Letture
Indice
Ø L'ARCHIVIO DI ROSETTA, O DEL RIPRENDERSI LA STORIA di Ada Donno (sta in: A NUDA VOCE. CANTO PER LE TABACCHINE, di Elio Coriano. Musicaos Ed, 2014)
Ø FIMMINE FIMMINE, IL TEATRO DELLA VITA. La raccolta la tessitura il vento, a cura di M. Marzioni, C. Pontrandolfo, A. Zecca, Fondo Verri di Lecce, 2013
Ø JOYCE LUSSU. L'UTOPIA RAGIONEVOLE E COSTRUTTIVA di Ada Donno e Caterina Gerardi, Quaderni di «Gramsci» n.3 -2008
Ø NEXHMIJE HOXHA. IL DOVERE DELLA MEMORIA di Ada Donno e Caterina Gerardi, Quaderni di «Gramsci n.1 - 2005
Ø IL FUOCO DELLA RIVOLTA, di Annamaria Rivera, Dedalo 2012
Ø L'ISTINTO DEL PANE, di Annalisa Fantini, LAB 2011
Ø IL DISORDINE UMANO RACCONTATO A MIO NIPOTE (recensione di Milena Fiore)
Ø IL DISORDINE UMANO RACCONTATO A MIO NIPOTE, di Aicha Bouabaci, Kurumuny 2011
Ø L'INNOCENZA INDECENTE. Sedici racconti di donne, di Annalisa Fantini, Il Filo 2010
Ø L'OSSIMORO VIRTUOSO. Strategie di pace delle donne nel Mediterraneo, di A.Donno e V. Ingrosso, Awmr Italia 2005
Ø ALBANIA AMARA. Visita a Nexhmije Hoxha in carcere - di Ada Donno, Pietre, maggio 1996
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L’archivio di Rosetta, o del riprendersi la Storia
di Ada Donno
(sta in: A NUDA VOCE. CANTO PER LE TABACCHINE, di Elio Coriano. Musicaos Ed, 2014)
“La storia delle donne si costruisce sulla memoria di ciascuna. Il racconto
della vicenda personale femminile, con la sua contrastata e indomita aspirazione
alla propria realizzazione, fa di essa argomento e materia di storia.”
(Anna Maria Longo)
Sfoglio l’archivio di Rosetta con
la curiosità cauta di chi sa di mettere mani nei pensieri riposti di una
persona cara che non c’è più. Quando me l’affidò Salvatore, il maggiore dei due
figli di Rosetta, qualche anno dopo la sua morte, sentii in fondo al suo gesto
una sorta di ritrosia: se lo tratteneva nelle mani come chi teme di perdere un
bene prezioso. Qui ci sono i ricordi di mia madre, disse, lei si teneva
conservate queste carte gelosamente, c’è la sua storia.
Per questo le custodirò con cura,
lo rassicurai.
Forse, chiamare archivio un
fascicolo di carte un po’ sparigliate e sgualcite è esagerato. In realtà è una
cartelletta verdina, di quelle che si usavano negli uffici per fascicolare
documenti, da raccogliere a loro volta in faldoni. Per definizione, un archivio
è una raccolta più o meno ordinata di documenti, scritture, carte o altro
materiale, custoditi in funzione del loro valore di attestazione e di tutela di
un interesse. Che può essere di qualsiasi natura, compresa quella personale e
affettiva. Ma se questa ingenua raccolta è stata conservata con una cura che
testimonia un interesse da tutelare, se possiede le caratteristiche di
naturalità, originalità e spontaneità di formazione, che costituiscono
l’essenza del vincolo archivistico, allora questo che ho tra le mani è un
archivio a tutti gli effetti, mi dico.
E mentre mi rigiro tali
arzigogoli inutili nella mente, sollecitati dall’occasione che mi offrono i
versi composti da Elio Coriano per le tabacchine del Salento, m’immagino che
Rosetta mi stia fissando con quella sua espressione obliqua, quella sorta di
smorfia, insieme interrogativa e diffidente, che aveva stampata in faccia
quando, nelle riunioni dell’Udi, faticava a seguire i discorsi di noi
“femministe laureate”.
Sulla cartella c’è scritto con
grafia un po’ incerta: Ricordi.
Dentro, un po’ alla rinfusa, alcune decine di fogli a righe, di quelli chiamati
“protocollo”, ingialliti e macchiati dall’uso e dal tempo. Alcuni sono
manoscritti. A una scrittura larga, infantile, con qualche errore grammaticale,
ne segue via via una più adulta e corretta. Sono i discorsi che Rosetta si
preparava per i congressi sindacali o del partito, o per altre occasioni. Cari compagni… cominciano. Sicuramente la
scrittura è di uno dei figli di Rosetta, sotto sua dettatura, perché lei sapeva
scrivere a malapena. La sua scrittura, faticosa e sgrammaticata, è
riconoscibile invece nelle annotazioni a margine, o su foglietti sparsi.
Altri fogli sono dattiloscritti e
composti in uno sforzo di elaborazione che denota l’apporto di qualcuno esterno
alla famiglia, a cui Rosetta ha chiesto aiuto.
«Cari compagni, nel passato sono stata operaia tabacchina, abito in un
quartiere della periferia leccese, mi sono sposata vent’anni fa e ho due figli,
tutti e due studenti. La nostra è una famiglia unita…» – si presenta così Rosetta, in uno dei suoi
impacciati discorsi.
Sono discorsi che si riferiscono
a periodi diversi, nessuno reca la data e solo dai riferimenti a certi eventi noti
si può collocarli nel tempo: un congresso del sindacato, una campagna
elettorale, il referendum per il divorzio, quello sull’aborto…
In uno di questi Rosetta elenca «problemi
denunce e proposte per il Rione Castromediano per i quali bisogna lottare»:
l’allacciamento della fogna nera e l’acqua nelle case che i due terzi della
popolazione di Castromediano non ha, l’asilo nido «che non c’è e sono 25 anni
che lottiamo per averlo, e poi una scuola materna vera, perché in quella che c’è i bambini stanno appiccicati
in una sola camera, e le scuole elementari e medie che stanno provvisoriamente
in abitazioni private e non hanno la palestra». In un altro si denunciano le
condizioni del lavoro a domicilio delle magliaie, che «è retribuito due lire
mentre i loro lavori poi li troviamo esposti nei negozi a prezzi altissimi con
etichette straniere…».
Un repertorio variegato di
rivendicazioni, le piccole grandi battaglie politiche di Rosetta.
Riunite in una busta ci sono
alcune fotografie: Rosetta che legge il suo discorso dalla tribuna di un congresso
del partito, o a una festa dell’Unità. O impugna una bandiera durante una
manifestazione sindacale. O sta davanti ad una torta enorme a lei dedicata dal
sindacato per i cinquant’anni di fedeltà. La fedeltà di Rosetta… È la
motivazione che ricorre sui diplomi rilasciati, a scadenza, anche dal partito: «alla compagna Generosa Bonatesta iscritta
dal 1944 a
testimonianza della sua fedeltà». I suoi titoli di studio. Le piaceva
ripetere che il sindacato e il partito erano stati la sua scuola.
Guardo queste carte, e una
riflessione mi preme: la storia, anche la “piccola storia”, che viene così
chiamata per distinguerla da quella con la maiuscola prodotta dalle accademie,
in relazione alla costruzione di fogne ed acquedotti in un quartiere,
all’edificazione di scuole e palestre, o altre simili opere meritorie, seppur
modeste, registra volentieri nomi di sindaci o altre autorità competenti che le
hanno realizzate. E va bene. Ma chi racconterà che quelle opere meritorie -
prima di diventare deliberazioni meritorie di una meritoria autorità – stavano
nella testa e nel grande cuore di una donna semplice e priva d’istruzione che
abitava un quartiere periferico di una città periferica? C’è qualche cosa che
non va – di capovolto - in questo modo di scrivere la storia. Una sorta di
espropriazione che sospinge ai margini, nell’insignificanza e nell’oblio.
Allo
stesso modo, mi dico, un’indagine storica sulla produzione agricola e
manifatturiera salentina nel secolo scorso può documentare le ragioni
economiche, sociali, politiche, ma anche di sfruttamento, che hanno
caratterizzato l’oppressione delle classi subalterne nel Meridione: può
illustrare quale fosse l’utilizzazione della forza lavoro femminile, in quali
termini fosse impiegata, a quali fini destinata e quale ne fosse la portata in
rapporto allo sviluppo capitalistico e alle sue distorsioni.
Ma tra le povere carte come
quelle conservate da Rosetta puoi trovare chiare tutte le connessioni e le
dipendenze di ordine familiare, civile, culturale e morale. E puoi trovare anche
storicizzate le ragioni per cui lo stare al mondo è differente, oggi come ieri,
per gli uomini e per le donne.
È per questo, per uscire
dall’insignificanza storica, che le donne hanno imparato a raccontarsi, e soprattutto
a farlo cercando le parole per dire le cose che a loro stanno più a cuore, per
le quali le parole disponibili degli uomini, siano pure accademici, spesso
risultano inservibili.
“Sono stata operaia tabacchina…”
In un tentativo di autobiografia,
raccolto occasionalmente in poche pagine pubblicate dal suo sindacato in tempi
più recenti, Rosetta raccontava della sua infanzia poverissima a Calimera, della
madre che aveva fatto tredici figli ma solo sette erano sopravvissuti, del
padre capraio che «certi giorni tornava a casa che non aveva venduto neanche un
quinto di latte»; della sua infanzia senza giochi, perché doveva badare ai
fratelli più piccoli e per questo non l’avevano neppure mandata a scuola. Delle
bambole di pezza che si faceva di nascosto e di quella volta che si era prese
le botte dalla mamma perché aveva trovato in un cassetto una matassina di
cotone e l’aveva usata per farci i capelli. Della madre che infine era morta d’aborto
e lei era stata mandata a servizio, perché «con quello che c’era in casa era
difficile sfamarsi tutti».
