28/02/20

NEXHMIJE HOXHA / ALBANIA



«Ho combattuto e lavorato per l’emancipazione delle donne e della società albanese» 


Il 26 febbraio 2020 è venuta a mancare, a Tirana, Nexhmije Hoxha (99 anni), icona della lotta delle donne albanesi per l'emancipazione dall'oppressione feudale, partigiana antifascista combattente, protagonista della costruzione del socialismo in Albania. Rimasta sempre fedele, nella sua lunga e operosa vita, agli ideali di progresso, uguaglianza sociale e pace per i quali ha vissuto e lavorato, ha superato con grande dignità anche le angustie e le persecuzioni che si sono abbattuti su di lei e la sua famiglia, negli anni della transizione post-comunista dell'Albania. 


Nexhmije (Xhuglini) Hoxha era nata l’8 febbraio 1921 a Manastir, in Macedonia, da una famiglia albanese di idee patriottiche e progressiste che, quando lei aveva pochi anni, si era trasferita a Tirana per consentirle di frequentare la scuola in lingua albanese. Iscrittasi alla scuola secondaria d’indirizzo pedagogico, Nexhmije si distinse, oltre che per i brillanti risultati ottenuti, anche per l’attività in favore dell’emancipazione femminile e contro l’occupazione militare dei fascisti italiani
A vent’anni aderì all’organizzazione della gioventù comunista albanese e in questa circostanza incontrò Enver Hoxha, destinato a diventare il leader della rivoluzione socialista albanese e il compagno della sua vita. Ricercati entrambi dalla polizia fascista e costretti a proseguire l’attività politica in clandestinità (su di lui pendeva una condanna a morte, su di lei una condanna in contumacia a 13 anni di reclusione per attività sovversiva), condivisero gli anni della lotta antifascista di liberazione nazionale e poi, a liberazione avvenuta, un quarantennio di vita coniugale, dalla quale nacquero tre figli.

Nexhmije Hoxha (in basso a destra) con le delegate al primo
congresso dell?Unione delle donne antifascista d'Albania (1945)
(Foto: Shqiperia në Vitet e Socialismit)
Nexhmije prese parte alla fondazione delle organizzazioni della gioventù e delle donne antifasciste albanesi, nelle quali ebbe un ruolo preminente: nel primo congresso dell’Unione della Gioventù Antifascista Albanese (1944) fu eletta segretaria; nel 1946, nel secondo congresso  della Unione delle Donne Antifasciste Albanesi, (organizzazione affiliata alla Federazione Democratica Internazionale delle Donne), fu eletta presidente, incarico che mantenne fino al 1955.
Negli anni della costruzione socialista, s'impegnò per lo sviluppo dell’istruzione pubblica, della cultura e della scienza socialiste, svolgendo in questi settori un ruolo politico di primo piano da deputata all’Assemblea Popolare albanese, pur senza assumere mai incarichi di governo. Solo alla morte di Enver Hoxha, avvenuta nel 1985, accettò di succedergli alla presidenza del Fronte Democratico, carica che ricoprì per cinque anni.

Nel 1991, dopo la caduta del regime socialista, fu arrestata e fu avviata contro di lei una persecuzione giudiziaria con l'accusa, che non fu mai realmente comprovata, di «appropriazione indebita di fondi statali». Fu imbastito un processo di dubbia legalità, attraverso il quale fu esposta a una gogna mediatica che era, con ogni evidenza, una ritorsione - come lei stessa disse - dei suoi vecchi persecutori del Balli Kombëtar tornati al potere, direttamente o attraverso i loro eredi. In Albania lo chiamarono il «processo dei caffè» dato che l’accusa si riferiva alle spese sostenute per offrire caffè e pasticcini, per un valore equivalente a poche migliaia di dollari, alle numerose personalità albanesi e straniere che si erano recate a farle visita negli anni fra il 1985 e il 1990. Accuse confutate con fermezza dalla stessa Nexhmije, che si difese con coraggio, denunciando a sua volta l’ingiustizia di «un processo politico mascherato».  

«Il mio arresto, il giudizio, la mia condanna non mi possono far piegare la testa, perché non ho nessuna colpa: per cinquant’anni ho lottato e lavorato per l’emancipazione delle donne e della società albanese. Qualunque condanna sarà emessa a mio carico, l’aspetto con calma e pazienza»: con queste parole Nexhmije concluse, il 26 gennaio 1993, la sua autodifesa dinanzi al tribunale di Tirana, che la condannò a nove anni di carcere.

Nexhmije Hoxha a Roma nel 1997 dopo la sua liberazione
Si costituirono in vari paesi del mondo comitati di solidarietà. Intervennero in sua difesa noti giuristi da più parti, del suo caso s’interessò Amnesty International; mentre era in carcere d’isolamento ricevette la visita di Gerald Nagler, segretario della International Helsinki Federation for Human Rights. Una delegazione della Women’s International League for Peace and Freedom  e dell'associazione AWMR- Donne della Regione Mediterranea ottenne di farle visita nel carcere di Tirana per conferirle la membership onoraria. 
Superando con grande dignità e coraggio le angustie e le persecuzioni inflitte a lei e alla sua famiglia nel periodo della transizione post-comunista dell'Albania, Nexhmije Hoxha ha trascorso gli anni seguiti all’uscita dal carcere nella sua modesta casa di via Durazzo, nella periferia di Tirana, dividendo il suo tempo fra la cura degli affetti familiari e le relazioni d’amicizia, che ha mantenuto in Albania e all’estero, e un’instancabile attività di scrittura. Fino all'ultimo, tenacemente fedele al compito, che lei stessa «con calma e pazienza» si era assegnata, di trasmettere la memoria dell'Albania socialista, assumendo su di sé l'onere del ripensamento e, insieme, il dovere della sua difesa dalle accuse calunniose di nemici e detrattori di quell'esperienza storica, che lei aveva vissuto da protagonista.

Nella foto, Nexhmije Hoxha (seconda da sin.) è a Roma nel 1997, con alcuni componenti del Comitato italiano di solidarietà che si batté per la sua scarcerazione, di cui facevano parte la Wilpf Italia e l’Association of Women of the Mediterranean Region.

trad. es.

"Luché y trabajé por la emancipación de las mujeres y la sociedad albanesas"

El 26 de febrero de 2020, Nexhmije Hoxha (99 años), un ícono de la lucha de las mujeres albanesas por la emancipación de la opresión feudal, una combatiente revolucionaria antifascista, protagonista de la construcción del socialismo en Albania, falleció en Tirana. Siempre permaneció fiel, en su larga y laboriosa vida, a los ideales de progreso, igualdad social y paz por los que vivió y trabajó, incluso superó con gran dignidad la angustia y las persecuciones que la golpearon a ella y a su familia, en los años de la transición poscomunista de Albania.

