28/09/21

28 settembre 2021 giornata internazionale per i diritti riproduttivi

 

Image: Midhun Puthupattu

Nella Giornata Internazionale per l'Aborto Sicuro, donne di tutto il mondo riflettono sui diversi ostacoli all'esercizio di questo diritto fondamentale e all’autonomia del proprio corpo*

La necessità del capitalismo di riprodurre e allevare la forza lavoro è stata istituzionalizzata con la creazione dello stato moderno, che ha normato per legge il determinismo biologico delle donne verso la casa, la maternità e la sfera privata della riproduzione sociale. Da allora, le donne del mondo si sono organizzate e hanno lottato per un concetto di cittadinanza che non escluda donne, migranti, LGTBQ o persone razzializzate. Con questa lotta, esse hanno allargato il percorso della democrazia e portato avanti delle rivoluzioni, oltre ad ampliare la teoria e la pratica di trasformazione del mondo.

Tale percorso è stato fatto di colpi di scena, barricate e resistenza. In onore del 28 settembre, Giornata mondiale di azione per l'aborto gratuito, sicuro e legale, le donne di diverse regioni del mondo hanno condiviso riflessioni su questo tema cruciale.

Questa giornata internazionale di lotta, come tante altre, arriva dal Sud del mondo. Nel 1990, fu organizzato in Argentina il V Incontro Femminista dell'America Latina e dei Caraibi e fu esteso alla popolazione mondiale l’invito a lavorare su un'agenda internazionale collettiva per l'emancipazione delle donne e dei corpi di genere diverso, per combattere le morti clandestine, la criminalizzazione e la povertà che costringono molti ad avere figli contro la propria volontà. Oggi, 28 settembre, è una giornata globale di azione in tutto il mondo che pone al centro del dibattito internazionale la necessità di autonomia sul proprio corpo e di accesso alle cure necessarie per scegliere liberamente.

A livello globale esiste una significativa disparità per quanto riguarda l'accesso ai diritti sessuali e riproduttivi. Ci sono paesi con legislazioni che consentono l'aborto con una legge sul limite di tempo (fino a 14, 22 settimane ecc.), altri con leggi che consentono la procedura medica in casi specifici (la vitalità del feto, lo stupro o il rischio per la vita della madre); e ci sono altri luoghi in cui le persone che praticano o assistono gli aborti vengono addirittura criminalizzate e possono essere incarcerate. Un terzo dei paesi dell'America Latina e dei Caraibi impone il divieto totale di aborto. In El Salvador, Honduras, Nicaragua, Repubblica Dominicana e Haiti, le donne rischiano il carcere anche quando gli aborti sono spontanei. Il caso di María Teresa Rivera, una donna salvadoregna che vive in Svezia, il primo caso noto di asilo legato al diritto all'aborto, esprime una situazione estrema di persecuzione e di come i corpi delle donne siano criminalizzati.

Ma al di là di tutte le differenze, la realtà che sta al fondo di tutto è che l'aborto e la giustizia riproduttiva sono questioni di classe, che portano con sé un'enorme quantità di stigma sociale e rimangono al centro della lotta contro le tradizioni reazionarie, il conservatorismo religioso e l'estrema destra.

In molti paesi, la lotta per la giustizia riproduttiva si è incentrata sull'approvazione di una legge che legalizza la procedura medica. Tuttavia, le attiviste di tutto il mondo insistono sul fatto che la lotta è più ampia, «non si tratta solo di una legge sull'aborto, c'è un quadro più ampio: l'impatto del neoliberismo sui diritti delle donne», ha sottolineato Nalu Farias della Marcia Mondiale delle Donne.

Questa lotta avviene nello stesso momento in cui l'accesso all'assistenza sanitaria e ai servizi pubblici viene eroso, i programmi per asili nido, occupazione e alloggi dignitosi vengono attaccati quotidianamente e colpiscono direttamente le donne che hanno il compito di garantire la riproduzione quotidiana della vita familiare. Barbara Tassoni di Potere al Popolo, un'organizzazione di sinistra in Italia, spiega che «la legge garantirebbe l'assistenza sanitaria pubblica per tutte, ma la privatizzazione in corso del sistema sanitario rende insostenibile la prestazione di cure di base. Questa situazione condiziona la nostra realtà di giovani donne e ci impedisce di avere una maternità libera e desiderata senza precarietà».

La lotta per l'autonomia

Ogni generazione di donne combatte le istituzioni, fa pressione per ottenere leggi, lotta per introdurre norme che garantiscano l'autonomia delle donne, mira a far avanzare i nostri diritti. Ma nel corso della storia, tutti questi risultati vengono rimessi in discussione da ogni crisi capitalista, come quella accelerata dalla pandemia di COVID che stiamo vivendo, che mostra la fragilità delle nostre vittorie.

L'attacco coordinato a livello internazionale delle destre, dell'estrema destra e dei gruppi religiosi espressamente contrari alla libera scelta, ha colpito e reso vulnerabili diritti precedentemente conquistati. In molti paesi ostacolano l'applicazione delle leggi esistenti, tagliano o limitano l'accesso esistente alla contraccezione e all'aborto e impediscono l'educazione sessuale nelle scuole. In molti paesi, la propaganda della destra usa le donne come strumento dei cambiamenti demografici, alimentando i timori di sovrappopolazione della minoranza indesiderata. Questo argomento è stato usato dalla destra, dalle organizzazioni religiose e dai partiti conservatori in paesi come la Polonia.

La separazione tra Stato e religione è una delle questioni chiave con cui possiamo analizzare i diritti riproduttivi delle donne. Nel 1965, la Tunisia è diventata il primo paese musulmano a legalizzare l'aborto.

Attualmente, in Texas la questione dell’aborto è al centro del dibattito politico per via della legge SB8, che vorrebbe vietare tutti gli aborti dopo le prime 6 settimane. In pratica ciò significa un divieto quasi totale di abortire poiché la maggior parte delle donne non sa di essere incinta prima delle sei settimane. Layan Fuleihan del People's Forum di New York spiega che «la legalizzazione dell'aborto si basa sul concetto di privacy, trattando i diritti delle donne come una questione individuale, quindi in teoria abbiamo il diritto privato di scegliere l'esito della nostra gravidanza». Negli Stati Uniti, l'unica base legale che esiste per convalidare l'accesso all'aborto è la sentenza Roe v Wade del 1973. «Questo è molto problematico, perché consente un'interpretazione aperta da parte dei diversi governi statali, portando a un accesso ampiamente variabile in tutto il paese a seconda del partito al governo», sottolinea Fuleihan. Ad esempio, dove la legge è interpretata in modo conservativo e l'aborto è consentito solo in casi molto specifici o non lo è affatto, le organizzazioni e le cliniche che forniscono servizi sanitari alle comunità emarginate e alle donne vengono de-finanziate o chiuse.