Rosetta ricordava la sua
adolescenza senza dolcezze e senza rabbia, ma con una intima, seppur confusa,
determinazione. Considerava una mezza fortuna l’essere stata messa a servizio per
qualche tempo presso la famiglia di un ammiraglio, che un po’ stava a Lecce e
un po’ a Venezia. Dato che la portavano con loro, aveva avuto la possibilità di
conoscere un po’ di mondo che non fossero le quattro case del paese e aveva
potuto imparare a parlare l’italiano, cosa che valeva come una scuola. Ma poi,
quand’era già più grande, era capitata in un’altra famiglia dove la trattavano
da schiava e allora aveva preso la decisione della “fuga” col suo fidanzato
contadino, che l’aveva portata a casa dei suoi a Cavallino. I suoceri l’avevano
accolta senza storie, come una figlia, e di questo lei gliene portò sempre
grande riconoscenza. Specialmente al suocero, che “la difendeva sempre”, anche
se lei non era buona per i lavori di campagna e non distingueva le erbe
commestibili dalle erbacce.
Non avevano fatto in tempo a
sposarsi, però, che lui fu richiamato alle armi e spedito sul fronte russo. Così
lei era rimasta incinta e senza mezzi per sostenersi. Poiché era abituata a
mantenersi col suo lavoro, si sentiva a disagio. Continuava a sentire il
disagio anche dopo il ritorno del fidanzato, il matrimonio regolare e la
nascita del primo figlio Salvatore: che nacque il primo maggio, come un segno
del destino. Il secondo figlio le nacque alcuni anni più tardi, e il marito
volle chiamarlo Palmiro, come il segretario del partito.
Per brevi periodi, quando si era
offerta l’occasione, aveva provato ad andare a piantare e raccogliere il
tabacco. Lavoro pesante e primitivo, quando ancora bisognava “spidocchiare” le
piante ad una ad una dai vermi parassiti e staccare le foglie con le dita che
facevano male e s’indurivano di un nero colloso che non andava via neanche a
spellarsi. E aveva infilato le foglie nei serti con la cusceddra, per metterle a seccare nei tiraletti, e aveva cantato i canti insieme alle altre tabacchine, per
alleggerire la cupezza della fatica.
Ma il suo desiderio era di andare
a lavorare nella fabbrica di tabacco. Sapeva che anche lì il lavoro era duro, certo,
e non era sempre assicurato. Per i quattro mesi invernali si lavorava sette o otto
ore al giorno, dalle sette della mattina alle quattro del pomeriggio, con una
pausa a mezzogiorno per mangiare qualche cosa in fretta. Le operaie venivano
assunte a stagione, senza la garanzia di essere riassunte per la stagione
successiva. Il lavoro si svolgeva in locali malsani, o umidi o polverosi a
seconda del momento della lavorazione, e pregni delle esalazioni che uccidevano
lentamente.
Tuttavia, diventando operaia
tabacchina, le sembrava di salire di un gradino, di appartenere ad una categoria
sociale più definita, perfino più rispettata.
«Nel ‘42 entrai in fabbrica (a 18
anni); nel ‘44 mi fecero rappresentante nella commissione interna della fabbrica;
nel ‘46 ero capolega…»: Rosetta scandisce così sui foglietti verdi del suo
archivio la progressione del suo percorso di operaia tabacchina.
C’erano donne di tutte le età a
lavorare con lei, dai quattordici ai cinquant’anni. Donne bruciate da una dura
sopravvivenza fra fatica e gravidanze. Ma la maggior parte erano molto giovani
come lei. Il lavoro era estenuante, tutto il giorno a cernere e spianare
tabacco, sedute su quegli sgabelli duri che dopo qualche ora ti si
rattrappivano le gambe e non ti sentivi più la schiena; oppure in piedi, a
imballarlo.
Le “maestre” fiduciarie del
padrone erano incaricate di distribuire il lavoro e di controllare che tutto si
svolgesse secondo le consegne. Decidevano i ruoli: chi doveva fare
l’imballatrice, chi la cernitrice o la spianatrice. La paga era diversa per le
diverse mansioni. Veniva assegnata la
quantità di tabacco che ciascuna doveva lavorare nella giornata, e qualcuna che
era più lenta e non ce la faceva, veniva sospesa per punizione.
Le maestre sorvegliavano che le
operaie non parlassero fra loro: perché chiacchierando perdevano tempo e diminuiva
la produzione, dicevano. Ma anche perché – ma questo non lo dicevano - le donne parlando si raccontavano e si
ascoltavano e questo era meglio evitarlo. Anche il canto delle tabacchine
veniva soffocato. Piuttosto, era meglio recitare il rosario, tutte insieme.
Il Salento era diventata una
delle aree più altamente specializzate nella produzione e la prima lavorazione
delle qualità di tabacco levantino, che Rosetta e le sue compagne avevano
imparato a distinguere e a chiamare coi loro nomi impronunciabili, che a loro
suonavano come “santujaca”, “peristizza” e “zagovina”. Le foglie più chiare dalle più scure, le più
larghe dalle più piccole, le più ruvide dalle più lisce.
Le tabacchine erano manodopera indispensabile:
prima di tutto perché la lavorazione delle foglie richiedeva le mani abili,
leggere e veloci delle donne, meglio se in giovanissima età. Spesso erano
quelle stesse mani che, negli altri mesi dell’anno, tessevano al telaio i corredi
da sposa per sé o ricamavano quelli commissionati dalle signore più benestanti
del paese.
E poi erano manodopera docile,
che si poteva pagare la metà degli uomini senza dovere spiegare perché,
disposta a piegarsi ad ogni angheria pur di tenersi quel posto.
Molte delle compagne di lavoro di
Rosetta provenivano dalle stesse famiglie di coloni o di braccianti che
producevano il tabacco nelle campagne attorno agli opifici. Con la loro fatica
stagionale, precaria e frammentata, d’estate nelle campagne di raccolta e
d’inverno negli opifici, le lavoratrici del tabacco integravano il reddito
familiare.
Tale concezione integrativa del
reddito familiare serviva a giustificare la bassa retribuzione del lavoro
femminile ed era stata per secoli lo strumento di assoggettamento sociale,
politico e culturale, nonché familiare, delle donne. Secondo un criterio
indiscusso, alle donne veniva corrisposto per legge solo il compenso dello
sforzo richiesto dal lavoro nelle fabbriche o nelle campagne. Il corrispettivo
economico delle cure domestiche, invece, per quanto attività propria della
donna per definizione e destino, veniva integrato nel salario dell’uomo
capofamiglia, al quale soltanto spettava, sempre secondo la legge, il
mantenimento della donna e dei figli.
E caso mai non fosse bastata
questa giustificazione, c’era l’altra più rozza e sbrigativa, comunemente
accettata, dell’inferiorità della forza fisica femminile, del più basso livello
d’istruzione e specializzazione e rendimento: in una parola, della naturale, ineliminabile
inferiorità della donna.
Nonostante tutto ciò, erano in
tante ad aspirare a quel lavoro, che i padroni, almeno fino ai primi anni del
secondo dopoguerra, poterono selezionare con comodo e a piacimento la manodopera
femminile disponibile.
Dopo qualche anno alcune finivano
in sanatorio. Tutte sapevano del rischio di prendere la tubercolosi.
Tubercolosi polmonare, difficilmente curabile, favorita dalla denutrizione e
dalle precarie condizioni igieniche. Avrebbero dovuto almeno mettere le
mascherine, ma quasi nessuna lo faceva. C’erano i controlli sanitari previsti
per legge, ma siccome qualcuna che risultava malata non veniva più chiamata a
lavorare, tante preferivano nascondere la malattia.
Rosetta sentiva mormorare che in
trent’anni di tabacchicoltura migliaia di tabacchine avevano preso la tubercolosi
e molte erano morte. E presto capì che doveva scegliere se affidarsi anche lei a
san Luigi Gonzaga, protettore dei contagiati, come facevano le sue compagne di
lavoro, o ribellarsi e lottare per
cambiare le cose.
“Certo furono le sofferenze che
ci fecero unire nella lotta comune”
Era stato in casa dei suoceri che
Rosetta aveva sentito parlare per la prima volta di sindacato, di diritti dei
lavoratori, di partito. Dapprima mezze parole, non discorsi compiuti. Sentiva
borbottare di concessionari che avevano fatto milioni a palate d’accordo con
Achille Starace e con gli altri gerarchi fascisti. Dei pescecani che
speculavano sulla guerra. Poi, via via parole sempre più chiare. Ma ci capiva
ancora poco di quei discorsi, anche se le suonavano giusti, perché lei un po’
ribelle lo era stata sempre. E quando, nell’estate del 43, alla radio dissero
che era caduto Mussolini e vide suo suocero inginocchiarsi e baciare terra
dicendo: “grazie a Dio, è finita”, lo guardò stupefatta ma pensò che doveva
essere successo qualche cosa di buono e ne fu contenta anche lei. Anche se non
era ancora finita per niente e avrebbero patito altri anni tremendi di fame e
di paura.
Sentiva raccontare di scioperi
spontanei delle tabacchine, di proteste che però non avevano portato a niente
negli anni passati, perché non erano organizzate nei sindacati e venivano
duramente represse nel sangue. A Tricase nel ’35 c’erano stati cinque morti,
tre donne e due uomini, ammazzati dai fascisti e dalla forza pubblica. E anche
più tardi, nel ’44 a Lecce, quando le tabacchine manifestarono per i sussidi di
disoccupazione e contro il sistema del caporalato, la polizia sparò e tre di
loro rimasero uccise.
Il partito e il sindacato
l’aiutarono a tradurre il disagio che avvertiva nel profondo in coscienza della
sua condizione di servaggio e in volontà di lotta. Dapprima per sé, poi anche
per le altre. «Certo furono le sofferenze che ci fecero unire nella lotta
comune», annota Rosetta sui foglietti verdi del suo archivio.
Aveva già capito da sé che le
sofferenze non erano tutte dovute al destino, ma fu partecipando alle riunioni che
apprese cosa fossero le Concessioni speciali che il Monopolio statale
rilasciava ai privati per la produzione e la lavorazione del tabacco; capì che
non per caso negli anni del fascismo c’era stata una grande espansione della
produzione di tabacco, che si erano moltiplicate le concessioni speciali e ed
erano sorte decine e decine di opifici privati. Sentiva nominare «i meccanismi
di accumulazione e di rendita che intervengono nell’organizzazione agraria di
tipo feudale basata sul latifondo» e non erano parole facili da capire.
Ma le fu ben chiaro come mai i
concessionari il più delle volte fossero gli stessi grandi proprietari
terrieri, che avevano ricevuto contributi statali per la costruzione degli
opifici e, di fatto, esercitavano il pieno controllo su tutta la fase della
produzione e della prima lavorazione del tabacco. Davano da coltivare le loro
terre a colonia o a mezzadria alle condizioni da loro imposte, ricavandone il
massimo di rendita grazie a tutti i trucchi che conoscevano. E, mentre i coloni
ed i piccoli proprietari dovevano vedersela con le calamità e gli imprevisti
della sorte, loro andavano sempre sul sicuro.