Nexhmije (Xhuglini) Hoxha nació el 8 de febrero de 1921 en Manastir, Macedonia, en una familia albanesa de ideas patrióticas y progresistas que, cuando tenía unos años, se había mudado a Tirana para permitirle asistir a la escuela en albanés.
Inscrita en la escuela secundaria pedagógica, Nexhmije se distinguió no solo por los brillantes resultados obtenidos, sino también por su actividad a favor de la emancipación de las mujeres y contra la ocupación militar de los fascistas italianos.
A los veinte años se unió a la organización juvenil comunista albanesa y en esta circunstancia conoció a Enver Hoxha, destinado a convertirse en el líder de la revolución socialista albanesa y el compañero de su vida. Ambos buscados por la policía fascista y forzados a continuar su actividad política en la clandestinidad (una sentencia de muerte se cernía sobre él, mientras que una sentencia de 13 años de prisión por actividad subversiva se cernía sobre ella), compartieron los años de la lucha antifascista de liberación nacional y luego, después de la liberación, cuarenta años de vida matrimonial, de los cuales nacieron tres hijos.

Nexhmije participó en la fundación de las organizaciones de jóvenes y mujeres antifascistas albanesas, en las que desempeñó un papel destacado: en el primer congreso de la Unión de Jóvenes Antifascistas albaneses (1944) fue elegida secretaria de la organización; en 1946 fue elegida presidenta de la Unión de Mujeres Antifascistas de Albania, una organización afiliada a la Federación Internacional Democrática de Mujeres (FDIM), y ocupó el cargo hasta 1955.
En los años de la construcción socialista, hizo una contribución específica al desarrollo de la educación pública, la cultura socialista y la ciencia, desempeñando un papel político prominente en estos sectores como miembra de la Asamblea Popular de Albania, sin asumir nunca cargos gubernamentales. Solo después de la muerte de Enver Hoxha en 1985 aceptó sucederlo en la presidencia del Frente Democrático, un cargo que ocupó durante cinco años.

En 1991, después de la caída del régimen socialista, fue arrestada y se inició una persecución judicial contra ella por el cargo, que nunca se comprobó realmente, de "apropiación indebida de fondos estatales". Se estableció un proceso de dudosa legalidad, a través del cual fue expuesta a una picota mediática que fue, en toda evidencia, una represalia, como ella dijo, de sus antiguos perseguidores de Balli Kombëtar que volvieron al poder, directamente o por medio de sus herederos. En Albania lo llamaron el "juicio por el café", ya que la fiscalía se refirió a los costos incurridos para ofrecer café y pasteles, por un valor equivalente a unos pocos miles de dólares, a las numerosas personalidades albanesas y extranjeras que la habían visitado en el años entre 1985 y 1990. Cargos firmemente refutados por la propia Nexhmije, quien se defendió con valentía, denunciando a su vez la injusticia de «un proceso político enmascarado».

«Mi arresto, mi juicio, mi sentencia no pueden hacerme inclinar la cabeza, porque no tengo la culpa: durante cincuenta años he luchado y trabajado por la emancipación de las mujeres y la sociedad albanesas. Cualquier sentencia se dictará en mi contra, la espero con calma y paciencia »: con estas palabras Nexhmije concluyó, el 26 de enero de 1993, su defensa propia ante el tribunal de Tirana, que la condenó a nueve años de prisión.
Se crearon comités de solidaridad en varios países del mundo a su favor. Juristas famosos de diversos orígenes intervinieron en su defensa; Amnistía Internacional estaba interesada en su caso; mientras estuvo en régimen de aislamiento recibió una visita de Gerald Nagler, secretario de la Federación Internacional de Helsinki para los Derechos Humanos. Una delegación de la Asociación de Mujeres de la Región del Mediterráneo y la Liga Internacional de Mujeres para la Paz y la Libertad obtuvo una visita a la prisión de Tirana para otorgarle su membresía honoraria.

Superando con gran dignidad y coraje la angustia y la persecución infligida a ella y a su familia durante el período de transición poscomunista de Albania, Nexhmije Hoxha pasó los años posteriores a la salida de prisión en su modesto hogar en via Durazzo, en un suburbio de Tirana, donde dividió su tiempo entre el afecto familiar y las relaciones de amistad, que mantuvo en Albania y en el extranjero, y una incansable actividad de escritura. Hasta el último, tenazmente fiel a la tarea, que ella "tranquila y pacientemente" se había asignado a sí misma, transmitir la memoria de la Albania socialista, asumiendose la carga de repensar y, al mismo tiempo, de defender esa experiencia histórica, que vivió como protagonista, contra las calumniosas acusaciones de enemigos y detractores.

En la foto en blanco y negro, Nexhmije Hoxha (abajo a la derecha) con las delegadas en el primero Congreso de la Unión de mujeres antifascistas de Albania (1945) (Foto: Shqiperia në Vitet y Socialismit)
En la otra foto, Nexhmije Hoxha (segunda desde la izquierda) está en Roma en 1997, después de su salida de prisión, con miembros del Comité de Solidaridad italiano, que incluía a WILPF Italia y AWMR - Mujeres de la Región del Mediterráneo.



19/02/20

MDM / SEMINARIO INTERNAZIONALE A LISBONA


«Le donne e il mondo del lavoro in Portogallo e in Europa»



Il Movimento Democratico di Donne (MDM) del Portogallo invita le donne d'Europa a partecipare al Seminario internazionale “Le donne e il mondo del lavoro in Portogallo e in Europa”, che sta organizzando in collaborazione con la Federazione Democratica Internazionale delle Donne (FDIM).
Il seminario si svolgerà nei giorni 29 e 30 aprile 2020, a Loures, nei pressi di Lisbona. Il giorno 29 sarà interamente dedicato alla presentazione e discussione dei temi seminariali, mentre il giorno 30 saranno effettuate visite ad alcuni centri lavorativi dove sono occupate prevalentemente donne. 
Il 1° maggio le partecipanti potranno prendere parte alla tradizionale Festa del Primo Maggio, giornata internazionale del lavoro, a Lisbona.
Al seminario assisterà anche Lorena Peña, presidente della FDIM e autorevole dirigente del FMLN del Salvador.
L’MDM  realizza questo seminario nel contesto di una sfida lanciata nel proprio X congresso, tenutosi nel 2019: il lavoro, oltre ad essere un diritto fondamentale e condizione di uguaglianza delle donne, è anche fattore di progresso e sviluppo delle società, oggi seriamente in pericolo. È noto che la crisi del sistema capitalistico e gli arretramenti sul terreno dei diritti lavorativi e sociali abbiano avuto, e continui ad avere, un forte impatto sull’aumento delle ingiustizie e disuguaglianze sociali, soprattutto col degrado delle condizioni di lavoro e di vita delle donne.
Tra le regressioni si segnalano realtà come la povertà, l’esclusione sociale, le migrazioni, il traffico degli esseri umani, la mercificazione di tutte le sfere della vita umana, la mancanza di rispetto per la sovranità dei popoli e per la pace nel mondo (realtà che colpiscono le donne e che s'intende approfondire nel seminario).