Anche nei paesi in cui esistono leggi che consentono il diritto di scelta, molte donne che chiedono di abortire si scontrano con ostacoli come amministratori locali o medici. Secondo Ada Donno della Women's International Democratic Federation, in Italia «la possibilità di rifiutarsi di praticare l'aborto nelle strutture pubbliche si chiama 'obiezione di coscienza' ed è utilizzata dal 70 al 90% dei ginecologi». La situazione è simile nello Stato spagnolo dove, secondo Nora García, «non abbiamo il numero effettivo di questi medici obiettori nella regione di Madrid, ad esempio, che è stata governata dalla destra per più di 25 anni. Quello che sappiamo è che su 16.330 aborti avvenuti nel 2019, zero sono stati effettuati nel sistema sanitario pubblico».

Questo dimostra che rendere effettivi i nostri diritti è una questione di volontà politica, perché presumibilmente la Spagna ha una delle politiche più avanzate d'Europa. In Germania, la decisione di abortire deve essere autorizzata da un medico dopo un esame mentale.

Gli obiettori all’autonomia delle donne non sono solo ginecologi, governi regionali e psicologi religiosi, ma possono anche essere re. In Marocco, lo stesso re Mohamed VI è l'arbitro di tutti i diritti o le decisioni riguardanti le donne del paese. In molti paesi, i “cittadini preoccupati” e le associazioni locali “pro-vita” esercitano violenze e pressioni facendo picchetti davanti a ospedali e cliniche contro il personale e le pazienti impunemente, mentre allo stesso tempo ricevono finanziamenti pubblici per agire contro la legge.

Quando si applica il termine "gravidanza adolescenziale" alle ragazze di età inferiore ai 14 anni, allora la lotta per l'accesso all'aborto è tardiva. La mancanza di educazione sessuale, l'estremo squilibrio di potere tra i generi (che rende discutibile il concetto di consenso), lo stigma sociale intorno ai corpi delle donne in generale e alla sessualità in particolare; dimostra che la lotta per la nostra autonomia è lotta per fare scelte consapevoli. Questo è molto chiaro nel contesto di molti paesi del continente africano, come spiega Zikhona di Pan African Today: «L'educazione sessuale è una conoscenza basilare e indispensabile per le donne dei ceti popolari. Ad ogni età. Dobbiamo parlare con le adolescenti del ciclo mestruale, con le donne adulte delle malattie sessualmente trasmissibili e anche della menopausa. Il nostro corpo non può essere un mistero di cui non parliamo pubblicamente. Questa dovrebbe essere una priorità del governo con politiche concrete in tutti i paesi africani».

In America Latina, c'è stata una evidente reazione di destra e anti-diritti in tutto il continente in seguito alle conquiste che garantiscono l'aborto sicuro in Uruguay (2012), Cile (2017), Argentina (2020) e Messico (2021). Secondo Laura Capote e Agostina Betes di ALBA Movements essa «fa parte delle strategie messe in campo sul territorio per fermare o cancellare proposte emancipatrici. Nelle Americhe viviamo quotidianamente situazioni come quella della bambina brasiliana di 10 anni, incinta dopo essere stata violentata, alla quale il Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani del governo Bolsonaro ha cercato di impedire nel 2020 di accedere a un aborto legale».

Questa vasta gamma di obiettori è solo un sintomo dell'idea pervasiva che le menti e i corpi delle donne debbano essere controllati da un capitale e un ordine mondiale neoliberista. Ecco perché i diritti delle donne sono così pericolosi per l'attuale sistema globale. Ecco perché in tante si sono ritrovate in questa lotta e in ogni vittoria in ogni parte del mondo, come in Argentina l'anno scorso o in Messico questo settembre (dove la nuova legislazione sull'aborto include che "l'obiezione di coscienza" non può impedire l’esercizio dei nostri diritti), o il sostegno del 77% al referendum sull'aborto a San Marino, in Italia, che ha dato più forza a questa lotta globale.

Oltre il sistema clandestino

Non legiferare sull'aborto non impedisce che si verifichino aborti. Ad esempio, ogni giorno in Marocco vengono praticati illegalmente tra i 500 e gli 800 aborti clandestini, con tutti i rischi che ciò comporta. Lo slogan argentino “educazione sessuale per decidere, contraccettivi per non abortire e aborto legale per non morire” articola tre delle principali rivendicazioni delle donne di tutto il mondo. Tuttavia, è necessaria un'analisi più approfondita per comprendere e quindi affrontare le radici degli attacchi ai diritti delle donne e delle persone di genere diverso. I movimenti femministi del mondo devono essere parte dell'alleanza globale che lotta per sottrarre al mercato la riproduzione della vita, per l’emancipazione e la libertà.

28 settembre 2021

Donne dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (AIP)

Trad. AWMR Italia

*Questo articolo è stato scritto collettivamente da donne di ogni area del mondo che fanno parte del Gruppo femminista dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (AIP)


25/09/21

ADoC in piazza il 25 settembre / Non in nostro nome, né col nostro silenzio

ADoC in piazza a Roma con tutte le donne


L’Assemblea delle Donne Comuniste (ADoC – Pci) aderisce e partecipa alla manifestazione convocata a Roma per il 25 settembre 2021 dall’Assemblea della Magnolia, che ha dichiarato aperta la conflittualità femminista con il Piano governativo di “ripresa e resilienza” (PNRR), che va da tutt’altra parte rispetto a quanto dalle donne richiesto.

Nel PNRR non s’intravede alcun “cambio di paradigma” e neppure un “cambio di passo”. È un piano di riorganizzazione del capitalismo patriarcale, istruito dalla UE, d’impianto neoliberista, che punta tutto su crescita della grande impresa, dell’infrastruttura pesante e del consumo e che produrrà più disuguaglianza, più disoccupazione e sfruttamento, squilibri sociali e marginalizzazioni.

Gli obiettivi di “sviluppo sostenibile, transizione ecologica e tecnologica, di riequilibrio di genere” annunciati dal governo e dalla UE prospettano una ripresa economica basata su una “crescita del PIL” ottenuta a un prezzo sociale altissimo che verrà scaricato soprattutto sulle donne lavoratrici, native e migranti, in Italia, in Europa e ad ogni latitudine. Sono dunque ingannevoli e incompatibili con quel “paradigma della cura” che i Luoghi delle donne si stanno sforzando di configurare come possibile risposta politica unitaria.