Capì anche, infine, che i salari
bassi delle tabacchine consentivano larghi margini di profitto sulla lavorazione
del tabacco negli opifici. E che tutto questo era stato possibile, fino a quel
momento, grazie alla loro scarsa sindacalizzazione.
“Attivista comunista”
Rosetta fu tra le prime donne iscritte
al sindacato nel leccese. Non si risparmiava e non temeva di esporsi durante
gli scioperi e nelle dimostrazioni sindacali della sua categoria. Vi
partecipava intrepida, in prima fila, incoraggiata anche dall’esempio di
compagne salentine il cui nome sentiva pronunciare con rispetto, dentro il
sindacato e dentro il partito, come Cristina Conchiglia, o le sorelle Anna e
Teresa Rocci; e spronata dalle parole delle “compagne dirigenti” come Dolores
Abbiati, che il partito aveva inviato dal nord Italia proprio per organizzare
le lotte delle donne salentine e per aiutarle a costruire l’Udi. E come Adele
Bei, che veniva dal nord anche lei e, con tutto ciò ch’era dirigente nazionale
del sindacato, era sempre pronta ad ascoltare e a dare consigli in quella
maniera gentile e senza arie che aveva e che l’aveva conquistata subito.
Le spiegavano che era un diritto
delle operaie, non una concessione del padrone, avere mense aziendali e sale per
l’allattamento dei figli piccoli; le chiarivano quanto fosse importante ottenere
commissioni paritetiche per il controllo dell’avviamento al lavoro, per evitare
pratiche discriminatorie che colpivano le lavoratrici iscritte al sindacato. C’erano
già stati scontri violenti tra le forze dell’ordine e i lavoratori che
protestavano contro l’arbitrario ingaggio padronale e per assicurare ai
lavoratori e alle lavoratici a tempo determinato quel minimo di giornate
lavorative all’anno necessarie per usufruire dei benefici previdenziali.
Ma non bastava il confronto fabbrica
per fabbrica con il singolo datore di lavoro, dicevano, occorreva allargare il
fronte, ottenere contratti collettivi nazionali che garantissero a tutte adeguamenti
salariali, sussidi di disoccupazione e copertura previdenziale per i mesi di
non lavoro; assegni familiari, condizioni di lavoro più umane e tutele che
migliorassero la qualità del lavoro e della loro vita.
Il primo contratto nazionale delle
tabacchine fu firmato il 1° novembre 1947, data memorabile per chi avrebbe
scritto in seguito la storia di quelle lotte. Ma averlo firmato non significava
che i padroni lo applicassero nelle loro aziende.
Sicché, il 12 novembre si dovette
indire uno sciopero generale che proseguì per dieci giorni. I sindacati
chiamarono a scioperare l’intera categoria dei lavoratori agricoli a sostegno
della vertenza delle tabacchine. L’adesione allo sciopero fu la più ampia vista
fino ad allora in tutta la provincia. Cinquantamila lavoratori agricoli e
tabacchine parteciparono a cortei, manifestazioni, blocchi stradali, comizi organizzati
dalla Federterra davanti ai tabacchifici. Rivendicavano miglioramenti
salariali, tutela del lavoro, controllo democratico del collocamento, che era
gestito dagli uffici comunali del lavoro e quel tipo di gestione consentiva ad
agrari e concessionari di violare la legge sull’imponibile di manodopera e di
esercitare le ritorsioni più feroci contro le tabacchine sindacalizzate.
Le cronache del tempo descrivevano
in tutta la provincia cortei che avanzavano cantando l’inno dei lavoratori,
cariche di polizia, arresti in massa, brutale repressione in obbedienza alle
direttive del ministro Scelba, che aveva intimato di «intervenire con energia denunciando
autori e istigatori». Ma ogni episodio repressivo non faceva che sollecitare
manifestazioni di solidarietà, anche delle altre categorie. Il 20 novembre a
Campi due lavoratori furono uccisi e molti altri restarono feriti nel corso degli
scontri.
Rosetta in fabbrica cercava di
convincere le sue compagne di lavoro a non subire passivamente le angherie
delle “maestre” che le insultavano: puttane, svergognate, lavorate! E su
qualcuna alzavano pure le mani.
Ma su di lei no, mai: perché
sapevano che era iscritta al sindacato, che era intrepida e partecipava alle
manifestazioni. E poi era una che sapeva parlare in italiano e aveva anche una
lingua che sapeva essere tagliente quando occorreva. Era brava anche ad
inventare rime – una capacità che le veniva facile dalla memoria dei cunti e delle filastrocche che sentiva
recitare da bambina a Calimera – e sulla condizione delle tabacchine compose una
poesia che recitò al congresso provinciale dei lavoratori del tabacco, e diceva così:
La maestra già incomincia
da matrigna a funzionar
che di tutta la provincia
è un modello di bontà,
e si avventa su costoro
con la lingua di serpente:
“Su pettegole al lavoro,
che vi pigli un accidente,
svergognate e puttagnole
disoneste” e così via
e le povere figliole
quante cose han da sentir.
Poi c’è ancor la caposquadra
Che qualcosa ha pur da dir,
ché per farsi benvolere
anche lei si fa sentir.
Incomincia a brontolare
“Ma volete far qualcosa?”
Non fa altro che gridare
Sino a rendersi noiosa.
E così ragazze mie,
quando poveri si nasce
sono avversi con le vie
anche i panni con le fasce
e dobbiam sacrificare
la più bella gioventù
e subire per mangiare
la più grande schiavitù.
Ebbe un grande successo e la sua poesia uscì pure sul
giornale.
Qualche giorno dopo arrivò in
fabbrica il dottore Reale, il padrone, e volle conoscere la tabacchina che
aveva recitato la poesia: per complimentarsi con lei, disse. Volle sentirla da
lei e lei la declamò al microfono.
«Ma è vero quello che lei dice
della fabbrica?», le chiese il dottore.
E lei pronta: «Venga lei stesso a vedere. Ma
deve arrivare all’improvviso, senza tutta la corte dietro…». La corte delle maestre ruffiane, dei
capisquadra e degli ispettori, che avevano il compito di nascondere le magagne
a beneficio del padrone.
Quel giorno Rosetta si prese l’applauso entusiasta delle sue
compagne; ma la maestra, che si era fatta di tutti i colori, se la legò al
dito.
A grande maggioranza era stata votata
nella Commissione Interna (ricordava e teneva annotati precisamente i numeri:
su 320 voti, 290 andarono a lei e 30 alla maestra), ma tanto fecero che le
impedirono di formarla. Lei era ormai
individuata come “attivista comunista” e presa di mira.
In fabbrica un giorno tentarono
di farla passare per ladra, infilandole di nascosto delle foglie di tabacco
nelle tasche del cappotto. L’aria si faceva sempre più irrespirabile per lei
nella fabbrica Reale, e alla fine si licenziò.
Passò a lavorare nella fabbrica
di tabacco che chiamavano “dei combattenti” perché era stata messa su con i
risarcimenti della guerra. Le voci maligne su di lei, però, la precedevano e
fin dal primo giorno fu interpellata davanti a tutte dalla maestra, che la
guardava con sospetto. Rosetta non si lasciò intimidire e le rispose con
fermezza: lei non chiedeva altro che di essere rispettata, disse, e che fossero
anche rispettate le sue compagne di lavoro, e non offese o addirittura
malmenate.
Fu un susseguirsi di agitazioni e
scioperi sempre più combattivi ed efficaci, fino al 1950. Le lotte delle
tabacchine andavano di pari passo con quelle dei lavoratori agricoli, che a
volte scioperavano per solidarietà e a volte per sostenere le proprie
rivendicazioni, come i miglioramenti salariali per le categorie bracciantili, o
una più equa ripartizione dei rapporti di colonia e mezzadria.
Erano tempi in cui ci si buttava
nelle lotte col cuore senza risparmiarsi. Lei non si tirava mai indietro. Anche
quando le venivano affidati compiti per i quali non si sentiva all’altezza.
Come quando fu nominata rappresentante in quella che chiamavano la Commissione
Mola per l’imponibilità di mano d’opera. Lei ci capiva poco e niente, ma si
mise d’impegno e imparò.
Fece anche la staffetta del
sindacato durante le occupazioni delle terre incolte dell’Arneo. Organizzava le collette e le raccolte di
viveri a sostegno degli occupanti. Le mattine partiva di buon’ora in bicicletta
e andava nelle terre occupate, senza curarsi delle maldicenze.
Sapeva che nel rione dove abitavano
c’era chi mormorava e sparlava alle sue spalle di questa sua spavalderia.
Specialmente quella volta che all’Arneo ci restò tre giorni di seguito perché i
carabinieri sequestrarono tutte le biciclette compresa la sua. Quella volta un
po’ di rimorso lo sentì, soprattutto perché a casa aveva lasciato il figlio
piccolo, con il marito. Sennonché il terzo giorno se lo vide arrivare, suo
marito, con una grossa pignatta di piselli e dei grossi pani, per lei e per gli
altri del sindacato. Ne fu sollevata e contenta. E fu sempre riconoscente verso
quell’uomo di poche parole e di sentimenti onesti che si fidava di lei e la
sosteneva.
Nel gennaio 1950 ci fu una forte
ripresa degli scioperi “a singhiozzo” in ogni paese della provincia, repressi anche
questi con arresti e denunce in massa. Nel suo archivio Rosetta conserva, come
un cimelio, copia di un verbale di udienza del tribunale di Lecce che riporta
la sentenza nella causa penale contro venti imputati, fra i quali c’è anche
lei, Bonatesta Generosa di Pantaleo, nata il 4.10.1924 e residente a Cavallino.
Imputata con gli altri 19 di «avere con violenza e minaccia costretto i
dirigenti e le operaie delle manifatture di tabacchi di S. Cesario a sospendere
il lavoro». Con l’aggravante, per alcuni di essi, di «avere promosso ed organizzato
la cooperazione del reato».
Il rapporto del maresciallo dei
carabinieri di San Cesario dell’11 febbraio 1950, su cui si basava l’accusa, riflette
suo malgrado (e fatto salvo l’involontario effetto comico, a leggerlo oggi) il
clima d’intimidazione che pesava in quegli anni sul mondo del lavoro. I venti
erano imputati di «essere giunti espressamente in paese da Lecce, per preparare
ed organizzare lo sciopero, altrove già in atto e di avere a tale scopo
commesso varie violenze, costringendo molte operaie a non recarsi al lavoro e
altre che vi si erano recate ad astenersene».
