale, stante la prevalenza data al contratto individuale; minore solidarietà fra dipendenti in smart e quelli operanti nei classici uffici; minore necessità di servizi oggi carenti, come gli asili nido e le strutture per anziani, perché soprattutto le lavoratrici potrebbero o dovrebbero affiancare al lavoro retribuito quello non retribuito di cura, assolvendo quindi al “proprio essenziale ruolo familiare”.

Che fare, quindi, per depotenziare questo strumento che si sta affermando in tutta Europa come alternativa al lavoro classico e tradizionale? Intanto, stabilire criteri migliorativi, rispetto alla disciplina attuale di cui alla legge n. 81 del 2017, dal punto di vista del personale, criteri che siano fissati, innanzitutto, nella contrattazione nazionale, per ricaduta nella contrattazione decentrata, e che i contratti individuali debbano assolutamente rispettare, pena la nullità degli stessi. Per esempio, per fare sì che il contratto individuale dello smart working assicuri lo stesso contenuto normativo ed economico degli altri contratti individuali del lavoro tradizionale, bisogna prevedere che:
l’orario di lavoro agile debba essere uguale, come numero di ore, a quello dei dipendenti che operano in sede, fatta salva la maggiore flessibilità, compreso lo straordinario per completare le attività svolte;
il datore di lavoro sia tenuto a compensare lo smart worker per l’uso della sua abitazione, qualora sussista, (spese per l’affitto, per il mutuo e per lo spazio domiciliare riservato in via assoluta allo svolgimento della prestazione in smart) come pure delle attrezzature informatiche e di altre spese connesse nonché per i costi relativi all’accesso ad altri luoghi diversi dalla sede dell’azienda o ente;
siano riconosciute le assenze per malattia, per ferie e per permessi previsti dal contratto nazionale di riferimento e da altre leggi specifiche e generali, tipo legge 104, visite mediche, attività sindacale, assemblea del personale etc.;
siano garantiti i percorsi professionali analoghi a quelli degli altri lavoratori dell’impresa o ente; siano assegnati gli impieghi in smart tenendo conto, nell’ordine, della parità di genere, dei casi di invalidità, della situazione e dei problemi familiari, dell’età, della lontananza fra il domicilio e la sede principale e/o secondaria della ditta o ente etc.

Pertanto, le organizzazioni sindacali devono affrettarsi perché gli smart worker già operanti e quelli che verranno in seguito non siano alla mercé dei datori di lavoro pubblici e privati e gli attuali parlamentari, soprattutto le parlamentari, dovrebbero chiedere modifiche correttive della normativa in essere, a favore dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il confronto con i Paesi del Centro e Nord Europa non assicura noi comuniste e comunisti perché, in genere, essi sono caratterizzati da tradizione socialdemocratica, da tutele sociali, da equità economica, da senso civico nonché da maggiore parità fra i sessi nella condivisione degli impegni familiari; inoltre, hanno previsto da anni riduzioni dell’orario di lavoro, diversamente dal nostro Paese.

Realisticamente, purtroppo, lo smart working si diffonderà anche in Italia, perché i datori di lavoro privati e pubblici, si ribadisce, ne ricaveranno notevoli vantaggi, in primis quelli economici, mentre i/le lavoratori/trici non potranno fare a meno di rinunciare alla possibilità di risparmiare i tempi ed i costi del viaggio verso/da la sede ufficiale di lavoro, considerando le carenze croniche dei mezzi di trasporto pubblico, e soprattutto le lavoratrici si adatteranno, potendo dedicarsi anche alla cura della famiglia, bimbi ed anziani compresi, senza dover ricorrere ad aiuti domestici a pagamento od al sostegno dei nonni.

Tenendo conto dei profitti maggiori per i datori privati e dei costi minori per quelli pubblici, bisognerebbe che almeno una parte di tali guadagni e risparmi si traducesse in aumenti stipendiali maggiori rispetto a quelli attuali, in maggiore occupazione, soprattutto femminile, e in una ripresa del welfare statale, soprattutto di servizi sociali, welfare che di fatto costituisce un salario indiretto per lavoratori e lavoratrici ed una socializzazione dei lavori di cura. Inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro e il mantenimento dello stesso come fattore fondamentale per la quantificazione della remunerazione stipendiale, qualunque sia la tipologia di lavoro, compreso il lavoro agile, dovranno essere obiettivi irrinunciabili per le forze comuniste ed antagoniste.
Ne guadagnerebbero il Pil e il benessere della popolazione italiana.





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