Non ci va bene che fondi destinati al “recupero” siano utilizzati per investimenti militari, aggiuntivi rispetto al bilancio ordinario già vincolato al raggiungimento del 2% del PIL, secondo i dettami della NATO.

Non ci vanno bene le scelte annunciate che ricalcano le strade della sicurezza militarizzata, della proliferazione di armamenti e del riarmo dell’Europa, con la riproposizione di logiche di guerra, fredda o calda che sia, contro “nemici” immaginari, invece che perseguire strade di cooperazione e condivisione globali.

Queste misure non passeranno in nostro nome, né col nostro silenzio.

#AssembleadelleDonneComuniste

Roma, settembre 2021

 





25 settembre in piazza a Roma / Il cambiamento che vogliamo

 La Casa delle donne di Milano con tutte le donne


Saremo in piazza a Roma il 25 settembre per difendere le libertà e i diritti delle donne, tragicamente violati in Afghanistan, e per comunicare al mondo intero che non possiamo permettere che tutto torni come prima.

Ormai è chiaro che per costruire la rivoluzione della cura dobbiamo ribaltare le premesse del sistema patriarcale che regge le nostre società fin dalle origini.

Dobbiamo uscire dal modello di sviluppo illimitato e predatorio cui si devono le malsane condizioni che hanno permesso il diffondersi dell’attuale pandemia e di probabili altre nel futuro. Purtroppo però sulle cause di questo disastro e sulla necessità di agire all’origine per modificarle è sceso il silenzio, spostando l’attenzione su avvilenti diatribe politiche e mediatiche che non risolvono nulla.

Si devono cambiare alla radice tutte le scelte che riguardano l’economia, l’ambiente, il lavoro, la sanità, la giustizia. Dobbiamo smettere di finanziare armi e guerre, la vera industria della morte, e dobbiamo cambiare paradigma simbolicamente e concretamente, spostando la maggior parte delle risorse economiche sulle attività di cura che persone invisibili e sfruttate, in maggioranza donne, svolgono ogni giorno per sostenere il necessario riprodursi della vita.

Ad esempio si può iniziare

  •  destinando l'1% della spesa programmata per le armi a investimenti per una medicina      territoriale;
  •  aumentando gli stipendi per il personale infermieristico;
  •  diminuendo il numero degli alunni per classe;
  •  attribuendo nuove risorse ad assunzioni e formazione del personale docente.

Quello che si sta decidendo però sembra andare purtroppo nel senso opposto.  Non soltanto nel Pnrr si destinano risorse minime a tutte le politiche di genere, ma continua il ricorso alle fonti fossili, si progettano altre trivellazioni, permane l’uso dei pesticidi e degli allevamenti intensivi, aumenta il consumo di suolo, sono allo studio nuove grandi opere, crescono diseguaglianze che privilegiano il Nord a scapito del Sud. Come se non bastasse, si riparla di nucleare, si potenzia l’industria delle armi con nuove spese e nuovi terribili strumenti di morte.

Si continua poi nella feroce ingiustizia di negare l’asilo a chi fugge da violenze e guerre, persino se proviene da paesi come l’Afghanistan, tacendo sulle tremende violenze che le persone migranti subiscono ai vari confini, in particolare sulla rotta balcanica che giunge fino a noi.  Si rifiuta la cittadinanza a chi ne ha pieno diritto vivendo qui dalla nascita o dalla prima infanzia.

E mentre la tecnologia e la finanza preparano inimmaginabili scenari post-umani su cui dovremmo tutte e tutti interrogarci, perché sembrano portare verso società ancor più autoritarie e oligarchiche, noi siamo costrette di nuovo a sfibranti lotte per riconquistare quei diritti che pensavamo di aver ottenuto.

C’è quindi un conflitto fra questo potere universale e misogino che ci ha portato al disastro e la necessità irrimandabile del cambiamento. Occorre rivendicare l’immensa capacità delle donne a tutti i livelli, e occorre esigere che al massimo grado di ogni struttura decisionale si dia voce e spazio al sapere e alle competenze delle donne.   

Si può e si deve fare. Esistono esempi virtuosi che lo dimostrano, come a Barcellona dove la sindaca Ada Colau ha promosso un modello di città sostenibile, equo e inclusivo, nonostante l’opposizione di potentissime lobby. Per noi è una strada da seguire.

 #CasadelledonneMilano

12/09/21

Donne in Afghanistan, una storia da raccontare in altro modo

 

Donne del PDPA negli anni '80. Foto SISTERS


di Liz Payne, National Assembly of Women (NAW)

Quattro decenni fa, il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) era al potere. Il governo era secolare, non confessionale e il paese era una repubblica. I passi avanti che il popolo dell’Afghanistan fece con il governo del Pdpa, negli ultimi anni ’70 e negli ’80, e per le donne in particolare, furono enormi: prima che gli Stati Uniti e i loro alleati – Gran Bretagna e NATO, dittature teocratiche dell’Iran e dell’Arabia Saudita, servizi segreti del Pakistan - insieme alle forze più reazionarie dell’Afghanistan, vergognosamente lo rovesciassero nel 1992.

Passi per liberare le donne da secoli di giogo feudale e trattamenti disumani erano stati fatti sul serio negli anni ’20, profondamente influenzati dalla rivoluzione del 1917 che aveva sostituito l’impero russo degli zar con una repubblica socialista, con la quale l’Afghanistan sottoscrisse un trattato di amicizia nel 1921. Nel corso del tempo, l’offerta per garantire la parità di diritti alle donne fu guidata da un influente movimento femminile. Le donne furono ammesse per la prima volta all’Università di Kabul nei primi anni ’50. La costituzione del 1964 introdusse – almeno sulla carta – il suffragio universale, il diritto delle donne a concorrere agli incarichi pubblici, svolgere professioni e presentarsi in pubblico senza il velo. Tuttavia, la pratica restava molto indietro rispetto alla lettera della legge, specialmente (ma non soltanto) nelle aree rurali.

Ma il governo del Pdpa era determinato a cambiarla su basi permanenti. Grandi passi furono fatti nell’applicazione dei diritti delle donne e anche nell’edificazione dell’infrastruttura del paese in maniera democratica e pacifica, con lo sviluppo dei servizi pubblici, l’accesso libero all’istruzione e alla salute e sradicando la povertà. Questo slancio, di cui fu testimone nel 1988 la Federazione Democratica Internazionale delle Donne (WIDF) che inviò una delegazione in Afghanistan, alla quale partecipò l’allora presidente della National Assembly of Women, Barbara Switzer, fu annientato nel 1992, per nessun altro motivo se non quello di assicurare all’imperialismo Usa il controllo geopolitico dell’Afghanistan e accedere alle sue immense risorse, non importa a quale prezzo ciò avvenisse per il popolo afghano e il cammino fatto per uscire dal feudalesimo.