Fieramente compreso nel suo ruolo
di difensore dell’ordine costituito, minacciato da pericolosi “attivisti
comunisti”, il maresciallo riferisce di allarmanti proporzioni della «folla che
i carabinieri non riuscivano ad arginare e che in massa si dirigeva verso le
varie fabbriche di tabacco allo scopo di costringere le operaie a sospendere il
lavoro». Descrive una «folla tumultuante che
andava vieppiù ingrossandosi lungo la strada», nella quale egli aveva
individuato gli imputati come «promotori ed organizzatori delle varie azioni
delittuose».
Sennonché dal verbale risulta
che, in realtà, nel corso dell’udienza un solo testimone dell’accusa, un
proprietario di fabbrica, conferma che gli imputati «presso la sua fabbrica con
urla e contegno minaccioso l’avevano costretto a disporre la sospensione del
lavoro». Mentre gli altri testimoni dichiarano, in parte ritrattando quanto avevano
sostenuto in istruttoria, che le operaie erano state fatte uscire dalla fabbrica
«per misura prudenziale».
Insomma non c’è prova di alcuna
azione delittuosa compiuta dagli accusati. Probabilmente – non manca di chiosare
con malizia il giudice nelle sue conclusioni – i testimoni hanno ritrattato «come
facilmente avviene in casi consimili, per timore di rappresaglie». Tuttavia resta
il fatto che non c’è prova di violenza, allo stato degli atti. Restano solo le
grida e lo sciopero, che però, riconosce il giudice, non possono ritenersi
violenza. «Anche se – non può fare a
meno di aggiungere - con le grida si ottenne l’effetto. Non bisogna dimenticare che una folla scioperante di per sé incute
timore; come pure non bisogna
dimenticare che sarebbe assurdo pensare a una folla che non gridi; elemento,
anche questo, fortemente suggestivo, specie sui singoli, cui le grida sono
dirette».
Sofismi incomprensibili, per
Rosetta. Ma la conclusione era l’assoluzione, sia pure per insufficienza di
prove, e tanto bastava.
Dal ’48 al ’54 furono anni tremendi
Con la sua scrittura un po’ sgangherata
Rosetta annota: «Dal ’48 al ’54 furono anni tremendi, con i carabinieri che
venivano in casa di notte e ti mettevano tutto a soquatro». Anni di un conflitto di classe durissimo. A cui si
partecipava col cuore, senza risparmiarsi. Alle lotte delle tabacchine
s’intrecciavano spesso quelle di altre categorie di proletariato agricolo e
urbano.
Le lotte di tutte le categorie erano
a loro volta intrecciate con le campagne elettorali: quella del 18 aprile con
le Madonne pellegrine che piangevano per le colpe dei comunisti, quella del ’53
contro la legge truffa, e le altre. E le campagne elettorali erano intrecciate
con quelle dei Partigiani della pace per
l’interdizione dell’arma atomica e per chiedere un accordo fra le cinque grandi
potenze mondiali che mettesse fine alla produzione di armi nucleari.
«Nel ’49 e anche negli anni
seguenti abbiamo raccolto migliaia di firme» annota Rosetta.
In seguito i soloni del partito avrebbero detto che in
quegli anni c’era stata una semplificazione eccessiva, che si erano confusi i
ruoli, mentre si sarebbe dovuto distinguere fra rivendicazioni sindacali e lotte
politiche, e altre cose simili.
Ma Rosetta in cuor suo pensava
che allora la connessione appariva così lampante, che non potevano fare
diversamente: i padroni delle terre e delle fabbriche che ieri erano fascisti,
adesso erano diventati democristiani e avevano cacciato i comunisti dal governo,
dopo la parentesi dell’unità antifascista che avevano ingoiato di malavoglia. Ed
erano gli stessi che mormoravano, (ma qualcuno lo diceva anche a voce alta) che
la bomba atomica bisognava usarla per farla finita con la guerra di Corea, e
magari anche con l’Unione Sovietica, perché lì mangiavano i bambini.
Ecco perché era lampante
l’intreccio fra le lotte per uscire dalla miseria secolare e quelle per la pace
nel mondo, o contro l’impiego della bomba atomica, o per ottenere la grazia per
i Rosenberg che negli Stati Uniti erano stati condannati alla sedia elettrica come
spie del nemico. Lei le vedeva, ora, quelle connessioni chiarissime fra fatti
apparentemente così lontani fra loro ed era riconoscente al partito che le
aveva insegnato a vederle.
Ricordò sempre quegli anni come
un periodo ricco e fruttuoso della sua vita, in cui aveva imparato tante cose,
nelle riunioni sindacali e anche in quelle dell’Udi, dove aveva potuto
ascoltare parole nuove e le aveva riconosciute. Le pareva che illuminassero la
sua storia personale di una dignità diversa.
Capiva perché il lavoro, che lei
aveva voluto con ostinazione, per quanto sfruttato, a dispetto della fatica e
delle mortificazioni, costituisse una spinta a riflettere sulla profonda
ingiustizia della condizione femminile. Come avrebbe potuto, se avesse
continuato a fare la serva, fosse in casa d’altri o nella famiglia? Doveva
essere anche un desiderio di emancipazione a spingere le donne a sottomettersi
al lavoro più duro.
E doveva esserci una ragione se gli
uomini si lamentavano che le centinaia di operaie, che uscivano al mattino da
casa e al tramonto facevano ritorno dagli opifici, andavano assumendo
atteggiamenti più indipendenti, più sfacciati, tanto da costituire motivo di
scandalo, perché si rompeva un ordine secolare che voleva le donne sottomesse
all’autorità del padre, del marito, dei fratelli.
Soprattutto partecipando alle
lotte, pensava Rosetta, si determinava per le donne una capacità di pensare per
sé diritti nuovi, impensati e impensabili fino allora.
Rosetta continuò a presentarsi
come “operaia tabacchina” anche dopo che gli opifici erano chiusi ormai da un
pezzo nel Salento, perché sentiva così di appartenere a un corpo di lavoratrici
solidale che, contrassegnando col suo protagonismo la storia sociale del
Salento negli anni tra la fine della guerra e la fine degli anni ’50, si era
conquistata una sorta di nobiltà storica e perfino simbolica nel movimento
operaio e anche in quello delle donne.
Negli anni seguenti le cose s’erano
fatte più difficili perché il lavoro diminuiva ogni anno insieme alla
produzione di tabacco. Gli opifici cominciarono a chiudere per tante ragioni:
per la concorrenza dei tabacchi di tipo americano, che non si producevano nel
Salento; per l’epidemia di peronospora; per la meccanizzazione del lavoro che
restringeva la richiesta di manodopera alla sola fase della lavorazione delle
foglie. Quando nel ’57 sopraggiunse l’accordo europeo sulla liberalizzazione
del mercato del tabacco greggio, tutti dissero che era questione di pochi anni
altri, per il tabacco salentino era finita. Per migliaia di lavoratori e di lavoratrici
non restava che l’emigrazione.
Anche Rosetta cominciò a
rimuginare l’idea di emigrare, soprattutto dopo che un muro della loro casa
crollò per le infiltrazioni di umido e loro non avevano soldi sufficienti per
ricostruirlo. Lei non trovava lavoro e quello che suo marito guadagnava bastava
appena per tirare avanti la giornata. Cominciò a parlarne col marito, cercò di
convincerlo a partire insieme per la Germania, dove c’erano già alcuni parenti
e conoscenti ch’erano emigrati. Ma lui non ne voleva sapere, era troppo legato
alla sua terra e al suo lavoro.
Allora lei prese la grande
decisione: sarebbe partita da sola. Sarebbe rimasta giusto il tempo di mettere
insieme un po’ di soldi e poi sarebbe tornata. Nella famiglia del marito, più
di tutto, temevano le malignità della gente. Ma di questo Rosetta non si
preoccupava, e più ci pensava, più si diceva: perché no? Nel partito e nel
sindacato non dicono sempre che le donne hanno uguali diritti, che devono
emanciparsi? E partì per la Germania.
Le avevano trovato un posto alla
Grundig, una grande azienda elettrotecnica dove lavoravano quasi mille
italiani. Per lei fu un’altra grande scuola di lotta operaia. Come era ormai abituata
a fare, partecipava impavida alle assemblee di fabbrica, sebbene non capisse
un’acca di tedesco. E alla fine fu proprio lei a chiedere che fosse introdotta
la traduzione per le maestranze immigrate. Possibile che non ci avessero
pensato prima?
Per un certo tempo lavorò anche, la
sera, in un ristorante italiano come cuoca e ci stava tanto bene che sarebbe
rimasta, se solo suo marito si fosse convinto a raggiungerla coi figli.
Ma non ci fu niente da fare.
Quando le arrivò all’orecchio la voce che le solite malelingue sparlavano di lei
che aveva abbandonato casa e figli, e le riferirono che lui per la vergogna evitava
di farsi vedere nella piazza del paese, dovette cedere e se ne tornò
definitivamente. La Germania rimase una parentesi di due anni, a cui ripensava
di tanto in tanto con qualche rimpianto.
Tornò alle sue lotte. Quelle che
organizzavano il partito e il sindacato per la tutela della lavoratrice madre,
per la parità salariale, per gli asili nido. Poi venne quella per il divorzio,
in cui specialmente le donne erano chiamate ad impegnarsi, e lei imparò perfino
a fare i comizi. Faceva propaganda per il no all’abrogazione della legge, fra
gli abitanti del Rione Castromediano dove vivevano, e anche a Lecce, con le
compagne dell’Udi. «Perché mai –
domandava in uno dei suoi discorsi pubblici - chi aveva la sfortuna di
un’esperienza matrimoniale fallita non poteva rifarsi una regolare famiglia e
doveva vivere il resto della vita in un’atmosfera avvelenata?»
Poi venne la campagna per l’aborto.
Trovò perfino il coraggio di raccontare in pubblico la sua esperienza di donna
che, da giovanissima, aveva dovuto affrontare vita sessuale e maternità
conoscendo solo le poche cose che sentiva a mezza voce dalle donne più grandi. L’ignoranza
teneva le donne sotto quello scacco tremendo, ripeteva. E raccontò degli aborti
provocati con l’infuso di prezzemolo, cui aveva assistito, di donne morte tra
atroci dolori ed emorragie terribili perché erano ricorse a pratiche abortive
clandestine.