«Con questo seminario - dicono le organizzatrici dell'MDM -  vogliamo infatti circoscrivere uno spazio di riflessione, a partire dall’apporto delle organizzazioni affiliate e non affiliate alla FDIM, che ci permetta di conoscere la situazione delle donne nel mondo del lavoro in Portogallo e in altri paesi europei, facenti parte o non facenti parte dell’Unione Europea, e l’impatto, sulla vita delle donne, delle politiche lavorative che si vanno applicando».

Le questioni più importanti che le organizzatrici propongono di abbordare nel seminario sono:
  • le differenti forme di sfruttamento del lavoro delle donne, nell’industria e nel settore dei servizi;
  • le discriminazioni salariali a danno delle donne, non divisibili dall’ingiusta distribuzione della ricchezza;
  • la de-regolazione del tempo di lavoro, la conciliazione della vita professionale, familiare e personale;
  • l’impatto delle nuove tecnologie nei processi lavorativi;
  • la situazione dei diritti delle donne alla sicurezza sociale, alla maternità/paternità, la disoccupazione, la malattia, licenziamento, ecc.
  • il ruolo della rete di strutture pubbliche nella realizzazione dei diritti dei lavoratori; delle donne lavoratrici, per il diritto al lavoro con i diritti, per la valorizzazione dei salari e contro le discriminazioni salariali, contro la precarietà del lavoro, per la contrattazione collettiva, per i diritti lavorativi e sindacali.

·   Infine, con questo seminario s'intende contribuire alla costruzione di percorsi di convergenza tra organizzazioni di donne su obiettivi comuni per rafforzare la solidarietà fra le lotte delle donne nei vari paesi in difesa dei propri diritti, per il lavoro, per la dignità, per l’uguaglianza, per il progresso sociale, per la pace, parte essenziale dell’azione della FDIM.
«Care amiche - conclude l'invito dell'MDM - sicure che voi e la vostra organizzazione condividete alcuni dei nostri propositi e obiettivi, che la discussione su questo tema ci aiuterà a sviluppare un’azione dalla parte delle donne nelle diverse entità con le quali ci relazioniamo, vi chiediamo di comunicarci il vostro interesse e di confermarci la vostra presenza e il vostro intervento, possibilmente entro il 22 febbraio, il tema che intendete affrontare, per poter organizzare al meglio il programma del seminario. Con questo seminario internazionale e con la vostra collaborazione approfondiremo una tematica centrale per le donne dei nostri paesi, consolideremo le nostre organizzazioni in Europa ed internazionalmente, rendendo più forti le nostre proposte. Se accetterete di condividere la nostra sfida, saremo liete di accogliervi». 

Per informazioni e contatti: Email: geral@mdm.org.pt 

18/02/20

LE CASE DELLE DONNE NON SI TOCCANO

Perché torniamo in piazza


Martedì 18 febbraio dalle 16:00 siamo tutte in Campidoglio per Piazza Aperta
Perché la Casa Internazionale delle donne di Roma rischia ogni giorno lo sfratto. Da agosto 2018 il Comune di Roma ha revocato la convenzione ma le associazioni della Casa continuano a svolgere i servizi per tutte le donne, senza riconoscimento
del loro valore sociale, senza alcun finanziamento da parte del Comune. Si cancellerebbe un luogo storico e simbolico del femminismo romano, patrimonio della storia dei diritti e delle libertà delle donne ma anche di tutta la città.
Perché per Lucha y Siesta il 20 febbraio è previsto il distacco delle utenze, per volere di Atac spa con il sostegno del Comune, nella procedura di concordato per evitare il fallimento della municipalizzata più indebitata d‘Italia, nonostante la Regione Lazio abbia avviato le procedure per partecipare all’asta e acquistare l’immobile. Si vuole chiudere così un presidio sociale e politico contro la violenza e un luogo prezioso con 14 stanze in una città drammaticamente carente di posti in case rifugio e ben al di sotto degli standard previsti nella Convenzione di Istanbul.
Lucha y Siesta e la Casa Internazionale delle donne sono laboratori culturali e politici riconosciuti che puntano sui sogni liberi ed autonomi delle donne che li attraversano. Noi siamo il sogno vivo, libero ed autonomo.
Perché le Case delle donne devono restare aperte e moltiplicarsi in ogni territorio rivendicando progetti di sviluppo nati sui desideri delle donne che lì vivono.
Perché si deve riconoscere la loro autonomia e il valore sociale, politico ed educativo che riversano intorno, sulle scuole, nelle associazioni e per le strade di tutti i quartieri. Noi siamo valore sociale, politico ed educativo.
Perché il regolamento del patrimonio comunale in discussione disconosce di fatto il tessuto sociale, culturale e associativo che in questi anni ha tenuto insieme la città.
Perché non siamo aziende e non ci curiamo di interessi privati, ma tuteliamo i nessi comunitari indeboliti dall'impoverimento culturale e dalla precarietà.
Perché siamo in agitazione permanente verso lo sciopero globale femminista 2020.
L’8 marzo sarà giornata di mobilitazione sui territori e il 9 marzo sarà sciopero femminista. Incroceremo le braccia e ci riprenderemo il tempo e lo spazio che vogliamo.

13/02/20

PALESTINA: UN EMBARGO DISUMANO


Un atto di guerra, non una disputa commerciale 




Fermare il militarismo espansionista di Tel Aviv, scuotere l'indifferenza della comunità internazionale verso le sofferenze palestinesi causate dall'occupazione illegale israeliana in Cisgiordania e dall'assedio militare a Gaza





Per ordine del ministro della Difesa Naftali Bennett, l'esercito israeliano ha iniziato ieri a bloccare le esportazioni agricole dalla Palestina e impedirgli di transitare dai territori della Cisgiordania occupati attraverso il valico di frontiera verso la Giordania, l'unica via che i palestinesi possono usare per esportare le loro merci.