Fu un disastro per le donne afghane e aprì la strada al potere degli spietati Talebani, fondamentalisti islamici addestrati in Pakistan, che nel 1996 imposero la legge della Sharia. Ciò riportò indietro di decenni la lotta delle donne contro la violenza e per la parità di diritti. Ma il nascente regime Talebano era visto dall’Occidente come quello che avrebbe bloccato, anche brutalmente, lo sviluppo di qualsiasi tendenza progressiva in Afghanistan – senza che gli Stati Uniti e i loro alleati alzassero un dito nel paese - mentre lasciavano sempre all’imperialismo il pretesto per intervenire direttamente laddove i loro piani di dominio lo richiedessero. I diritti delle donne, la democrazia e il progresso per le masse popolari non erano nei pensieri dell’imperialismo.

Cinque anni più tardi, dopo l’attacco di Al Qaeda al World Trade Centre nel settembre 2001, ancora una volta gli Usa e i loro alleati optarono per l’intervento armato diretto in Afghanistan, la cosiddetta “Guerra al Terrore”, sebbene tutti sapessero ch’era l’Arabia Saudita a foraggiare ed addestrare la maggior parte dei capi e dei miliziani di Al Qaeda.

L’attacco alle basi di Al Qaeda nel complesso di grotte di Tora Bora nell'Afghanistan orientale, vicino al confine tra Afghanistan e Pakistan, ha rivelato il vero scopo del catastrofico intervento: cacciare i talebani – che erano serviti allo scopo - e installare un regime direttamente pro-Usa a Kabul sostenuto da un esercito di occupazione imperialista internazionale. Ciò ha portato a 20 anni di guerra durante i quali l’Afghanistan è stato devastato. L’opinione pubblica mondiale si è nutrita della favola che tutto questo servisse in qualche modo a battere Al Qaeda e di frequenti riferimenti ad aiuti umanitari alla popolazione e alla difesa dei diritti delle donne.

Nel mondo, tuttavia, coloro che si opponevano alla guerra in Afghanistan, sostenendo il diritto del popolo afghano a decidere il proprio futuro, rigettavano totalmente una simile “giustificazione”. Che avessero pienamente ragione, è ora lampante.

John Bolton, ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite nel 2005/06 e funzionario della sicurezza nazionale di Donald Trump negli anni 2018-19, ha categoricamente dichiarato nelle scorse settimane che tutta l’operazione degli Stati Uniti in Afghanistan non aveva nulla a che fare con il sostegno al popolo, né con la democrazia, né con l’assistenza umanitaria. Serviva solo a fare gli interessi degli Usa.

Alla luce di tutto ciò, faremmo bene ad andar caute a valutare l’uscita degli americani e dei loro alleati come una “disfatta”. La restaurazione pianificata dei Talebani presenta significativi vantaggi economici, politici e strategici per gli Stati Uniti. Tre presidenti – Obama, Trump e Biden – hanno lavorato parecchi anni per districarsi e concentrare le forze altrove, come ad esempio nell’area del Pacifico asiatico, nel contesto della loro crescente conflittualità con la Cina. Il perdurare della guerra in Afghanistan non ha inoltre permesso di sfruttare i ricchi giacimenti di minerali con cui alimentare la transizione globale dal trasporto petrolifero a quello elettrico, una transizione multimiliardaria che i conglomerati e i governi dei paesi imperialisti sono determinati controllare. 

La presenza delle maggiori riserve di litio per batterie, significa che gli occhi del mondo sono puntati lì. Per quanto riguarda l'Occidente, i Talebani offrono anche il vantaggio di poter esportare la destabilizzazione islamica radicale verso i paesi i vicini e rivali – a nord verso le ex repubbliche sovietiche alleate con la Federazione Russa, e ad est nelle province occidentali della Cina. Essi assicurano inoltre che i cambiamenti progressivi siano minacciati e ostacolati in tutta la regione e che possa essere mantenuto un Medio Oriente continuamente instabile in cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e le potenze alleate possano attuare le loro strategie a piacimento. Per questo gli Stati Uniti hanno protratto i negoziati con i Talebani e pianificato il ritorno di questi al potere senza alcuna preoccupazione dell’impatto sul popolo afghano né dell’orrore per le donne, come hanno dimostrato gli avvenimenti di agosto.

Le donne afgane hanno ragione a temere la reimposizione della legge della sharia da parte dei talebani e a respingere i loro annunci secondo cui saranno al sicuro, a condizione che vivano in obbedienza ad essa. Molte hanno una lunga memoria delle atrocità dei precedenti talebani e già movimenti contro le donne, aggressioni fisiche, stupri e aggressioni sessuali, matrimoni forzati, anche di bambine, esclusione dallo studio, dal lavoro e dalla sfera sociale hanno, in pochi giorni, mostrato cosa c'è in gioco con un fondamentalismo sfrenato.

In una recente dichiarazione di solidarietà con le donne afghane, l’Organizzazione democratica delle donne iraniane (DOIW), affiliata alla WIDF ha detto: “Noi, popolazioni dell’Iran e dell’Afghanistan, portiamo le ferite inflitte dall’Islam politico, con l’arretratezza e la misoginia che lo caratterizza”.

La presidenza della WIDF ci ha chiamate a stare accanto alledonne afghane e a difendere i loro diritti. Come ha detto Shara Karimi, famosa regista afghana, dobbiamo essere la loro voce fuori dai confini dell’Afghanistan. Questo significa denunciare pubblicamente e senza sosta che Usa e Gran Bretagna non si sono mai curati e non si cureranno mai delle donne e delle ragazze afghane. Significa opporsi a qualsiasi ulteriore intervento di qualsiasi tipo da parte del nostro governo in Afghanistan e fare ogni pressione possibile su Westminster per recidere la tossica partnership britannica con gli Usa e ogni coinvolgimento nella NATO. Significa anche lavorare in solidarietà con le donne afghane e le loro organizzazioni e con tutte le componenti progressive per supportare la lotta popolare contro la povertà, la guerra e la discriminazione e per un futuro pacifico e democratico.