E tante altre cose. Ma queste fanno
parte di una storia venuta dopo.
Rosetta avrebbe voluto raccontarla
per iscritto da sé la sua storia, se avesse conosciuto parole sufficienti. Ricomporre
in una narrazione le esperienze della vita, dando ad esse un inizio e una fine,
consente di dare ad esse il senso che una vuole. Si possono sostituire i luoghi
del ricordo penoso, della sofferenza, della rinuncia e dell’abbrutimento -
tutto il rimosso e il taciuto della vita - con una narrazione compiuta che
aiuti ad andare oltre quella che le intellettuali femministe chiamano la “rappresentazione
miserabilistica” di una condizione umana femminile violentata e maltrattata.
Lei aveva sempre cercato, anche
nelle sacche di miseria più disperata, i barlumi di rifiuto della
rassegnazione. Aveva uno sguardo che sapeva vedere oltre e anche nelle cose che
sembravano più macchiate scovava i sentimenti puri che restituiscono pulizia e dignità.
Erano queste sue qualità a farle osare di desiderare d’essere parte della
storia delle donne liberate.
*********
Fimmine Fimmine, il teatro della vita. La raccolta, la tessitura, il vento
a cura di Maira Marzioni, Caterina Pontrandolfo e Assunta Zecca
Al libro hanno contribuito gli sguardi dei fotografi Pina Muci e Corrado D’Elia, le riflessioni di Luisa Cavaliere e Ada Donno, femministe e scrittrici.
Redazione e cura editoriale di Mauro Marino del Fondo Verri di Lecce.
Il libro racconta il progetto di teatro e comunità "Fimmine Fimmine - Canti Memorie e Storie delle donne dell'Arneo" che le autrici hanno realizzato, dal mese di marzo a settembre 2013, con un gruppo di anziane e di artiste tra i Comuni di Leverano, Copertino, Nardò, San Pancrazio, Veglie, Salice Salentino. Si è trattato di un progetto pensato per restituire valore alla memoria delle donne nel racconto della storia di un territorio. Ricerca antropologica, laboratorio, comunità, teatro, paesaggio. adri, contadine, tabacchine, tessitrici, filatrici del secolo scorso. Le loro testimonianze e i loro canti. Donne che hanno ascoltato altre donne e ne hanno fissato la memoria restituendola alla comunità attraverso il teatro, il canto, la scrittura, la fotografia.
La Postfazione di Ada Donno
Questo non è solo un libro prezioso che racconta un progetto di donne, il progetto di Caterina, Assunta e Maira. E’ un omaggio al principio femminile, che è cura e nutrimento, capacità di accogliere e tessere relazioni, forza generatrice di intrecci di narrazioni e canti. E’ un libro-tessuto che narra di donne-figlie che incontrano donne-madri per ritrovare immagini, modi, gesti, parole dimenticate. La trama di questo tessuto sono i racconti delle madri, l’ordito sono i desideri delle figlie di ritrovare parole-madre. Per sottrarle all’oblio, ma anche per guardarsi dentro. Perciò è anche un libro sul ritrovarsi e ritrovare legami interrotti. Forse dice, dunque, di un desiderio di risanare fratture interiori; certamente dice del desiderio di figlie che sono partite per “affacciarsi alle città e al mondo”, prerogativa che una volta era soltanto dei figli maschi, di riannodare fili spezzati.
E’ un caso che le metafore sui fili e la tessitura siano così usuali, nel nostro parlare quotidiano, e siano anche quelle che con più evidenza riconducono al significato del nostro destino di umani? Senza scomodare le Moire o Aracne o Filomela o Arianna o Penelope dai loro miti arcaici, noi diciamo ogni giorno: perdere il filo del discorso, seguire il filo della memoria, tirare le fila, riavvolgere pensieri, mantenere un filo di speranza, avere la vita sospesa a un filo. E poi: tessere le lodi, tessere una relazione, ordire o tramare una congiura, intrecciare una conversazione. C’è anche, sempre più evidente, una rappresentazione figurata della metafora di testo e di tessitura come immagine della creazione artistica. Ricamo e tessitura come poesia e canto e racconto e pittura. E teatro, aggiunge Caterina.
E’ prodigioso come il filo di un telaio e quello della vita trovino intrecci sorprendenti, bandoli misteriosi, per tessere storie e aprire spazi che sembravano nascosti e insignificanti. La narrazione, come la tessitura, aiuta a ricomporre in forma coerente le esperienze della vita e a dare ad esse senso. Per questo le donne amano molto raccontare: di sé, delle altre, degli altri. “Al centro del mondo c’è un racconto”, amava ripeterci Joyce Lussu, che fu grande narratrice di storie e di Storia. E aggiungeva che narrare è come “ritessere i fili della vita quotidiana lacerati dai traumi delle guerre e delle servitù, assicurando a tutti la continuità della sopravvivenza e della convivenza”.
Le donne usano le parole ricevute dalle madri, le piegano ai loro desideri e le trasmettono alle figlie e ai figli con discrezione, reticenza, modestia. Facendosi lingua madre, quella che s'imprime indelebilmente perché sa raccontare le ragioni primordiali e i sentimenti.
Oggi che questa nostra non è più la “provincia stregata dal suo passato” di Rina Durante, dove i sogni come i treni possono andare solo a Nord; oggi che non è più sonnolenta e le ninne-nanne sono state sostituite dai cd e da mp3; che le vecchie filastrocche dialettali sono diventate letteratura raccolta, studiata, rilegata in bella forma: oggi, nelle sere d’estate, puoi trovare ancora qui “antiche donne sedute, sulle soglie, in ascolto”.
Sono sicura che ciascuna di noi ha delle storie da raccontare. Storie vissute o ascoltate che hanno riempito le pagine della nostra esistenza, ma che possono restare un insieme casuale di gesti, episodi, esperienze di cui ci sfugge il senso. Oppure possiamo tentare di comporle in una narrazione, dando loro un inizio e una fine. Narrandole, possiamo dare un senso. Io vorrei approfittare del telaio che questo libro mi lascia a disposizione per tessere-raccontare un’ultima piccola storia, di una donna che avrebbe potuto raccontarla da sé, ma se n'è andata senza poterlo fare. Tuttavia ha voluto che mi fosse consegnato il suo modesto “archivio”, che custodisco con cura: una vecchia cartelletta verdina - il figlio Salvatore me la consegnò con riluttanza qualche tempo dopo la sua morte - su cui c’era scritto con grafia un po’ incerta: Ricordi .
Si chiamava Generosa Bonatesta, ma per tutti era sempre stata Rosetta. Conosceva il canto che si leva dai campi di tabacco ed era capace di scovare il suo infinito nella chiacchiera del cortile che reca l’odore del basilico e del rosmarino. Ma conosceva anche il rimosso e il taciuto della vita. I luoghi del ricordo penoso, della sofferenza e dell’abbrutimento. E tuttavia non amava la rappresentazione miserabilistica di una condizione umana femminile violentata e maltrattata, come direbbe la filosofa Luisa Muraro. Rosetta aveva piuttosto uno sguardo che sapeva vedere oltre. E sapeva cercare in ogni esperienza, anche quella che sembra molto macchiata, i sentimenti puri che restituiscono dignità. La qualità che la rendeva straordinaria era aver osato desiderare di essere parte della Storia, quella con la maiuscola che viene scritta da chi conosce molte parole, nella quale di solito non entra chi nasce e vive sul margine, e non conosce sufficienti parole per scriverla.
Rosetta era nata a Calimera, terra del grico e dei canti di Passione. Il grico era per lei lingua madre e continuò a tenerlo a mente anche se aveva dovuto andare via dal paese quando era poco più che bambina.
Le succedeva di tanto in tanto di raccontare della sua infanzia poverissima, del padre capraio che c’erano giornate in cui “non riusciva a vendere neanche un quinto di latte”, della madre che morì d’aborto dopo tredici gravidanze, e lei non era più andata a scuola dopo la prima elementare perché doveva badare ai fratelli più piccoli. Raccontava senza vergognarsi, anzi con una sorta di vanteria ruvida, alla rovescia, per quel suo passato così esemplare di proletaria del sud da cui aveva voluto riscattarsi. Qualche volta lo faceva perfino impugnando un microfono, in occasione di un congresso della Cgil, o una festa dell'Unità, o in una riunione dell'Udi. Perché Rosetta era una militante comunista. Anzi, una “attivista comunista”, come veniva puntigliosamente schedata in qualche verbale dei carabinieri in cui le era capitato di incappare. Ma questo accadde in seguito.
Poco più che bambina era stata mandata a servizio presso la famiglia di un ammiraglio, che un po’ stava a Lecce e un po’ a Venezia, e per lei quella era stata una mezza fortuna, perché aveva potuto affacciarsi a un mondo che non fossero le quattro case del paese, e aveva potuto anche imparare a parlare l’italiano. Ma poi era capitata a servizio in un’altra famiglia dove la trattavano da schiava, e allora aveva deciso di “fuggirsene” col suo fidanzato contadino, che era dieci anni più grande di lei ed era di un paese lì vicino. Non che qualcuno si opponesse, ma quella era allora la maniera di sposarsi delle ragazze povere, che non potevano permettersi la spesa di un matrimonio con tutte le regole.
In casa dei suoceri, a Cavallino, l’accolsero come una figlia senza fare storie, anche se lei non era buona a lavorare nei campi con loro, perché non ci era abituata.
Della famiglia di suo marito conservò sempre un ricordo pieno di riconoscenza: specialmente per il suocero, che “stava dalla sua parte” in ogni occasione. Fu da lui, e dal fidanzato Pippi, che Rosetta sentì parlare per la prima volta di lotte dei lavoratori, di sindacato e di partito. Dapprima non li capiva bene, quei discorsi, ma le suonavano giusti: le sembravano parole che lei, ragazza intimamente ribelle, ma che a stento sapeva leggere e scrivere, non avrebbe saputo trovare da sola.
Quando alla radio diedero la notizia che era caduto Mussolini, stupita vide suo suocero inginocchiarsi e baciare terra dicendo: grazie a Dio, è finita!
E invece non era finita: perché il fidanzato fu chiamato alle armi per essere spedito in Russia, e lei era incinta e non erano ancora sposati. Per fortuna lui ebbe un breve congedo poco dopo: ebbero appena il tempo di sposarsi, dovette ripartire. Finì prigioniero a Norimberga e non era ancora tornato – era il ’44 – quando lei partorì il figlio Salvatore: il primo maggio, come un segno del destino.
