OLOCAUSTO IERI OGGI
In occasione della Giornata della memoria, nella collana Documenti e Reportage delle Edizioni il Raggio Verde ( https://www.facebook.com/ilraggioverdeinebook/ ) esce il nuovo ebook
Auschwitz ieri oggi/remoto presente. Foto di Ines Facchin e Roberto Scialanga .
Interventi di Giovanni Bruno, Ada Donno e Maurizio Nocera.
L'ebook è acquistabile sulla piattaforma: www.bookrepublic.it
https://www.bookrepublic.it/book/9788899679156-auschwitz/?tl=1
di Ada Donno
Esistono profonde ragioni ideali ed etiche che hanno motivato e tuttora motivano la trasmissione di memoria delle vicende racchiuse nella parola Olocausto, e presiedono alla ri-narrazione rituale di esse, ad una data annualmente condivisa perché significativa e simbolica. Serbare la memoria, ce lo ripetiamo, aiuta a comprendere la storia e i suoi percorsi difficili. Compiere il viaggio a Oswiecim, almeno una volta nella vita, per visitare il museo di Auschwitz-Birkenau, ci aiuta a dire che ci assumiamo la nostra quota di responsabilità degli orrori e le atrocità, come un fardello di dolore che ci è stato lasciato in eredità e che vogliamo custodire ancora nel nuovo secolo, anche se al tempo dei campi nazisti non eravamo neppure nati. In quanto donne e uomini di questo paese, di questo continente, di questo pianeta. E’ un antidoto contro la dimenticanza, perché è rimasto com’era negli ultimi giorni della “soluzione finale della questione ebraica”, perché i suoi costruttori non fecero in tempo a seppellirlo, come avevano fatto con gli altri centri d’internamento e sterminio disseminati in Europa.
Nella lettura della letteratura (vasta) sull’Olocausto, due domande mi ritornano
sempre con inquietudine.
La prima riguarda la complessità e l’efficienza “scientifica”, l’impiego di
tale quantità di tecnici e di specialisti nel sistema di annientamento delle persone
“indesiderate” che la paranoica dottrina nazista aveva stabilito di eliminare: gli
ebrei, i comunisti e tutti gli altri oppositori politici, gruppi etnici come i rom
e i sinti, gruppi religiosi come testimoni di
Geova e pentecostali, gli omosessuali, i disabili mentali e i portatori
di handicap.
Molti storici dell’Olocausto, cito Raul Hilberg per tutti, hanno descritto
nei dettagli le dimensioni, le caratteristiche organizzative e tecniche
dispiegate dalla gigantesca macchina di sterminio nazista. La meticolosa pianificazione e attuazione del processo di distruzione, le strutture economico-amministrative e burocrazie
ministeriali appositamente incaricate, la Wehrmacht e le SS, l'apparato
del Partito nazista.
E’ stato ricostruito l’intero processo dell’annientamento nelle sue diverse
fasi. Dapprima l’introduzione della lunga serie di disposizioni e decreti che delinearono
la cosiddetta "soluzione economica del problema ebraico" (gli ebrei
sottoposti a crescenti pressioni per rinunciare alle loro attività economiche e
ad andarsene). Poi la messa a punto
dall'"Ufficio per l'emigrazione ebraica" diretto da Adolf
Eichmann – la banalità del male – dei progetti cosiddetti di “trasferimento degli
ebrei al di fuori dello spazio economico europeo”, attraverso il confinamento nei ghetti e
successivamente nei campi di concentramento per il lavoro schiavistico e
per lo sterminio sistematico.
E’ stato analizzato anche il linguaggio adoperato dall'organizzazione
nazista in riferimento all’annientamento: burocratico, allusivo, circonvoluto, eufemistico,
per dire le cose senza dirle. Passò del tempo prima che si capisse che “trasferire
all’est” significava “destinare allo
sterminio”. Per indicare la deportazione si usavano espressioni come Auswanderung (emigrazione), Wohnsitzverlegung (trasferimento
di residenza) e Aussiedlung (reinsediamento).
La pulizia etnica era chiamata Säuberung
(bonifica); i carri bestiame erano "treni viaggiatori speciali" (Sonderzüge). I campi di concentramento
erano ordinatamente suddivisi in Arbeitslager
(campi di lavoro), Frauenlager (campi
per donne), Jugendlager (campi per
giovani), Durchgangslager (campi di
transito).