08/09/21

TULL QUADZE / TUTTE LE DONNE A ROMA IL 25 SETTEMBRE 2021

LA RIVOLUZIONE DELLA CURA IN MOVIMENTO


La voce delle donne per prendersi cura del mondo 

SABATO 25 SETTEMBRE ORE 14 A ROMA, PIAZZA DEL POPOLO

Dalla pandemia abbiamo imparato una lezione: lottare per praticare quella cura che ha al centro la vita degli esseri umani, della natura e di tutti i viventi. Altrimenti, la risposta sarà sempre la stessa: ingiustizia, disuguaglianza, sfruttamento degli esseri umani e della nostra terra e alla fine guerra e distruzione.

L'Afghanistan è il tragico specchio del cinismo di tutti i poteri, dei torbidi inganni del paternalismo della cura che funziona solo con i cerchi concentrici del prima, la famiglia, la nazione, mai la comune umanità. Per questo, quel che accade nel paese è della stessa pasta delle morti nel Mediterraneo, delle torture in Libia, degli accampamenti nei Balcani, teatro di efferate violenze sui corpi delle donne.

Dobbiamo imparare le lezioni che questi durissimi decenni di crisi economica, malattia, guerra, devastazione ambientale ci hanno impartito.

Le donne, che pagano sempre il prezzo più alto di queste scelte, stanno gridando che bisogna cambiare: partire dai bisogni, dai diritti, dalle idee, dalla fatica significa prendersi cura del mondo invece che sfruttare il mondo, prendersi cura delle persone e della terra in cui viviamo, invece che usarla per affermare profitto e dominio.

Per la prima volta da decenni ci saranno risorse da spendere, in un’Europa benestante e ingiusta.

Non un euro per scelte di dominio e sfruttamento, non un euro per le armi. Tutte le risorse, tutte le nuove leggi, dal fisco al lavoro, dall’ambiente al welfare per curare il mondo, sanare le ingiustizie, restituire a chi ha perduto e sofferto.

E’ tempo di usare tutti gli strumenti della nostra incompiuta democrazia per la conquista della libertà di tutte.

Per questo andiamo in piazza.

La pandemia, la crisi climatica, le tragedie delle guerre e delle migrazioni ci chiedono una rivoluzione:

LA RIVOLUZIONE DELLA CURA

L’Assemblea della Magnolia

Per adesioni scrivere a: segreteria@casainternazionaledelledonne.org



04/09/21

L’AFGHANISTAN E L’ARROGANZA DELL’OCCIDENTE

Bambini a Kabul - Foto: Focus.it

"La pretesa di universalità dell'Occidente, lo ha portato a credersi portavoce dell'umanità, dei suoi valori, problemi e soluzioni"

https://www.other-news.info/noticias/afganistan-y-la-arrogancia-de-occidente/

di  Paula Guerra Cáceres*

Nel suo libro La hybris del punto zero, Santiago Castro-Gómez analizza il modo in cui l'Europa ha costruito la sua narrazione a partire da un supposto “non luogo”, cioè da uno spazio teoricamente neutro e oggettivo, senza particolari interessi, sostenuto da due dei pilastri della modernità: pensiero illuminato e metodo scientifico.

In questo modo ci viene detto che la Conoscenza con la maiuscola, intesa come conoscenza assoluta, nasce necessariamente in Occidente e che deve essere assunta come verità universale da altre culture e società, sia che si parli di arte, o medicina, economia, politica o filosofia.

Cercare di confutare questa tesi è stato un lavoro titanico per molti autori non occidentali. Nel libro Il mito dell'opposizione tra pensiero indiano e filosofia occidentale, il filologo Fernando Tola e la filosofa Carmen Dragonetti, hanno dimostrato, attraverso un'analisi rigorosa delle diverse dottrine filosofiche indiane e delle loro controparti greche ed europee, che la filosofia non è nata in Grecia come sosteneva Hegel nel XIX secolo.

Si tratta di un'indagine esauriente e minuziosa che cita le fonti originali in sanscrito, greco e latino e, tuttavia, ciò che tuttora permane è l'opinione del filosofo tedesco per il quale la filosofia poteva nascere solo in Grecia perché, secondo lui, solo lì ci sarebbe stato un ambiente di libertà di pensiero e di spirito favorevole all'emergere del pensiero filosofico, cancellando così trenta secoli ininterrotti del pensiero indiano.

Questa arroganza è presente anche in esempi più contemporanei. Nel contesto di un dibattito tra intellettuali decoloniali latinoamericani e Slavoj Žižek sull'eurocentrismo e la ferita coloniale, il filosofo sloveno - una sorta di nuovo Marx per buona parte della sinistra europea - è arrivato a sostenere nel libro Ribellioni etiche, parole comuni che «Questo ritorno a una saggezza indigena originale o cose simili, per me è una totale spazzatura (...) credo ancora nel valore universale dell'idea eurocentrica di base della modernità».

L'anno successivo, nel 2018, ha sostenuto in Il coraggio della disperazione che «Haiti è stata colonizzata dai francesi, ma è stata la Rivoluzione francese a fornire il substrato ideologico per la ribellione che ha liberato gli schiavi e ha fondato Haiti indipendente».

Probabilmente, a causa dell'arroganza epistemica dei pensatori occidentali che di solito non consultano la conoscenza prodotta al di fuori dell’ambito eurocentrico, Žižek non è a conoscenza dell'opera Libertà o morte!, nella quale Fernando Martínez Peria svolge un'indagine dettagliata del processo rivoluzionario haitiano, e le sue caratteristiche intrinseche che l'hanno portata a diventare, come sottolinea l'autore, "la prima repubblica nera al mondo, libera da schiavitù, colonialismo e razzismo".

Il monologo eurocentrico

Pensare oggi che quegli schiavi africani fossero consapevoli della loro condizione solo grazie alla Rivoluzione francese è una questione che va al di là della mera ignoranza. Chi lo desidera può trovare su Google il libro di Araceli Reynoso Revueltas y ribelliones de los Africanos schiavizzati nella Nuova Spagna, in cui raccoglie, citando documenti ufficiali dell'epoca, dati sulle insurrezioni degli africani a Città del Messico nel 1537, niente di più e niente meno che 252 anni prima della Rivoluzione francese.

Queste ricerche, che Žižek e compagni - leggasi tutta la comunità scientifica legittimata dall'Europa - non hanno letto e non leggeranno mai, suppongono una contro-narrazione che sfida la storia universalista occidentale, e quindi non avranno mai l'approvazione della comunità accademica dominante.

Ma questo monologo eurocentrico, praticato da secoli dall'Occidente, non si limita all'accademia, ma comprende tutti i modi di produrre e riprodurre il rapporto di superiorità vs inferiorità, un problema che è tornato alla luce dopo gli ultimi avvenimenti in Afghanistan.