Il loro secondo figlio invece nacque otto anni più tardi e lo chiamarono Palmiro come il segretario del Pci. Lei intanto era diventata operaia tabacchina: lavorare in fabbrica era una conquista per lei, anche se dura, ore e ore a cernere e spianare tabacco, seduta su quello sgabello duro che dopo qualche ora le si rattrappivano le gambe e non si sentiva più la schiena. E in più, bisognava subire le angherie della “maestra” ruffiana del padrone, che le insultava: puttane, svergognate, lavorate! E su qualcuna alzava pure le mani.
Ma su Rosetta no: perché sapevano che era iscritta al sindacato, che era intrepida e partecipava agli scioperi e alle manifestazioni. E poi era una che sapeva esprimersi in italiano. Era brava anche ad inventare rime, sulla condizione delle tabacchine compose una poesia che recitò con grande successo al congresso provinciale del suo sindacato e la pubblicarono pure i giornali. Quando la minacciavano di licenziarla lei rispondeva con fermezza che non chiedeva altro che di essere rispettata. E che fossero anche rispettate le sue compagne di lavoro, e non offese o addirittura malmenate.
Fu una delle prime donne iscritte al sindacato e non si tirava mai indietro, come invece facevano alcuni compagni a volte, quando si trattava di organizzare gli scioperi. Dovette affrontare perfino un processo, imputata insieme ad altri diciannove “per avere con violenza e minaccia – come recitava il verbale dell’udienza - costretto i dirigenti e le operaie delle manifatture di tabacchi di S. Cesario a sospendere il lavoro”. La storia delle minacce e della violenza non era vera, naturalmente: furono tutti assolti per insufficienza di prove. E lei conservò copia del verbale di quel processo come un cimelio.
Prese parte anche alle lotte contro il latifondo e all’occupazione delle terre incolte dell’Arneo. Lei non era interessata ad avere un pezzo di terra da lavorare, ma era una specie di staffetta del sindacato: organizzava le collette e le raccolte di viveri e le portava agli occupanti. Ogni giorno partiva di buon’ora in bicicletta e andava all’Arneo. Sapeva che c’era chi mormorava alle sue spalle e trovava da ridire per questa sua spavalderia. Specialmente quella volta che all’Arneo ci restò tre giorni di seguito perché i carabinieri sequestrarono tutte le biciclette, compresa la sua. Quel che era peggio, rimasero senza mangiare e inoltre lei stava col rimorso di aver lasciato a casa soli il figlio piccolo e il marito. Ma il terzo giorno vide arrivare Pippi con una sporta in cui teneva una grossa pignatta di piselli e del pane per lei e per gli altri. Lui si fidava di lei. E lei rispettò sempre quell’uomo di poche parole e di sentimenti onesti che le aveva insegnato cos’era la solidarietà e la lotta.
Rosetta ricordava quegli anni intrepidi come un periodo in cui la sua vita si riempiva di un senso nuovo. Imparò un sacco di cose partecipando alle riunioni sindacali, a quelle del partito, a quelle delle donne dell’Udi. Erano tempi in cui ci si buttava nelle lotte col cuore, senza risparmiarsi, e lei si sentiva orgogliosa quando le affidavano qualche compito, anche di quelli per i quali non si sentiva all’altezza. Come quando fu nominata rappresentante della Cgil in quella che chiamavano la Commissione per l’imponibilità di mano d’opera. Lei ci capiva poco e niente, ma piano piano imparò.
Le cose non andavano bene, però. Erano anni difficili, lei non trovava sempre lavoro e quello che guadagnava il marito bastava appena per tirare avanti.
Un brutto giorno un muro della loro casa crollò per le infiltrazioni di umido e loro non avevano i soldi per ricostruirlo. Rosetta cominciò a rimuginare l’idea di emigrare. Lo facevano in tanti, no? Ma Pippi non ne voleva sapere. Allora lei prese la grande decisione: sarebbe partita da sola. Giusto il tempo di mettere insieme un po’ di soldi. Cercò di convincere il marito, che più di tutto temeva quello che avrebbe detto la gente. Ma più Rosetta ci pensava, più si diceva: perché no? Nel partito e nel sindacato non dicono sempre che le donne hanno uguali diritti, che devono emanciparsi? E partì per la Germania. Trovò posto alla Grundig, una grande azienda elettrotecnica dove lavoravano quasi mille italiani. Fu un’altra grande scuola di lotta operaia per lei, partecipava impavida alle assemblee sindacali in fabbrica, sebbene non capisse un’acca di tedesco. Lavorò anche in un ristorante come cuoca e ci stava tanto bene che sarebbe rimasta, se suo marito si fosse convinto a raggiungerla coi figli. Ma non ci fu niente da fare. Per di più nel paese le malelingue mormoravano che avesse abbandonato casa e figli, e lui per la vergogna evitava di farsi vedere in piazza. Alla fine dovette cedere, e se ne tornò definitivamente. La Germania rimase una parentesi di due anni, a cui ripensava di tanto in tanto con qualche rimpianto.
Fece tutte le lotte.
Quelle per la tutela della lavoratrice madre, quelle per la parità salariale, per gli asili nido. Poi quella per il divorzio. Imparò a fare i comizi. Faceva propaganda per il no all’abrogazione della legge, fra gli abitanti del Rione Castromediano dove vivevano, e anche a Lecce. Perché – spiegava - chi aveva la sfortuna di un’esperienza matrimoniale fallita non poteva rifarsi una regolare famiglia e doveva vivere il resto della vita in un’atmosfera avvelenata?
Poi venne la campagna per l’aborto. Trovò il coraggio di raccontare in pubblico la sua esperienza di donna che da giovanissima aveva affrontato vita sessuale e maternità conoscendo solo poche cose che aveva sentito dalle donne più grandi. Raccontò di aborti provocati con l’infuso di prezzemolo, di donne morte tra atroci dolori ed emorragie terribili perché erano ricorse a pratiche abortive clandestine.
Ripeteva che l’ignoranza teneva le donne sotto quello scacco tremendo. Qualche medico c’era, che si prestava a prescrivere i contraccettivi, ma ipocritamente sotto la forma di medicinali “ricostituenti”. E quando una donna porgeva la ricetta al farmacista, quasi si vergognava, perché percepiva intorno a sé la disapprovazione. E sentiva che in quella pantomima la sola colpevole restava lei.
Fu in quegli anni che la conobbi. Ci trovavamo nelle riunioni dell'Udi, in via Oronzo Tiso, dove lei arrivava a piedi da Castromediano. Io, generazione politica del sessantotto, rivoluzionaria e femminista, polemica e impaziente nei confronti del partito comunista “borghese e revisionista”; lei comunista “storica”, che mi scrutava matronale e silenziosa, con quella che dapprincipio prendevo per una smorfia d’insofferenza stampata in faccia. In seguito mi confessò con candore che in realtà faceva solo molta fatica ad afferrare i nostri discorsi di intellettuali laureate.
Ebbe però l’occasione di prendersi la sua rivincita un’estate di molti anni dopo, precisamente nel ’91, quando organizzammo a Lecce un “seminario di donne mediterranee”. Nella vecchia sede dell’Arci, in via Conservatorio S. Leonardo, Rosetta aveva il compito di organizzare la corvèe per le pause pranzo. Per lei fu un’autentica festa. Soprattutto quando scoprì che, con il suo grico di Calimera, s’intendeva con le compagne greche e cipriote ch’erano venute al seminario molto meglio delle laureate.
Nell’intimo, sono certa, sentiva che qualche ragione noi ce l’avevamo, ma non venne mai meno al patto di fedeltà stretto col suo partito. Tranne una volta. Verso gli ultimi anni della sua vita, da quando le riunioni all’Udi non si facevano più, né lei avrebbe potuto più farsi tutta quella strada a piedi, andavo a trovarla di tanto in tanto. Era rimasta vedova ed era diventata quasi del tutto sorda, ma mi offriva il caffé e mi aggiornava sugli ultimi suoi guai con la salute. Quella volta - c’erano appena state le elezioni politiche a cui io ero candidata senza speranza con Rifondazione comunista - mi disse a denti stretti: “Ti ho votata, ma non lo dire in giro”. Non scherzava: sentii che quello strappo le era costato, come un tradimento. Ne conservo ancora, nel profondo, un ricordo irrequieto, come una specie di gratificazione graffiata di rimorso.
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JOYCE LUSSU. L'UTOPIA RAGIONEVOLE E COSTRUTTIVA
di Ada Donno e Caterina Gerardi, Quaderni di «Gramsci» n.3 -2008
Lecce, via G.d'Otranto 40
Prefazione
Da quando è partita per il suo viaggio più lungo, dieci anni fa, su di leDa quando è partita per il suo viaggio più lungo, dieci anni
fa, su di lei è stato scritto molto. Sono stati pubblicati studi e ricerche, le
sono stati dedicati quaderni di riviste, tesi di laurea e convegni di esperti. In
internet basta aprire alla voce Joyce Lussu con qualsiasi motore di ricerca e
si trova un’enorme quantità di informazioni. Testimonianze di persone
conosciute, ma più spesso del tutto sconosciute, con le quali amava intrecciare
relazioni, non importa se stabili o fugaci, ricercate o del tutto occasionali.
Ciascuno scopre un segmento, rivela un’angolatura, illumina
un aspetto della Joyce Lussu che ha conosciuto: ci sono luoghi che si ripetono,
ma più spesso aspetti non ancora considerati di lei e della traccia da lei
lasciata nel mondo. E credo che su una donna così protesa verso il futuro, come
è stata Joyce, ci sarà da dire e da scrivere anche quando saranno passati molti
decenni.
Dedichiamo a Joyce questo terzo Quaderno del Centro Gramsci
e sono convinta che lei, che condivise tanta parte di vita e di pensiero con
Emilio Lussu, avrebbe apprezzato, magari sottolineandolo con la sua bella
ironia, questo accostamento all’altro grande Sardo del Novecento, il cui
destino non poté incrociare per le diverse vicende personali e circostanze
storico-politiche, ma del quale ebbe grande rispetto.