Gli eufemismi nella comunicazione della
macchina burocratico-militare nazista servivano da una parte a
mimetizzare il genocidio agli sguardi esterni, dall'altra
prospettavano una giustificazione ideologica dello stesso: una sorta di “stiamo lavorando diligentemente
per risolvere un problema che riguarda noi tutti”.
Ma ci è stato spiegato dagli storici, anche, che efficienza tecnica ed
eufemismi servivano a rendere più impersonali e quindi meno ripugnanti i
compiti agli esecutori materiali, ad alleviarne il carico psicologico sul personale
tedesco addetto e salvaguardarne la solidità del sistema nervoso. Anche l’adozione
delle camere a gas fu giustificata come metodo più rapido ed efficace. Per il
lavoro più sporco e più crudele si utilizzavano invece gli ausiliari, ad
esempio ucraini e baltici; alle incombenze più macabre nei campi di
sterminio - come il prelevamento, il sotterramento e l'incenerimento dei
cadaveri - si obbligavano gli ebrei. Vittime
impotenti e annientate nel corpo e nello spirito.
La seconda domanda che mi turba ancora profondamente riguarda l’apparente
consenso della popolazione tedesca che “sapeva”. Perché
si sapeva, dentro la Germania e fuori, su questo ci sono ormai
sufficienti riscontri storici. Non bastano gli artifici retorici della
comunicazione, le menzogne, a spiegare l’indifferenza, o l’assenza di
ribellione. E’ pur vero che fin dalla prima comparsa sulla scena politica europea,
l’apparato ideologico dei partiti fascisti e nazisti si era incaricato di
individuare i facili obiettivi su cui far ricadere le responsabilità del crollo
esistenziale e materiale seguito alla catastrofe della prima guerra mondiale e
di incanalare l'ostilità e i rancori del cittadino comune verso ebrei e comunisti,
primi fra tutti, stabilendo una correlazione tra il senso diffuso di “crisi di
civiltà” e una presunta “minaccia della cospirazione giudeo-bolscevica ai
valori della società ariano-cristiana". Cui
seguì la progressiva stigmatizzazione e criminalizzazione dei “nemici interni”,
la cancellazione delle storie individuali degli “indesiderabili” attraverso la
negazione del diritto di parola e di auto-rappresentazione, la disumanizzazione
attraverso la riduzione delle vittime a numeri. Secondo
la raffinata e perversa strategia del modello Auschwitz, tutto doveva concorrere a indurre indifferenza
e giustificazione dello sterminio.
Comprensibile, intuibile. Eppure
non basta ancora.
Mi chiedo perché, mentre siamo pronti a riconoscere che “l’olocausto degli ebrei,
giustamente, ancora oggi ci commuove e ci ripugna, come se
continuasse ad esistere e dovessimo scongiurarlo”, le quotidiane stragi dell’oggi,
invece, le deportazioni e gli stermini che stanno succedendo in questo momento
intorno a noi, e che faremmo in tempo a scongiurare, lasciano indifferenti
tante “persone perbene”. Per
non parlare dell’odiosa speculazione di tanti profittatori. Non è l’informazione che ci manca. Tutt’altro. Sappiamo
tutti, perché ce ne informano le istituzioni internazionali preposte, che attualmente
ci sono circa 60 milioni di sfollati nel mondo. Che i rifugiati in Europa
costituiscono il dieci per cento dell’attuale popolazione di rifugiati nel
mondo. Che non meno di un milione di persone ha raggiunto l’Europa attraverso il
Mediterraneo e le frontiere di terra nell’ultimo anno. Che ventimila persone sono
morte in quindici anni nel tentativo di raggiungerla, forse molte di più. Ma
non c’è corrispondenza fra questi numeri e la percezione del dramma. Perché i
numeri, ancora una volta, non raccontano le storie, le speranze e le sofferenze
di chi annega nel Mediterraneo. Ci sfugge l’essenziale. Il nostro sguardo si
posa inerte sui corpi ripescati dal mare e, dopo un breve momento di emozione
sollecitato mediaticamente, non
riusciamo a sentire che quanto succede ci riguarda personalmente.