In questo modo, la nazione palestinese occupata deve far fronte a una grave difficoltà economica che peggiorerà le prospettive di un'economia di per sé devastata dagli effetti del furto, da parte di Israele, delle più fertili terre palestinesi, dei muri eretti per isolare la popolazione della Cisgiordania e della violenza militare contro la popolazione - uccisioni selettive o di massa, incarcerazione senza processo, demolizione arbitraria di case – esercitata da decenni.

Si potrebbe pensare che questo embargo sia parte di una mera disputa commerciale, nella misura in cui è una risposta alla decisione delle autorità palestinesi di sospendere gli acquisti di carne di manzo da Israele, paese che a sua volta ha importato quel prodotto e lo ha rivenduto ai Palestinesi con ampi margini di profitto. Avendo scoperto questa situazione, il governo di Mahmoud Abbas ha disposto l'acquisto della carne direttamente dai paesi produttori: a questa misura il regime di Tel Aviv ha risposto con altre misure di ritorsione, fra le quali il blocco delle esportazioni di ortaggi palestinesi.

Ma sarebbe ingenuo e superficiale parlare di guerra commerciale nel caso di relazioni bilaterali così squilibrate, ingiuste e asimmetriche, come quelle palestinesi-israeliane, in cui uno dei partecipanti ha il controllo militare che gli consente di impedire a piacimento gli scambi commerciali della controparte e persino di far deragliare la sua economia con azioni che vanno dall'embargo al bombardamento.

Pertanto, la chiusura dell'unico passaggio che i palestinesi hanno per esportare le loro merci va vista come una pura e dura aggressione contro la popolazione e un tentativo di ridurre alla fame una nazione che da settant’anni lotta per affermare il suo diritto ad esistere.

Non si deve trascurare che questo diritto ha subito un duro colpo negli ultimi giorni, quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un “piano di pace” che consiste chiaramente nel ridurre la popolazione palestinese a un insieme di enclave o riserve territoriali, negandole il diritto a costituirsi in Stato sovrano, strappandole la riva del fiume Giordano e scambiando terre fertili con pezzi di deserto isolati.

In sintesi, la misura suddetta non può essere considerata un episodio di guerra commerciale ma un atto di guerra vera e propria, che viola il diritto internazionale, il quale vieta di far morire di fame la popolazione civile dell’avversario.
L'aggressione stessa è devastante, ma lo è anche l'indifferenza della comunità internazionale contro la sofferenza palestinese causata dall'occupazione criminale e illegale israeliana in Cisgiordania e dall'assedio militare di Gaza.
L'opinione pubblica internazionale deve chiedere la fine immediata dell’assedio e fare pressione sui propri governi affinché contribuiscano a frenare il militarismo espansionista di Tel Aviv.

*La Jornada, editoriale del 10 febbraio 2020

10/02/20

PECHINO + 25 / TRADITA DALLE ISTITUZIONI ITALIANE?


Che cosa (non) ha fatto il governo italiano per onorare Pechino + 25

Nel marzo del 2020 nella sede delle Nazioni Unite a New York, la celebrazione della Conferenza a 25 anni di distanza, con la valutazione di quanto è stato fatto nei diversi Paesi. Disattente le istituzioni italiane, cosa che rende più arduo il compito dell'associazionismo femminista 

Riportiamo il commento di Daniela Colombo 





Nel settembre del 1995 a Pechino si svolse la quarta Conferenza internazionale sulle donne delle Nazioni Unite, che vide la partecipazione di 15.000 donne politiche, diplomatiche ed esperte, mentre nella vicina Huairou 38.000 donne appartenenti a una moltitudine di organizzazioni di ogni parte del mondo, davano vita a un Forum della società civile quale non si è più visto e che molto probabilmente non si vedrà per vari anni ancora. La Conferenza di Pechino è rimasta nel ricordo e nell’immaginario delle militanti femministe e delle rappresentanti del movimento internazionale delle donne come il fulcro delle attività iniziate nel 1975 con la Conferenza di Città del Messico per raggiungere l’eguaglianza dei diritti tra donne e uomini, far sì che donne possano contribuire allo sviluppo dei propri Paesi e siano portatrici di pace.

Dopo la Conferenza di Città del Messico, altre due conferenze vennero organizzate dalle Nazioni Unite: nel 1980 a Copenaghen per dibattere i temi dell’Eguaglianza di diritti, e nel 1985 a Nairobi per discutere più ampiamente dei temi relativi allo sviluppo socio economico dei Paesi in via di sviluppo. A Copenaghen la firma del Governo italiano fu determinante per l’entrata in vigore della CEDAW, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, che costituisce ancora oggi la più importante carta internazionale dei Diritti delle donne, stabilendo gli standard di uguaglianza di diritti a cui fanno riferimento le organizzazioni femministe e femminili.

Alla Conferenza di Pechino gli Stati membri dell’ONU approvarono all’unanimità una Dichiarazione e una Piattaforma di Azione consistente in 12 Aree critiche di azione che coprono l’intera gamma dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere che ogni Stato dovrebbe seguire, attribuendo alla società civile e alle organizzazioni delle donne in modo particolare un ruolo estremamente importante nell’elaborazione delle politiche e delle leggi sulle relazioni di genere, auspicando misure di azione positiva e l’istituzione o il rafforzamento dei meccanismi di parità.
Nuovi termini - in inglese e di difficile traduzione - vennero coniati al fine di avere un linguaggio comune per indicare:
1) il fatto che le donne sono discriminate rispetto agli uomini indipendentemente dall’etnia, casta, status sociale, religione, età, residenza (gender); 2) la necessità di stimolare la forza, l’autostima, la volontà di agire delle donne (empowerment); 3) l’inclusione di politiche e attività a favore delle donne in tutti i settori economici, sociali e ambientali (mainstreaming).

Vorrei ricordare che negli anni ’90 ci furono altri importanti appuntamenti per il movimento delle donne. Nel 1992 la Conferenza di Rio sull’Ambiente per la prima volta aveva riconosciuto il ruolo fondamentale delle donne per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1993 la Conferenza di Vienna sui Diritti Umani aveva affermato esplicitamente nella Dichiarazione conclusiva che “I diritti umani delle donne e delle ragazze sono un’inalienabile, integrale ed indivisibile parte dei diritti umani universali”, da cui scaturisce il riconoscimento che le forme specifiche di violenza contro le donne come violazione dei loro diritti umani. Nel 1994 la Conferenza del Cairo su Popolazione e Sviluppo si era conclusa con un Piano di Azione dettagliato sulla salute sessuale e riproduttiva, al quale era allegato un’analisi dei finanziamenti necessari per raggiungere gli obiettivi fissati.