Tuttavia non faremo a Joyce il torto di proporre questa
pubblicazione come omaggio commemorativo rituale a una persona che non è più
tra noi da dieci anni, perché Joyce non amava la retorica degli omaggi rituali
e irrideva le commemorazioni organizzate per decenni. Ci pare di sentirla ammonirci,
con la sua ruvidezza tutta pedagogica, che «la cosa più importante è continuare
a chiedersi quali sono i problemi di noi vivi in questo momento su questo
pianeta e identificarli con chiarezza».
Semplicemente, torniamo a parlare di lei, attraverso il
racconto per parole e immagini – senz’altro parziale e incompleta – del suo
rapporto con il Salento e con alcune persone che fecero da tramite.
E giacché ci siamo, ricordiamo alcuni aspetti di lei: del
suo modo rigoroso di essere a sinistra e al contempo inflessibile verso gli
opportunismi nella sinistra; del suo “socialismo diverso”, austero, ancorato al
primato della morale, non marxista in senso stretto ma fondato sull’intransigente
difesa dei diritti delle masse lavoratrici e dei popoli oppressi; della sua
carica utopica fortissima («utopia ragionevole», però) unita al profondo senso
della storia; della sua fiducia nel dialogo costruttivo con la generazione dei
più giovani.
«Joyce la rossa», (com’era chiamata da giovane con un misto
di ammirazione e disprezzo dall’ala più conservatrice della sua aristocratica
famiglia dalla complicata genealogia anglo-franco-marchigiana con una frangia
di albanesità) era un felice impasto di razionalità, sapienza e anche magia. Lucido
pensiero laico, convincimenti granitici, parola scientifica sempre presente. Ma
anche appassionata voce narrante dei misteri delle Sibille delle montagne e
tenera voce poetica. In lei vita e scrittura hanno proceduto insieme,
specchiandosi.
Le foto di Caterina Gerardi ci accompagnano in questa
rievocazione: sono immagini che si riferiscono alle ultime venute di Joyce nel
Salento. Come sempre pronta a rispondere alle chiamate più semplici, mai
rassegnata alla malinconia e decadenza della vecchiaia, Joyce vi appare com’era
nell’ultimo scorcio di vita: gli occhi offesi dal glaucoma hanno perduto l’azzurro
e non vedono più, ma lo sguardo resta vigile sul presente e il disegno della
bocca conserva l’ostinazione di sempre.
Alle foto di Caterina abbiamo aggiunto in appendice alcune
immagini “storiche”, che la ritraggono in occasione di due celebrazioni del 25
Aprile organizzate dall’ANPI salentina.
Così continueremo a parlare di lei, coltivando i ricordi di
donne e uomini che l’hanno incontrata conosciuta amata, oppure semplicemente l’hanno
letta o ascoltata, o con lei hanno vissuto, lavorato, litigato, nel corso della
sua lunga feconda vita.
E, come lei scriveva ad Emilio che era partito per il
viaggio più lungo, penseremo anche noi che non c’è niente di buio e definitivo
in questo suo essere assente, poiché le generazioni di donne e di uomini che
verranno, continueranno a leggere con meraviglia la sua vita romanzesca. E si
sorprenderanno della viaggiatrice leggera che attraversò fronti e frontiere e
aspri passaggi d’epoca. Si stupiranno
delle sue profetiche certezze che non trascuravano il dovere del dubbio. Si
lasceranno ispirare da quel rigore morale e disinteresse personale che erano la
sua “bussola elementare”. Ammireranno il felice amalgama colto e quotidiano
della sua parola, la tempra «levigata dalla disciplina ma sdegnosa di servire» -
come è stato scritto - che ne traspare. Ameranno la sua poesia «che sembra più
vera del vero / più vera della politica / della psicologia / e anche della
matematica».
A.D.
Lecce, maggio 2008 .
NEXHMIJE HOXHA. IL DOVERE DELLA MEMORIA
di Ada Donno e Caterina Gerardi, Quaderni del «Gramsci» n. 1 -2005
via G.d'Otranto 40, 73100 LECCE
Prefazione
In questo volume c’è il racconto per parole e immagini di
una conoscenza, e poi di un’amicizia, cresciute nell’arco degli ultimi quindici
anni con una donna, Nexhmije Hoxha, le cui vicende personali si sono incontrate
con molta parte della storia
dell’Albania – e per molti versi anche dell’Europa - del secolo scorso.
Dopo la caduta dei
regimi comunisti dell’est europeo, attraverso giornali e televisioni seguivamo
attoniti l’abbattimento di monumenti e simboli, vedevamo sollevarsi coi tumulti
le ritorsioni e le vendette, e le violenze, e le guerre. Vicende di per sé
drammatiche, spesso dilatate dalla vorace voglia di giornali e televisioni di
arrivare primi a mostrare la Storia nel suo farsi terribile. Assistemmo
allibiti all’esecuzione sommaria di Elena e Nicolae Ceausescu. Contemplammo con
raccapriccio lo scempio di cadaveri delle “vittime del comunismo” riesumati da
fosse comuni a Timisoara. Poi si scoprì ch’era tutta una montatura, ma pochi
amano ricordarlo.
In Albania si faceva molto chiasso sul processo alla
vedova del leader Enver Hoxha, ma si taceva sostanzialmente sul perché Nexhmije
venisse processata e rinchiusa in un tristissimo carcere, con un’accusa di
malversazione mai comprovata.
C’era qualcosa di odioso nell’accanimento giudiziario
contro una donna anziana, alla quale s’imputava di aver offerto troppi caffè a
chi era andato a farle visita mentr’era presidente del Fronte Democratico,
quando in realtà tutti in Albania e nel
mondo sapevano (e la maggior parte accettava) che si facesse “per interposta
vedova”, come titolò qualche giornale italiano, il processo politico al regime
comunista decaduto.
La sezione
italiana della Women’s International League for Peace and Freedom s’impegnò a far conoscere al mondo il suo
caso emblematico, denunciò la sua vicenda in varie occasioni e conferenze in
Europa e nel Mediterraneo. Fino ad arrivare, tramite il suo Ufficio
Internazionale di Ginevra, alla Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti
Umani.
L’impegno per Nexhmije Hoxha si affiancava, in quegli
stessi anni, a quello per Silvia Baraldini: ambedue detenute politiche vittime
- pur nella evidente diversità delle loro vicende - di una persecuzione
giudiziaria e per questo ambedue
riconosciute come socie onorarie della Wilpf.
Sono qui raccolti: il racconto e le immagini di alcuni
incontri con Nexhmije, avvenuti in diversi viaggi successivi in Albania
compiuti da me e Caterina, in un arco di tempo che va dal 1995 al 2004. Dal
primo colloquio nel carcere femminile di Tirana, ottenuto dopo due anni di
dinieghi pervicaci delle nuove autorità albanesi, anche di fronte ai nostri
appelli alla Convenzione di Strasburgo, fino all’ultimo incontro nella sua
modesta casa di via Durres, divenutaci ormai familiare. Alcune immagini di
Nexhmije a Lecce, dove volle trascorrere alcuni giorni nel 1997, nel suo unico
viaggio in Italia dopo la scarcerazione. Alcuni brani di lettere inviateci da
Nexhmije dopo la sua scarcerazione e un capitolo del suo libro di memorie “La
mia vita con Enver”, ancora inedito in Italia.
La conversazione “Enver, mio compagno di vita e di
lotta”, contenuta nel dvd allegato al
volume, è stata realizzata nel 2001.
Un’ultima annotazione: Caterina ed io pensavamo a questa
pubblicazione da tempo, ma è solo per un caso che essa esce proprio nel momento
in cui in Albania, dopo un lungo intervallo di silenzio, qualcuno è tornato a
scrivere su Nexhmije Hoxha con una violenza verbale inspiegabile per chi non è
albanese. Probabilmente non è estraneo a ciò l’inaspettato successo editoriale
delle sue memorie, andate esaurite in migliaia di copie nel giro di pochi mesi.
Sembra che certi albanesi non riescano a fare i conti col proprio passato se
non “per interposta vedova”.
Per parte nostra, questa pubblicazione è una
testimonianza di solidarietà e di amicizia.
A.D.
Lecce, luglio 2005
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Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa di Annamaria Rivera, Edizioni Dedalo 2012
L’autrice analizza il fenomeno, poco indagato dalle scienze sociali, delle autoimmolazioni, pubbliche e di protesta, in alcuni paesi del Mediterraneo. La sua ipotesi è che questi suicidi col fuoco chiamino in causa i nodi irrisolti delle società in transizione: le gravi disuguaglianze economiche e sociali, la struttura autoritaria del potere, la comparsa di ideologie religiose che esaltano la violenza e il martirio. Ma non solo: le torce umane, che ora ardono anche in alcuni paesi europei e in Israele, rivelano un malessere che non riguarda esclusivamente le società orientali e a maggioranza musulmana, ma pure le nostre, colpite da una crisi economica che è anche sociale e politica.
Annamaria Rivera, antropologa, ha pubblicato di recente: La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo (Ediesse 2010); Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo (Dedalo 2009).
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Aicha Bouabaci
Il disordine umano raccontato a mio nipote
Edizioni Kurumuny, Martignano di Lecce, 2011
Recensione di Irene Strazzeri
Ne Il disordine umano raccontato a mio nipote si legge la vicenda di un “ordinario” respingimento senza troppi particolari raccapriccianti, sebbene il parlare di ordinarietà rappresenti di per sé uno stimolo critico alla riconsiderazione di ciò che già Hannah Arendt definì banalità del male, alludendo a quella facoltà del pensare che può evitare le azioni malvagie. Probabilmente il respingimento, come qualunque altra pratica di espulsione esercitata in condizioni di “disordine umano” -per citare la bellissima espressione dell’autrice- può apparirci ordinario, quasi scontato nel clima di cieca obbedienza all’egoismo a cui il nostro stile di vitaci ha abituati. Tuttavia, scrive Ada Donno nella prefazione al testo “non sono necessari particolari raccapriccianti, quando storie di ordinaria sopraffazione si connotano di nomi ed esperienze reali”.