Le burocrazie istituzionali europee per un momento esibiscono contrizione
per i morti, poi tornano subito a contendere sulle quote di accoglienza e le politiche migratorie
e di militarizzazione dei confini, tese a bloccare l’accesso ai vivi. Alle migliaia
di donne, di uomini e di bambini in fuga dalle guerre e dalla fame. In aperta contravvenzione al diritto
internazionale codificato, la detenzione amministrativa è diventata la normale risposta
all’ingresso o al soggiorno “irregolare” dei richiedenti asilo e dei migranti. Tornano
i confinamenti, i muri e i recinti. E c’è fra noi chi applaude.
Con l’odierna “crisi di civiltà” torna ad emergere ciò che di più torbido
sta nelle viscere di ciascuno: le viltà,
le ferocie, gli egoismi e i meschini tornaconti. Il morbo del razzismo torna virulento
e la serpe fascista nutrita nel seno delle società democratiche torna a
mostrare la faccia impunita. Questi
settant’anni sono stati solo una tregua?
All’ipocrisia dei governi “democratici” che parlano di diritti umani mentre
chiudono le frontiere alle vittime delle guerre che essi stessi provocano, fa
riscontro il cinismo delle destre che alimentano la patologia razzista
attraverso l’aperto disprezzo, che trova eco nello spazio pubblico e nei media
compiacenti, verso quelle persone che – secondo la retorica xenofoba della Lega
Nord – verrebbero a cercare delle “vacanze pagate” in Europa. C’è il rischio
concreto – come si è accorto qualcuno più consapevole - che “gli ipocriti nutrano i cinici e finiscano
per mettere nelle loro mani i governi”.
In considerazione di tutto questo, celebro a mio modo la giornata della memoria, chiedendo che
finisca l’orrore dei respingimenti collettivi, che si smetta di selezionare i
migranti per categorie come se fossero non-persone e discriminarle. Che si
riconosca a loro uguale possibilità di parola – nella lingua che conoscono – di
auto-rappresentazione e auto-narrazione,
negli spazi pubblici e privati di
accoglienza.
Vivo in un quartiere della mia città che da qualche decennio si va
arricchendo della presenza di persone immigrate da varie parti del mondo, ma
prevalentemente dall’Africa e prevalentemente di fede musulmana. Di alcune di
esse conosco i nomi e la provenienza, con alcune di esse mi saluto
incontrandole, con alcune altre ho stretto amicizia.
Mi ripugna chi sibila tra le fessure
e le crepe della coscienza umana la richiesta di epurazione in nome dell’ordine
e del “decoro”, insinuando nuove frontiere materiali e immateriali, gabbie
identitarie e nazionaliste.
Temo la deriva politica e umana che produce nuovi muri,
recinti e fili spinati, ritorni ai confinamenti ed espulsioni
dei corpi indesiderati.
Chiedo che nelle scuole di ogni ordine e grado, oltre a studiare la
tristissima pagina storica dell’Olocausto, oltre ad organizzare i viaggi della
memoria ad Auschwitz, si leggano e si commentino due testi fondamentali.
Il primo è la Dichiarazione universale dei diritti umani, frutto del grande
ripensamento dell’umanità uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale, il
cui principio fondamentale è che tutte e tutti, ovunque sulla Terra, in ogni
momento, hanno diritto all’intera gamma dei diritti umani, che sono universali
e indivisibili. E sono garantiti, prima
facie, a tutte le persone, compresi i migranti e profughi presenti in ogni paese,
indipendentemente dal loro status
legale o la lunghezza del soggiorno, senza alcuna discriminazione.
Il secondo testo è la Carta di Lampedusa, scritta e
approvata a conclusione di “un processo costituente e di costruzione di un
diritto dal basso”, realizzato da molteplici realtà e persone che si sono
ritrovate nell’isola dell’accoglienza il 2 febbraio 2014 , dopo la morte di più
di 600 donne, uomini e bambini nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, “ultimi
episodi di un Mediterraneo trasformatosi in cimitero marino per le
responsabilità delle politiche di governo e di controllo delle migrazioni”. La
Carta si fonda sul riconoscimento che “tutte e tutti noi, in quanto esseri
umani, abitiamo la Terra come spazio condiviso”; che “tale appartenenza comune debba essere
rispettata, le differenze considerate una ricchezza e una fonte di nuove
possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere”; che le
relazioni tra le persone non dipendono in alcun modo dalla loro origine e/o cittadinanza,
dalla loro reale o presunta appartenenza culturale o etnica o religiosa; che è
necessario “combattere ogni linguaggio e atteggiamento fondati su pregiudizi,
discriminazioni e razzismo, comunque e
ovunque si manifestino”.
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