Nel 1998 si svolsero a Roma i lavori per l’istituzione della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra, in cui si riconobbe che le violenze di massa e sistematiche, come lo stupro etnico, la gravidanza forzata e la tratta finalizzata allo sfruttamento sessuale sono un’arma di guerra da perseguire penalmente. Nel 2000 il Consiglio di Sicurezza approvò la prima Risoluzione su Donne, Pace e Sicurezza, la Risoluzione N.1325, nella quale si riconosceva l’impatto sproporzionato ed unico dei conflitti armati sulle donne e le ragazze e si richiedeva l’adozione di una prospettiva di genere che tenesse conto dei bisogni speciali di donne e ragazze durante i conflitti, la fase di rimpatrio, riabilitazione, reintegrazione e ricostruzione post conflitto. La Risoluzione richiedeva inoltre che le donne partecipassero nei negoziati di pace.

Nel 2001 entrò in vigore un Protocollo opzionale alla CEDAW che consente ad Associazioni e a individui di denunciare le violazioni esistenti nei diversi Stati alla apposita Commissione abilitata a condurre indagini sul caso e a formulare raccomandazioni al governo responsabile.
Tutto questo fu possibile perché gli anni ’90 furono un periodo storico particolare in cui erano nate grandi speranze. Era crollato il muro di Berlino: in pochissimi anni si era dissolta l’Unione sovietica e sembrava che la Russia stesse cercando una modalità democratica di governo. La fine dell’apartheid in Sud Africa aveva aperto nuove possibilità per tutto il continente africano. L’America Latina era in una fase di grande trasformazione e la maggioranza dei paesi si andava aprendo alla democrazia. In Medio Oriente e nel Nord Africa c’era una relativa stabilità, con regimi dittatoriali che però garantivano un certo livello di eguaglianza e l’esistenza di importanti organizzazioni di donne a livello nazionale. In Asia, la Cina si apriva al mondo, ospitando la più grande Conferenza delle Donne che si fosse mai vista, e il Giappone iniziava programmi concreti e creava Centri governativi allo scopo di emancipare le donne. Il Presidente degli Stati Uniti era il democratico Bill Clinton, la cui moglie, Hillary, visitò il Forum di Huairou e fece un discorso estremamente forte che rimarrà nella storia del movimento femminista e femminile.
Questo clima internazionale di speranza venne però a cessare con l’attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. Il mondo negli ultimi venti anni è cambiato significativamente e il compito che spetta alla società civile e in modo particolare alle organizzazioni femministe e femminili è molto più arduo. Conflitti armati, rivoluzioni fallite, crisi economiche e finanziarie ricorrenti e sempre più gravi diminuiscono la crescita e aumentano la disoccupazione, prezzi del cibo che cambiano repentinamente, disastri naturali e l’effetto del gas serra che determina il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, hanno aumentato la disuguaglianza e la vulnerabilità con conseguenti ondate di migrazioni.

La globalizzazione finanziaria, la liberalizzazione del commercio seguita da improvvise imposizioni di sanzioni da parte di alcuni Stati, la privatizzazione dei servizi pubblici (in modo particolare la sanità), la crescente interferenza delle società globalizzate nei processi di sviluppo, hanno mutato le relazioni di potere tra gli Stati e all’interno degli Stati, con un effetto particolarmente negativo sul godimento dei diritti umani e la creazione di un mondo più giusto.
  
Il mondo oggi è molto più ricco, ma molto più iniquo di quanto lo sia mai stato dal tempo della seconda guerra mondiale. Una società internazionale, Capgemini &RBC Wealth Management, pubblica ogni anno un rapporto sulla ricchezza globale. Siamo arrivate/i al punto che una ricchezza enorme si concentra nelle mani di pochissimi individui che hanno di conseguenza un potere enorme e un impatto sproporzionato sulle politiche, sugli investimenti e l’economia in generale. E certamente non serve che tacitino la loro coscienza creando Fondazioni “benefiche” che finanziano progetti di organismi delle Nazioni Unite o di Organizzazioni non governative multinazionali di origine americana o europea, per giunta concentrate in un numero ristretto di Paesi.

L’ambiente politico globalmente è diventato molto più reazionario e si è assistito ad un deficit di democrazia che va aumentando. I vari Trump, Putin, Bolsanaro, Modi, Duterte... usano la misoginia e l’oppressione delle minoranze e degli/lle immigrati/e per consolidare il loro potere.

Con la conseguenza che i governi, soprattutto negli ultimi 10 anni, si sono rifiutati di raggiungere compromessi e di trovare un accordo per fare avanzare l’agenda femminista soprattutto durante le sessioni annuali della Commission on the Status of Women, che è il principale organismo politico a livello internazionale. E il movimento femminista si è dovuto mettere sulla difensiva, preferendo mantenere il linguaggio di Pechino e le 12 Aree di Azione della Piattaforma, senza cercare di andare oltre.

Per tutti questi motivi, quando nel 2013 si cominciò a lavorare sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile, il movimento internazionale delle donne composto da reti di associazioni femministe e femminili e alcune Ong di cooperazione allo sviluppo, si è impegnato moltissimo e l’Agenda 2030 ha di fatto conglobato il Programma d’Azione di Pechino con tutte le sue novità, dandogli una forma diversa, con un Obiettivo specifico, il Goal 5, per l’Uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne e rafforzando il Mainstreaming negli altri 16 obiettivi.

Pechino + 25

Nel marzo del 2020 nella sede delle Nazioni Unite a New York, nell’ambito della 64ª Sessione della Commission on the Status of Women, alcune giornate verranno dedicate alla celebrazione della Conferenza di Pechino a 25 anni di distanza, cercando di fare il punto della condizione delle donne nei vari Paesi del mondo. “Pechino + 25” non sarà dunque una nuova Conferenza ma un appuntamento di valutazione di quanto è stato fatto, di quello che le donne hanno raggiunto negli ultimi 25 anni e le prospettive per il futuro.

L’appuntamento seguente sarà la High level week della 74ª Assemblea Generale dell’ONU che avrà luogo dal 23 al 26 settembre. In preparazione di questo appuntamento sarà organizzato il Generation Equality Forum che si svolgerà in due sessioni, una a Città del Messico a maggio (con una partecipazione di circa 2.500 persone) e l’altra a Parigi in luglio (con una partecipazione di circa 5.000 persone), organizzate da UNWOMEN, in collaborazione e in partenariato con la società civile e i due Stati che ospiteranno gli eventi.