Da quando è scoppiata l'ultima crisi in questo Paese, sia negli articoli di giornale che nei dibattiti televisivi, è stata proclamata l'urgenza di portare la civiltà in Afghanistan, salvandolo dalla barbarie, come se l'Occidente fosse il custode del mondo, l'Afghanistan non avesse al suo attivo migliaia di anni di civiltà e di storia, e "civiltà" non potesse che essere ciò che l'Occidente ha definito tale.

Parlano dell'Islam e dei Talebani senza fare alcuna differenza, nella maggior parte dei casi, tra la religione e l'interpretazione dogmatica di essa, installando l'idea che sia l'Islam stesso a seminare il terrore in Afghanistan, molte volte senza menzionare che è stato l'Occidente stesso a causare gran parte dell'attuale crisi politica e sociale del Paese con la sua guerra ventennale.

Questo discorso di demonizzazione dell'Islam è costellato di immagini di donne e ragazze che l'Occidente deve "salvare" (il famoso complesso del "salvatore bianco"). In questo senso, si consiglia vivamente di leggere l'articolo della filosofa Rafia Zakaria,  Le femministe bianche volevano invadere (White femminist Wanted to invade, nel suo titolo inglese), in cui si riflette sulla credenza delle femministe bianche riguardo a ciò che è meglio per le donne afgane e dove si cita l'Afghanistan Women's Association, che fin dalla sua fondazione nel 1977 ha denunciato il fondamentalismo religioso (e per questo non sono sospettabili di radicalismo), che si è apertamente opposta all'invasione statunitense e al successivo governo afghano da essa appoggiato.

Il vantaggio di essere portavoce universale

Una semplice analisi della narrazione che si sta facendo della crisi in Afghanistan (salvo poche eccezioni) rivela il monologo eurocentrico, eterno, ripetitivo dell'annullamento e della disumanizzazione dell'Altro.

Quando si parla di Afghanistan si parla di quell'Altro selvaggio, barbaro e premoderno che va civilizzato, e mescola in modo interessato (lo ripeto) l'interpretazione che i talebani fanno dell'Islam con ciò che realmente rappresenta.

Questo articolo non vuol essere in alcun modo una difesa del regime talebano o delle sue violazioni dei diritti. È una riflessione critica sulla pretesa di universalità dell'Occidente, che lo ha portato a credersi portavoce dell'umanità, dei suoi valori, dei suoi problemi e delle sue soluzioni.

Ciò che prima si realizzava con la schiavitù, il genocidio e lo sfruttamento delle colonie, oggi è largamente ottenuto attraverso questo monologo da portavoce universale che annienta/rende invisibili altre visioni del mondo e sistemi di conoscenza, relegandoli nelle categorie di singolarità ed eccezione.

Come afferma Walter Mignolo, poiché ogni produzione di conoscenza implica necessariamente un luogo di enunciazione, un luogo geografico, politico, anche corporeo, dal quale si parla ed enuncia, l'esistenza di una verità oggettiva e universale è assolutamente impossibile.

E tuttavia, uno dei grandi trionfi dell'Occidente è proprio l'affermazione della fallacia della verità pura, scientifica, asettica. Sulla base di questa premessa, che lo ha portato a farsi portavoce dell'umanità e a fondare l'attuale ordine coloniale, razzista e capitalista, ha beneficiato politicamente, socialmente ed economicamente della subalternità dei popoli non occidentali.

Questo è ciò che ha voluto fare con l'Afghanistan, cancellarlo per occidentalizzarlo e mantenere così il controllo delle sue risorse minerarie e la propria posizione geostrategica.

Con questo intento, continuerà a ripetere il suo monologo sordo sulla creazione di un “Altro” pericoloso che deve essere eliminato (l'Islam), dimenticando, come ha affermato il fotografo yemenita Boushra Almutawakel in una recente intervista alla BBC, che “i talebani sono stati creati dagli Stati Uniti per combattere i sovietici (…)” e che “non c’è bisogno che l'Occidente ci salvi. E in ogni caso, l'Occidente ci ha distrutti”.

Trad. Awmr Italia

* Paula Guerra Cáceres è pubblicista e ricercatrice. Antirazzista e femminista, è presidente di SOS razzismo Madrid. Cilena per nascita, vive e lavora nella capitale spagnola.



02/09/21

SOCIETÅ DELLA CURA / TORNIAMO IN PIAZZA IL 25 SETTEMBRE

 PERCHÉ NOI DELLA SOCIETÁ DELLA CURA CI SAREMO...


Torniamo in piazza con una consapevolezza in più, perché dalla pandemia abbiamo imparato una lezione: contro l'incuria del potere, occorre lottare per praticare la cura che metta al centro la vita degli esseri umani della natura e di tutti i viventi.

Torniamo in piazza mentre si svolge il dramma dell'Afghanistan. Un altro, e altri crimini provocati dalle guerre dei potenti: in Siria, Yemen, Kurdistan, Palestina, Iraq, Libano, Libiain tanta parte dell'Africa... La guerra, sempre scatenata da interessi economici e di potere, opera distruzione. La violenza chiama violenza. Mai crea democrazia, libertà, diritti. Per questo le nostre prime parole sono contro la guerra. Contro la guerra patriarcale in nome della libertà delle donne. Contro la guerra distruttiva in nome della "esportazione" di democrazia. Contro la guerra che arricchisce l'industria delle armi e i poteri militari, che porta occupazioni e guerre civili. Contro la guerra, che esprime con la massima violenza l'incuria, dell'umanità e della natura

Torniamo in piazza per svelare l'ipocrisia di una politica che oggi si strappa i capelli per "le donne e i bambini afghani" dopo aver occupato per 20 anni il paese e sostenuto i signori della guerra ed i loro governi corrotti legati all'economia della droga e autori, essi stessi, di crimini  

Il nostro paese non è innocente. Basta con la retorica mediatica, basta con l'esaltazione del "ventennio di libertà".

Torniamo in piazza per affermare ancora una volta l'amore per la libertà di tutte le nostre sorelle, l'amore per i diritti conquistati, da conquistare, da difendere, nel nostro paese e nel mondo: diritto all'istruzione e alla cultura, diritto alla salute, diritto al lavoro, libertà di essere se stesse. Diritti oggi messi pesantemente sotto scacco in molte parti del mondo.

Non troviamo traccia di questi diritti nel "piano di ripresa", né un cambiamento di passo sulle privatizzazioni che hanno smantellato la sanità, né nella difesa dei posti di lavoro, e neanche nel sostegno a redditi sempre più impoveriti.

Torniamo in piazza per cambiare un sistema sociale, economico, culturale e di potere basato sulla disuguaglianza, pervaso di violenza spesso impunita, dalla discriminazione fino all'omofobia, allo stupro e al femminicidio, 

Torniamo in piazza decise ad avviare quella rivoluzione della cura che si basa sul rispetto dell'altra e dell'altro, i diritti e le libertà di tutte e di tutti, native/i e migranti, a partire dal diritto alla cittadinanza e dal riconoscimento di tutte le soggettività.

Gruppo Femminismo dellarete Società della Cura

1 settembre 2021

01/09/21

Benjamin / La crisi afghana deve porre fine all'impero americano della guerra, della corruzione e della povertà

 

Bambini a Kabul - foto Huffington Post

Gli Stati Uniti possono inciampare nel loro fallimentare tentativo di controllare il mondo attraverso il militarismo e la coercizione, oppure possono cogliere questa opportunità per ripensare il proprio posto nel mondo.

di Medea Benjamin e Nicolas J.D. Davies *

Gli americani sono rimasti scioccati dai video di migliaia di afgani che rischiavano la vita per sfuggire al ritorno al potere dei talebani nel loro paese, e poi da un attentato suicida dello Stato islamico e dal conseguente massacro da parte delle forze statunitensi che insieme hanno ucciso almeno 170 persone, tra cui 13 soldati statunitensi.

Anche se le agenzie delle Nazioni Unite avvertono su un'imminente crisi umanitaria in Afghanistan, il Tesoro degli Stati Uniti ha congelato quasi tutti i 9,4 miliardi di dollari di riserve in valuta estera della Banca centrale afghana, privando il nuovo governo dei fondi di cui avrà disperatamente bisogno nei prossimi mesi per alimentare e fornire servizi di base alla popolazione.

Dietro pressione dell'amministrazione Biden, il Fondo monetario internazionale ha deciso di non rilasciare 450 milioni di dollari in fondi che avrebbero dovuto essere inviati in Afghanistan per aiutare il paese a far fronte alla pandemia di coronavirus.

Gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno anche sospeso gli aiuti umanitari all'Afghanistan. Dopo aver presieduto un vertice del G7 sull'Afghanistan il 24 agosto, il primo ministro britannico Boris Johnson ha affermato che negare aiuti e riconoscimenti costituisce "una leva molto considerevole, economica, diplomatica e politica" sui talebani.

I politici occidentali presentano questa leva in termini di diritti umani, ma stanno chiaramente cercando di assicurarsi che i loro alleati afghani mantengano un po' di potere nel nuovo governo e che con il ritorno dei talebani non abbiano fine l'influenza e gli interessi occidentali in Afghanistan. Questa leva viene esercitata in dollari, sterline ed euro, ma sarà pagata in vite afghane.

A leggere o ascoltare gli analisti occidentali, si potrebbe pensare che la guerra ventennale degli Stati Uniti e dei loro alleati sia stata uno sforzo benevolo e benefico per modernizzare il paese, liberare le donne afghane e fornire loro assistenza sanitaria, istruzione e buoni posti di lavoro, e che tutto questo ora è stato spazzato via dalla capitolazione ai Talebani.

La realtà è ben diversa e non così difficile da capire. Gli Stati Uniti hanno speso 2,26 trilioni di dollari per la guerra in Afghanistan. Spendere tutto quei soldi in qualsiasi paese avrebbe risollevato la maggior parte della popolazione dalla povertà. Ma la maggior parte di quei fondi, circa 1,5 trilioni di dollari, è andata in spese militari assurde e stratosferiche per mantenere l'occupazione militare statunitense, lanciare oltre 80.000 bombe e missili sugli afgani, pagare contractors privati ​​e trasportare truppe, armi ed equipaggiamenti militari avanti e indietro in giro per il mondo per 20 anni.

Dato che gli Stati Uniti combattono questa guerra con denaro preso in prestito, è costata anche mezzo trilione di dollari solo in pagamenti di interessi, che continueranno per molto tempo. Le spese mediche e di invalidità per i soldati statunitensi feriti in Afghanistan ammontano già a oltre 175 miliardi di dollari e continueranno a crescere con l'avanzare dell'età dei soldati. Le spese mediche e di invalidità relative alle guerre degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan potrebbero alla fine superare un trilione di dollari.

"Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno rispondendo alla guerra perduta con la minaccia di una seconda guerra economica contro i talebani e il popolo afgano"

Che dire della "ricostruzione dell'Afghanistan"? Il Congresso dal 2001 ha stanziato 144 miliardi di dollari per la ricostruzione in Afghanistan, ma 88 miliardi sono stati spesi per reclutare, armare, addestrare e pagare le "forze di sicurezza" afghane che ora si sono disintegrate, con i soldati che tornano ai loro villaggi o si uniscono ai talebani. Altri 15,5 miliardi di dollari spesi tra il 2008 e il 2017 sono stati documentati come "sprechi, frodi e abusi" dall'Ispettorato Generale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell'Afghanistan.

Le briciole rimaste, meno del 2% della spesa totale degli Stati Uniti in Afghanistan, ammontano a circa 40 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto fornire qualche beneficio al popolo afghano in termini di sviluppo economico, assistenza sanitaria, istruzione, infrastrutture e aiuti umanitari.

Ma, come in Iraq, il governo che gli Stati Uniti hanno installato in Afghanistan era notoriamente corrotto e la sua corruzione è solo divenuta più estesa e sistemica nel tempo. Transparency International (TI) ha costantemente classificato l'Afghanistan occupato dagli Stati Uniti come uno dei paesi più corrotti al mondo.

I lettori occidentali potrebbero pensare che questa corruzione sia un problema vecchio in Afghanistan, invece che un aspetto particolare dell'occupazione statunitense, ma non è così. TI osserva che "è ampiamente riconosciuto che l'entità della corruzione nel periodo successivo al 2001 è aumentata rispetto ai livelli precedenti". Un rapporto del 2009 dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha avvertito che "la corruzione è salita a livelli mai visti in precedenti amministrazioni".

In tali amministrazioni precedenti rientrano sia il governo talebano che le forze di invasione statunitensi rimossero dal potere nel 2001 che i governi socialisti alleati dei sovietici che negli anni '80 furono rovesciati dai precursori di Al Qaeda e dai talebani schierati dagli Stati Uniti e che distrussero i progressi sostanziali compiuti nell'istruzione, nella sanità e nei diritti delle donne.