In preparazione degli eventi Pechino + 25, le 5 Commissioni economiche delle Nazioni Unite per le varie Regioni hanno già organizzato tra ottobre e novembre i Regional Review Meetings, preceduti da Fora della società civile.
Il Regional Review Meeting dell’UNECE, la Commissione Economica per l’Europa che comprende anche i Paesi dell’ex Unione Sovietica, Canada, Stati Uniti e Israele, ha avuto luogo a Ginevra, presso la sede delle Nazioni Unite, il 29-30 ottobre 2019.

Il RRM dell’UNECE è stato preceduto dal Forum della società civile il 28 ottobre. A quest’ultimo erano presenti più di 400 attiviste provenienti da 48 paesi della Regione e si è lavorato in gruppi di lavoro per raggiungere un accordo e finalizzare i Fact sheets sui quali si era lavorato tramite internet nei tre mesi precedenti al Forum, identificando le priorità e preparando dichiarazioni secondo le prospettive regionali (6 schede) e tematiche (20 fact sheets), che non hanno valore di documenti negoziati, ma servono a dare una idea delle priorità e delle diverse opinioni del movimento delle donne e femminista della Regione UNECE.

Si è dibattuto molto sui nuovi problemi e le sfide strutturali, l’ambiente, il neo conservatorismo, le barriere economiche strutturali per la realizzazione dei diritti delle donne, la violenza contro le donne e le ragazze, la partecipazione politica delle donne, i sistemi di tassazione, le donne nei media e nell’accesso alla tecnologia.
Sono emersi nuovi concetti, come la definizione di Non State torture per alcune tipologie di violenza contro le donne, il tema della Inclusion (le giovani femministe, i diritti delle Lesbiche, Bisex, Transessuali/ Transgender e Intersex - l’acronimo LBTI invece di LGBTI, quindi non comprende più i gay - i diritti delle donne con disabilità, i diritti delle popolazioni indigene e i Rom, l’empowerment delle donne rurali, i diritti delle donne anziane, i diritti delle vedove), e la differenza tra Prostitution e Sex work. Su questo ultimo tema si è verificata l’unica rottura da parte di alcune organizzazioni facenti parte della European Women’s Lobby, che auspicano che la legislazione degli Stati membri dell’UE si adegui a quella svedese rendendo illegale la prostituzione.

Durante il Forum si sono definite le aree su cui è necessario concentrarsi e come influire sul processo Pechino + 25: trasparenza e monitoraggio, violenza contro le donne, salute e diritti sessuali e riproduttivi, pace e sicurezza, le donne sfollate, le donne migranti, i movimenti dei lavoratori, i sindacati, l’istruzione, il trasferimento di conoscenze e l’accesso delle donne alle tecnologie, la corporate & institutional accountability e il problema cruciale delle risorse disponibili e del finanziamento delle organizzazioni delle donne.

Al Regional Review Meeting erano presenti 867 partecipanti, 47 Delegazioni governative, 8 Ministre o Vice Ministre, 81 organizzazioni rappresentanti della società civile, aventi consultative status presso l’Ecosoc. Sono stati organizzati 10 Side Events. Francia, Canada, e i Paesi del Nord Europa hanno fatto la parte del leone, ma anche i Paesi dell'Ex Unione Sovietica sono stati presenti attivamente.

Grande apertura alla società civile è stata data non solo da UN- WOMEN ma anche da molte delle Delegazioni, tanto che l’incontro intergovernativo è stato aperto dall’intervento della Rappresentante delle Giovani femministe che ha riassunto i lavori e le proposte del Forum della società civile.

Dagli Stati membri dell’ECE sono stati inviati 51 Rapporti nazionali, 48 dei quali sono serviti per redigere un Rapporto di sintesi: Regional review of Progress: Regional Synthesis. Da questo si desume che i Paesi della Regione hanno dato priorità a tre aree principali: la violenza contro le donne, l’empowerment economico delle donne e la loro partecipazione politica. La violenza contro le donne ha avuto un grande impulso dalla Convenzione di Istanbul che è stata firmata o ratificata dalla maggioranza dei Paesi membri del Consiglio d’Europa e dell’ECE. L’Empowerment economico delle donne è una priorità in tutta la Regione e sforzi notevoli ci sono stati per sostenere l’inclusione delle donne nella forza lavoro tramite la conciliazione lavoro e responsabilità familiari, e affrontando il gap salariale.

Alcuni Paesi si sono avvicinati alla parità nella partecipazione politica delle donne a livello nazionale, applicando spesso il sistema delle quote. Molti Paesi hanno affrontato la segregazione orizzontale nell’istruzione, cercando di promuovere la partecipazione delle ragazze nei campi della scienza, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM). Alcuni Paesi, come la Danimarca, il Belgio, la Svezia e la Finlandia hanno ottenuto ottimi risultati migliorando il gender mainstreaming e applicando strumenti speciali come misure di azione positiva temporanee, il bilancio di genere e l’analisi intersettoriale.

Uno dei settori nei quali non si è progredito è stato quello della protezione ambientale e del cambiamento climatico. Solo alcuni Paesi hanno iniziato ad avere una legislazione progredita in questi settori e ci sono pochi esempi di leadership delle donne.

Per quanto riguarda la violenza contro le donne è ancora difficile implementare standard riconosciuti a livello internazionale per la protezione, la risposta e l’accesso ai servizi e alla giustizia per le donne che hanno subito violenza. Anche nella Regione ECE, la più avanzata del mondo, persistono atteggiamenti patriarcali e norme sociali tradizionali che impediscono l’applicazione di un approccio centrato sulle vittime. Un altro elemento di frenata per l’eguaglianza di genere è la debolezza intrinseca ai meccanismi di parità che molto spesso non dispongono delle risorse umane ed economiche necessarie. 25 anni dopo la Conferenza di Pechino, che tanto entusiasmo e speranze aveva suscitato, non si è dunque raggiunta la piena eguaglianza di diritti tra donne e uomini in nessun paese della Regione ECE.

E l’Italia?

Poche le organizzazioni italiane presenti al Forum della società civile e come osservatrici alla Riunione Intergovernativa: D.I.Re, CGIL, Soroptimist, Zonta, Pangea e Pari o Dispare. Invece nessun/a rappresentante del Governo italiano era presente alla Riunione inter-governativa. Sullo scranno dell’Italia a turno si sono sedute un paio di stagiste presso la Rappresentanza italiana alle Nazioni Unite di Ginevra. Si è in seguito venute a conoscenza che la Ministra Bonetti non era stata informata dallo staff amministrativo di questo evento internazionale.

Il Rapporto del Governo italiano si trova in lingua inglese sul sito di UNECE. Non esiste il testo in italiano. A parte il fatto di essere stato inviato il 14 di agosto invece del 1° maggio, si tratta di un collage di documenti scritti dai vari Ministeri che lascia molto a desiderare, senza una vera riflessione su quanto è stato fatto (mancanza di monitoraggio e valutazione) e soprattutto su quanto si prevede di fare. Nelle linee guida di UNWOMEN per la redazione dei Rapporti nazionali era previsto chiaramente che i Governi avrebbero dovuto coinvolgere le organizzazioni portatrici di interesse e avrebbero dovuto avviare una campagna di informazione su quello che ha rappresentato la conferenza di Pechino per il movimento delle donne e per le istituzioni e sul processo Pechino + 25. Anche questo non è stato fatto e i media di conseguenza non si sono minimamente occupati dell’evento.
Il compito che spetta alla società civile è arduo, soprattutto perché si deve recuperare il tempo perduto. Difficilmente si riuscirà a fare uno Shadow Report sull’Italia. Ma potremmo chiedere al Governo di prendere seriamente Pechino + 25 e informare noi stesse l’opinione pubblica. Il movimento internazionale è molto attivo e alla CSW64 come ai due incontri del Generation Equality Forum presenteranno le loro valutazioni e le loro proposte.

Nonostante moltissimo rimanga da fare affinché il rispetto dei diritti umani, ivi compresi i diritti umani delle donne, divenga realtà in tutti i paesi del mondo, l’elaborazione tramite trattati internazionali concernenti standard di diritti civili, politici, economici, sociali e culturali e il loro monitoraggio, ha fornito e continua a fornire alle organizzazioni delle donne strumenti e linguaggi per rivendicare anche a livello nazionale il soddisfacimento dei bisogni, della dignità e della libertà di scelta delle donne. Partecipare a eventi come Pechino + 25, o seguirne il processo con l’aiuto di internet, ci permetterà come si è fatto in passato di connetterci con le organizzazioni di donne a livello internazionale, valutare quanto si è ottenuto a livello nazionale e regionale, scambiare esperienze positive, dibattere nuovi concetti, trarre ispirazione e progettare per il futuro.

06/02/20

Palestina/Israele: lo schiaffo del secolo

La Soluzione Finale di Trump e Netanyahu in 32 punti

di Nazanin Armanian *


Il cosiddetto "Accordo del secolo" sulla Palestina proposto da Trump e Netanyahu, che disegna una caricatura di "stato palestinese", è morto 10 secondi dopo essere nato: la parte palestinese, che avrebbe dovuto sottoscriverlo perché fosse realizzato, ma non è stata nemmeno consultata, lo ha gettato nel bidone della spazzatura della storia.






"Dimmi cosa presumi e ti dirò di cosa hai bisogno", dice l’adagio spagnolo.  Anche le forze progressiste israeliane, come il Partito Comunista e Bat Shalom, un'organizzazione che si batte per i diritti umani, hanno respinto lo "schiaffo del secolo", come l’ha definito Mahmoud Abbas.
1.      Il 28 gennaio 2020, lo stesso giorno in cui Netanyahu è stato incriminato per frode e corruzione dalla procura generale israeliana, e Trump preparava la sua difesa davanti al Senato dall’accusa di abuso di potere ed estorsione nei confronti del presidente di un paese alleato, i due insieme hanno lanciato il loro piano di attacco a mano armata contro una nazione storica, quella palestinese, allo scopo di sequestrarla, umiliarla, eliminarla, e per distogliere come per caso l'attenzione pubblica dalla loro situazione personale. Il giorno prima, entrambi avevano cercato di monopolizzare il 73 ° anniversario della Liberazione da parte dell’Armata Rossa, di Auschwitz, il lager in cui centinaia di migliaia di ebrei, comunisti, socialisti, massoni, zingari, omosessuali, senzatetto, disabili, tra tanti altri considerati «subumani» dai nazisti, furono sterminati.
2.      Ecco perché quando Trump lo ha definito l'accordo «win-win», non si riferiva a palestinesi e israeliani: intendeva dire «vinco io - vince Netanyahu»!
3.      Ora, la domanda da un milione di dollari è: a chi giova, in questo momento, proporre un piano ai palestinesi, sapendo che non solo lo avrebbero rifiutato, ma che avrebbe appiccato il fuoco alla loro rabbia accumulata in decenni di ingiustizia e umiliazione?

Ecco il piano orwelliano di Trumpyahu:
·         Per cominciare, elimina la struttura tradizionale dei negoziati che contemplava l'esistenza di due stati, con il controllo della maggior parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ai palestinesi e il ritiro di Israele entro i confini riconosciuti dalle Nazioni Unite.
·         Consente l'occupazione permanente dei territori palestinesi; contrariamente ai precedenti piani di pace, questo non propone affatto la fine dell'occupazione militare israeliana in Cisgiordania: al contrario, ne estende il controllo sulla totalità della sua geografia.
·         È un passo importante verso il Grande Israele: a) che si annetterà circa il 30% dei territori fertili palestinesi della Cisgiordania, e b) non solo legalizzerà circa 140 insediamenti illegali costruiti su terre palestinesi e occupati da circa 600mila ebrei invece di smantellarli, ma li sottometterà alla sovranità israeliana. Il piano promette di congelare ulteriori costruzioni per quattro anni per continuare a negoziare (non si sa cosa) con i palestinesi e nel caso in cui essi rifiutino di sottomettersi, Israele annetterà ciò che resta della Palestina. Trump ha fatto un accordo simile con la Turchia in Siria: le cede parte del territorio siriano per crearvi insediamenti dove ospitare i rifugiati arabo-siriani trasformandoli in uno scudo contro i "terroristi curdi".

·         Stabilisce la farsa di uno "Stato palestinese", la somma di ghetti scollegati e di «riserve» nello stile dei bantustan sudafricani - come una delle implicazioni dell'istituzione della Repubblica Ebraica di Israele - senza frontiere esterne, all'interno di Israele e da esso sorvegliato.
·         Stabilisce un controllo assoluto sulla sicurezza della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e si appropria del cielo, delle coste e delle acque territoriali palestinesi (ovviamente, delle sue risorse di gas nel Mediterraneo).
·         Disarma la Palestina, vietando al suo "Stato" di avere un esercito o forze paramilitari (Trumpyahu non sa in che cosa consista uno stato!).
·         Lo "Stato palestinese" non avrà confini con un altro paese, ad eccezione dei 12 chilometri di terra che lo uniranno all'Egitto, mentre l'esercito israeliano occuperà il confine orientale della Cisgiordania con la Giordania, per cui i palestinesi per andare in quel paese dovranno attraversare il Territorio israeliano.
·         Proibisce ai palestinesi di formare alleanze o aderire ad organizzazioni internazionali senza il permesso di Israele.