Un rapporto del 2010 dell'ex funzionario di Reagan al Pentagono Anthony H. Cordesman, intitolato "Come l'America ha corrotto l'Afghanistan", ha rimproverato il governo degli Stati Uniti per aver gettato irresponsabilmente soldi in quel paese.

Il New York Times ha riferito nel 2013 che ogni mese per un decennio, la CIA ha distribuito valigie, zaini e addirittura sacchetti di plastica pieni di dollari USA al presidente afghano per corrompere i signori della guerra e i politici.

La corruzione ha anche minato le stesse aree che i politici occidentali ora considerano successi dell'occupazione, come l'istruzione e la sanità. Il sistema educativo è affollato di scuole, insegnanti e studenti che esistono solo sulla carta. Le farmacie afgane sono rifornite di medicinali falsi, scaduti o di bassa qualità, molti dei quali introdotti clandestinamente dal vicino Pakistan. A livello personale, la corruzione è stata alimentata da impiegati pubblici come gli insegnanti che guadagnavano appena un decimo degli stipendi degli afgani più ammanicati che lavorano per le ONG e gli appaltatori stranieri.

Sradicare la corruzione e migliorare le vite afghane è sempre stato secondario rispetto all'obiettivo primario degli Stati Uniti di combattere i talebani e mantenere o estendere il controllo del governo fantoccio. Come riportato da TI, "Gli Stati Uniti hanno intenzionalmente pagato diversi gruppi armati e funzionari pubblici afgani per assicurarsi collaborazioni e/o informazioni e hanno collaborato con i governatori, non importa quanto fossero corrotti... La corruzione ha minato la missione statunitense in Afghanistan alimentando rimostranze contro il governo afghano e fornendo sostegno materiale all'insurrezione".

"Tutto ciò che gli Stati Uniti hanno da offrire agli altri paesi oggi è guerra, corruzione e povertà"

L'infinita violenza dell'occupazione statunitense e la corruzione del governo appoggiato dagli Stati Uniti hanno aumentato il sostegno popolare ai talebani, specialmente nelle aree rurali dove vivono tre quarti degli afghani. Anche l'indicibile povertà dell'Afghanistan occupato ha contribuito alla vittoria dei talebani, poiché le persone si sono naturalmente domandate come mai l’occupazione da parte di paesi ricchi come gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali potesse lasciarli in una povertà così abietta.

Ben prima dell'attuale crisi, il numero di afghani che dichiaravano di avere difficoltà a vivere con il proprio reddito è aumentato tra il 2008 e il 2018 dal 60% al 90%. Un sondaggio Gallup del 2018 ha rilevato i livelli più bassi di auto-certificato "benessere" che Gallup abbia mai registrato in qualsiasi parte del mondo. Gli afgani non solo hanno riportato livelli record di miseria, ma anche una disperazione senza precedenti per il loro futuro.

Nonostante alcuni miglioramenti nell'istruzione per le ragazze, solo un terzo delle ragazze afgane ha frequentato la scuola primaria nel 2019 e solo il 37% delle adolescenti afgane era alfabetizzato. Uno dei motivi per cui così pochi bambini vanno a scuola in Afghanistan è che più di due milioni di bambini tra i 6 ei 14 anni devono lavorare per sostenere le loro famiglie afflitte da povertà.

Eppure, invece di farsi scrupoli per le loro corresponsabilità nel mantenere la maggior parte degli afghani impantanati nella povertà, i leader occidentali stanno ora tagliando gli aiuti economici e umanitari disperatamente necessari che sostenevano tre quarti del settore pubblico dell'Afghanistan e costituivano il 40% del suo PIL totale.

Di fatto, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno rispondendo alla guerra perduta con la minaccia di una seconda guerra economica contro i talebani. Se il nuovo governo afghano non cede alla loro "leva" e non soddisfa le loro richieste, i nostri leader affameranno il loro popolo e poi incolperanno i talebani per la conseguente carestia e crisi umanitaria, proprio come demonizzano e incolpano altre vittime della guerra economica statunitense, da Cuba all'Iran.

Dopo aver versato trilioni di dollari in una guerra senza fine in Afghanistan, il dovere principale dell'America ora è aiutare i 40 milioni di afgani che non sono fuggiti dal loro paese, mentre cercano di riprendersi dalle terribili ferite e dai traumi della guerra che l'America ha inflitto loro, oltre a una massiccia siccità che ha devastato il 40% dei loro raccolti quest'anno e una terza ondata devastante di Covid-19.

Gli Stati Uniti dovrebbero rilasciare i 9,4 miliardi di dollari di fondi afgani depositati nelle banche statunitensi. Dovrebbero destinare i 6 miliardi di dollari stanziati per le ormai defunte forze armate afgane in aiuti umanitari, invece di deviarli verso altre forme di sperpero in spese militari. Dovrebbero spingere gli alleati europei e il FMI a non trattenere fondi. Invece, dovrebbero finanziare pienamente l’appello 2021 delle Nazioni Unite per 1,3 miliardi di dollari in aiuti di emergenza, che alla fine di agosto erano fermi a meno del 40%.

Una volta gli Stati Uniti aiutarono i loro alleati britannici e sovietici a sconfiggere la Germania e il Giappone, e poi aiutarono a ricostruirli come paesi sani, pacifici e prosperi. Per tutte le gravi colpe dell'America - il suo razzismo, i suoi crimini contro l'umanità a Hiroshima e Nagasaki e i rapporti neocolonialisti con i paesi più poveri - l'America ha fatto una promessa di prosperità che le persone in molti paesi del mondo erano pronte ad accogliere.

Se tutto ciò che gli Stati Uniti hanno da offrire agli altri paesi oggi è la guerra, la corruzione e la povertà che hanno portato in Afghanistan, allora il mondo fa bene a guardare a nuovi modelli da seguire: nuovi esperimenti di democrazia popolare e sociale; rinnovata enfasi sulla sovranità nazionale e sul diritto internazionale; alternative all'uso della forza militare per risolvere i problemi internazionali; e modi più equi di organizzarsi a livello internazionale per affrontare crisi globali come la pandemia di Covid e il disastro climatico.

Gli Stati Uniti possono inciampare nel loro infruttuoso tentativo di controllare il mondo attraverso il militarismo e la coercizione, oppure possono sfruttare questa opportunità per ripensare il proprio posto nel mondo. Gli americani dovrebbero essere preparati a voltare pagina rispetto al nostro ruolo di egemoni globali in declino e vedere come possiamo dare un contributo significativo e cooperativo a un futuro che non saremo mai più in grado di dominare, ma che dobbiamo aiutare ad edificare.


*Medea Benjamin,  CODEPINK Women for Peace