·         Israele assumerà il controllo totale di Gerusalemme, sebbene in una delle contraddizioni del testo (a causa della fretta) si preveda di consentire che la Palestina stabilisca la sua capitale nelle periferie di Gerusalemme est (Kafr Aqab e Abu Dis).
·         Propone insediamenti palestinesi nel deserto del Negev, al confine con l'Egitto, che saranno collegati dalla strada a Gaza, e questa striscia a sua volta comunicherà con la Cisgiordania palestinese attraverso un tunnel di 90 chilometri, che non sarà mai costruito.
·         Abolisce lo status di "rifugiato palestinese" e pone un vincolo al diritto al ritorno degli espulsi, soprattutto in Giordania e in Libano.
·         Elimina l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) che opera dal 1950. Gli Stati Uniti già nel 2018 hanno tagliato tutti i loro fondi ai programmi UNRWA, lasciando migliaia di palestinesi senza lavoro e pane.
·         Israele militarizzerà le zone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.
·         Ai palestinesi non verrà concesso il controllo di Haram al-Sharif (Monte del Tempio), ora amministrato dalla Giordania.
·         Israele ottiene di calpestare il diritto internazionale consensuale che prevede che: 1) una potenza occupante non può trasferire i suoi cittadini nelle terre occupate, 2) uno Stato non può mantenere il territorio conquistato in guerra.
·         Lo Stato ebraico beneficia dei vantaggi del controllo sul popolo palestinese senza accettare la responsabilità di tutelarne i diritti.

Gli obiettivi del piano

·         Istigare a una nuova Intifada per poi giustificare l'occupazione militare lampo della Valle del Giordano o di altre parti della Cisgiordania.
·         La necessità di Netanyahu di essere rieletto (anche se significherà commettere altri crimini di guerra, mentre i precedenti sono già indagati dalla procura della Corte dell'Aia) nelle elezioni del 2 marzo per ottenere l'immunità, salvandosi dalla prigione. E per raggiungere questo obiettivo, dopo due falliti tentativi di formare un governo, deve attrarre il voto di circa 300mila elettori indecisi di destra, che voterebbero per la coalizione Bianco-Azzurra dell'ex generale Benny Gantz, se non riuscirà a mantiene la promessa di annettere la Cisgiordania. Gantz non si aspettava questa mossa da Netanyahu, il che aumenta le sue possibilità di successo.
·         Trump cerca anche l’appoggio elettorale e finanziario degli evangelici sionisti - che credono che Dio abbia donato la terra di Israele al popolo ebraico e che San Trump sia stato designato dall'Onnipotente - per vincere le elezioni presidenziali a novembre.
·         Annullare gli Accordi di Oslo e stabilire un nuovo quadro di accordi per il conflitto, impedendo ai futuri presidenti degli Stati Uniti di cambiare il progetto.
·         Mantenere il ruolo degli Stati Uniti come unico arbitro dei conflitti internazionali e quindi recuperare l'unilateralismo perduto e (per inciso) annullare le Nazioni Unite.
·         Cancellare "la causa palestinese" dall'agenda internazionale, facilitare la normalizzazione delle relazioni tra Tel Aviv e gli stati arabi, cosa che rafforzerà i legami per combattere contro il nemico comune, l'Iran, dimostrando fino a che punto queste non siano affatto guerre di religione.
·         È possibile che Trump - il buffone più pericoloso della politica mondiale, che viene spinto dall'industria militare e da Israele a una grande guerra contro l'Iran -  stia sacrificando i palestinesi sull'altare di Israele in modo che smetta di spingerlo a lanciare un'aggressione militare contro l'Iran.
·         Dare un prezzo alle aspirazioni palestinesi: riceverebbero (dalla tasca degli sceicchi arabi traditori) circa 50mila milioni di dollari da investire nel loro "Stato palestinese", in cambio della rinuncia ai loro diritti: è tipico di questo tipo di mercanti mediocri pensare che tutti e tutto abbiano un prezzo.
·         Tel Aviv ha fretta di liquidare la "Questione iraniana" e la "Causa palestinese" prima delle elezioni statunitensi, per paura che Trump non venga rieletto. I democratici avrebbero un'altra politica per entrambi i casi. Uccidere Gahsem Soleimani ha avuto lo scopo di trascinare l'Iran in una guerra, lo stesso obiettivo che sta dietro il lancio di questo accordo. In questo modo Israele (e non la Russia!) interferisce apertamente in delle elezioni straniere. Le forze filo-israeliane spendono milioni di dollari per far fronte all'influenza dei politici statunitensi (così come la National Rifle Association, l'industria petrolifera, ecc.) in modo da dare priorità agli interessi del piccolo stato rispetto a quelli della loro stessa superpotenza. Nel 2018 hanno investito circa 5 milioni di dollari nelle confische. Si può immaginare che l'estrema destra religiosa marocchina, ad esempio, paghi la campagna elettorale di persone affini in Spagna?
·         L'Accordo del secolo rimarrà carta straccia se: 1) Netanyahu non riesce a formare un governo, 2) Trump viene espulso dal potere.

 ...e alcune sue conseguenze

·         Fornisce alle grandi potenze un pericoloso precedente per imporre la loro volontà alle nazioni deboli, senza nemmeno rispettare le forme.
·         Offre a Trump la possibilità di essere candidato al Nobel per la Pace, anche se questo presidente sarà probabilmente ricordato dalla storia come quello che ha trascinato Israele in una guerra dalle conseguenze inimmaginabili.
·         Israele, l'unico apparente vincitore delle guerre in Medio Oriente (che, grazie allo zio Sam è riuscito a ridurre in cenere i suoi rivali arabi - Iran, Libia e Siria – e a vedere come l'Iran viene strangolato, è scatenato: però, non conosce la Logica dei Vasi Comunicanti.

(trad. A.D.)

*Nazanín Armanian è pubblicista e studiosa iraniana. Residente a Barcellona dal 1983, è editorialista del quotidiano digitale @Público.es di Madrid. Fonte:  http://www.nazanin.es/