Leggendo questo libro non è difficile riconoscere una donna reale, con un nome reale ed una vita reale. La si può conoscere con lo sguardo rivolto all’origine l’Algeria o con lo sguardo normalizzatore del mondo ordinato e bulimico. Ho provato ad adottare entrambe le prospettive, ricercando nel libro sia un riferimento alla rivoluzione algerina del 1962: evento chiave nel processo di decolonizzazione, sia il segno che la stessa rivoluzione si sia tradotta in una grande delusione per le donne algerine. Molte di loro, pur essendo state protagoniste attive nel processo di liberazione nazionale, sono state ostacolate nel processo di emancipazione femminile. Come denunciato dalla sociologa algerina Marie-Aimée Helie Lucas, le donne algerine sono state doppiamente forcluse: dalla tradizione e dalla modernità. La loro soggettività politica è subalterna due volte: al patriarcalismo tradizionale da un lato, a quello occidentale dall’altro. E’ questo un altro volto del disordine umano, che purtroppo non risparmia neppure il femminismo occidentale e la sua incapacità di adoperare uno sguardo sulle donne migranti davvero scevro da ogni forma di paternalismo. Così Ibtissam, la protagonista del libro, è al contempo una donna tenacemente affezionata al progetto migratorio condiviso con il marito-Ibrahim, ed una donna a lui sottomessa:
“Qualche volta si era confidata con Ulrike che l’aveva spesso messa in guardia: « Ibtissam-le diceva- tu vizi troppo Ibrahim, aspettati che non te ne sia mai riconoscente. Gli uomini, e soprattutto quelli che sono protetti dalla propria cultura attraverso uno statuto scrupolosamente codificato dagli uomini e trasmesso, non meno scrupolosamente, da secoli, dalle donne, sono pronti a dimenticare questo genere di benefici. Aspettati piuttosto una scarica di rancore; alcuni uomini, purtroppo, amano coltivare l’oblio per tutto ciò che potrebbe scalfire il loro amor proprio» (p.82)
In questo passaggio si fa riferimento, in modo esplicito, al diritto di famiglia algerino, noto nel dibattito internazionale sul femminismo islamico come Family Code. Negli anni immediatamente successivi alla guerra d’indipendenza algerina, infatti, il nazionalismo, il socialismo e la religione furono usati come base di elaborazione di una politica statale ostile alle donne. Nello specifico il family code è un codice solo superficialmente riformato, in vigore dal 1920, che tuttora limita moltissimo la libertà femminile rispetto all’aborto, al divorzio, alla possibilità di espatriare da sole o con i propri figli.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non ho voluto mettere in risalto questo estratto dal testo solo per illuminare uno spaccato sulle asimmetriche relazioni tra i generi nella società algerina ma anche, forse soprattutto, per dar conto della relazione che Ibtissam ha intrapreso con la sua amica tedesca, Ulrike: colei, appunto, che le dispensa quelle paternalistiche raccomandazioni.
Proseguendo nel racconto si percepisce, infatti, l’asimmetria anche nella relazione tra due donne dello stesso sesso, ma provenienti da due mondi diversi, o forse socialmente e culturalmente destinate a due mondi diversi. Una volta “respinta” Ibtissam si ritrova dinanzi ad un pacchetto inviatole dalla amica rimasta in Germania:
« Non hai ricevuto un pacchetto che ti ho spedito da più di un mese? Strano, non ne parli». Ibtissam lesse e rilesse l’email inviata da Ulrike. Non capiva di cosa le parlasse.
Pensavo che avresti avuto tempo ora – non è qui l’aspetto positivo della tua “deportazione” mia povera amica?- per metterti di fronte a te stessa, come donna, e riflettere su chi tu sia, su quello che tu vorresti essere, nell’ombra, ma anche alla luce della solitudine. E per parlare. Parlare all’altra te stessa.
Decisamente Ibtissam non capiva. Chi era quest’altra donna? In questo mondo in cui la parola della donna vale la metà di quella dell’uomo, anche quando quella dell’uomo non vale niente [..]
Fiamme sinistre alla ricerca di pagine inedite, parole mai dette, parole mai stampate? Per annientarle definitivamente. Che le darà un giorno il cambio?(p.93)
E’ proprio dai paesi europei, dunque, che Ibtissam riceve lo stimolo a percepire se stessa come la donna flagellata da continue ingiustizie, straniera, araba, musulmana, passando dal dolore d’essere al dolore di subire. Difficile vivere in questa terra, scrive Aicha. A proposito di disordine….
*****
Il disordine umano raccontato a mio nipote, di Aicha Bouabaci
Edizioni Kurumuny 2011
Prefazione di Ada Donno
Aicha Bouabaci è una donna dolce e assorta, con un sorriso gentile e un velo di malinconia che non l’abbandona mai, come il ricordo di un dolore. E’ nata in Algeria in una famiglia “con le nonne felicemente ingarbugliate” e vive da tempo in Germania. Ha scritto romanzi, molti racconti e poesie, numerosi articoli e saggi, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue. Frequentando con lei negli anni scorsi gli appuntamenti periodici delle donne del Mediterraneo, dove non mancava mai di portare piccoli saggi sapienti della sua parola letteraria, mi lasciavano ogni volta sorpresa e ammirata l’estro e il rigore con cui preparava le sue comunicazioni, che quasi sempre erano il racconto ispirato e commosso, ricco di spunti e sentimenti, di esperienze interiormente rivissute.
Il disordine umano raccontato a mio nipote richiama nel titolo, penso volutamente, i fortunati libri-saggio di Tahar Ben Jelloun, ma il testo di Aicha s’inscrive piuttosto nella tradizione del romanzo-lettera. La strategia narrativa adottata, inquieta e spezzata, consente all’autrice di alternare la narrazione degli avvenimenti alla riflessione e all’evocazione, di modulare i toni sulla fervida denuncia o sulla tenerezza. La sua prosa soffusa di lirismo estrae gli interrogativi e i temi dalle pieghe più sofferte delle vite narrate. La sua arte cerca il senso profondo delle vicende umane anche negli episodi tratti dall’attualità minima e misera, producendo un impatto di lettura spesso forte e inaspettato.
La vicenda narrata si svolge nella Germania dell’immigrazione più recente, dopo il crollo del muro e l’Anschluss dell’Est tedesco realizzata a tamburo battente dall’Ovest rampante. E’ ambientata tra il 2000 e il 2001 nel paese in cui Aicha vive la maggior parte dell’anno. Ma avrebbe potuto essere ieri e in un altro qualsiasi dei paesi d’Europa. Perfino in un altro qualsiasi paese del Nord del mondo.
E’ la storia di un “respingimento”.
Respingimento è una brutta parola coniata dal più recente Ordine politico europeo, quello ossequioso degli interessi economici forti, che ha aperto le frontiere a capitali e merci ma non con pari generosità alle persone. Una brutta parola che si utilizza per definire l’atto del rifiuto opposto ai migranti che risultano in difetto dei previsti Documenti d’ingresso o di soggiorno. Per il rilascio di detti Documenti l’Ordine europeo ha definito dei criteri il cui rigore si misura in difficoltà e tempo necessario per ottenerli, ma non solo. I criteri servono infatti all’Ordine per distanziare gli uni dagli altri quelli che entrano e soggiornano nei diversi paesi europei: prima gli Europei dentro Schengen, poi gli Europei di fuori, poi gli extracomunitari. Fra questi ultimi, poi, ci sono poi ulteriori distanziamenti, più o meno dicibili, che complicano questa invisibile scala gerarchica. Ci possono anche essere altre variazioni dell’ordine di scala, dovute a storiche circostanze o improvvise nuove urgenze sociali e politiche.
L’abbondanza di regole, tuttavia, non ha scoraggiato la multicolore umanità che preme su quella che Aicha chiama la “frontiera dell’agiatezza e del progresso” e spesso riesce ad introdursi nelle sue maglie più o meno strette e sorvegliate in maniera “irregolare”. Ma a questo punto scatta il respingimento, che in certi casi contemplati viene detto anche “espulsione con accompagnamento alla frontiera”. Recentemente sono state escogitate anche modalità di respingimento che agiscono prima ancora che gli “irregolari” possano avvicinarsi alla frontiera e spiegare le ragioni per cui chiedono di entrare.
Comunque sia, il respingimento è il solerte allontanamento degli irregolari dagli occhi (e dalle coscienze) di coloro che l’Ordine europeo si preoccupa di tutelare. In nome della loro Sicurezza.
Sta di fatto che, da che mondo è mondo, l’Ordine si legittima in nome della Sicurezza di coloro sui quali vige, attraverso dispositivi più o meno brutali di esclusione degli altri.
Nell’antica polis greca, dove legittimamente si cercano le radici della Moderna Democrazia Universale, c’erano i polìtai, i cittadini, e c’erano gli xènoi, gli stranieri. Gli stranieri erano tutti quelli che dimoravano fuori dei confini delle poleis, oppure potevano stare dentro ed erano tollerati, ma in posizione subordinata. I cittadini immigrati da un’altra polis erano chiamati meteci: a loro a volte veniva riconosciuta la cittadinanza, a seconda delle circostanze e a discrezione delle autorità. Gli stranieri e gli schiavi (che di solito erano prigionieri di guerra) erano non-cittadini. Le donne erano non-cittadine di fatto, perché erano sotto tutela ed esercitavano i diritti di cittadinanza solo per interposto padre, marito o fratello.
Sul gioco dell’esclusione/inclusione - in base all’appartenenza sociale o etnica o di genere - si reggeva l’Ordine nella comunità politica antica, codificato e di solito indiscutibile.
La moderna polis globale non può però giustificare l’esclusione con l’appartenenza sociale né con quella di genere – non per niente ci sono state di mezzo le Grandi Rivoluzioni che hanno prodotto le moderne Costituzioni – ma ha bisogno di contemplare comunque dei “dispositivi di distanziamento” (li ha chiamati così l’autorevole sociologo Norbert Elias) e si riserva ancora di marcare i confini, anche quelli interni, sulla base dell’appartenenza etnica e del paese d’origine.
Un dispositivo davvero formidabile contro gli immigrati è lasciarli vivere perennemente in precarietà e sotto lo scacco dell’espulsione. Smisurato.
A ben guardare, i confini marcati sono sociali e di classe anche quando vengono chiamati con altro nome, ma questo è un discorso che ci porta più lontano.
Nella moderna polis globale l’Ordine costruisce la sua legittimazione sull’esclusione dell’umanità multicolore che brulica all’interno oppure intorno alle frontiere e che compone quelle “vite di scarto” (come le ha chiamate un altro autorevole sociologo, Zygmunt Bauman) in perenne transito tra estraneità ed integrazione, discrezionalità e normazione, marginalità ed inclusione, che possiamo incontrare ogni giorno.
Quella narrata da Aicha Bouabaci è una ordinaria storia di respingimento, dunque, neanche particolarmente drammatica, se consideriamo che è priva di particolari raccapriccianti come quelli contenuti nelle cronache di Ceuta, o di Lampedusa, o della Libia, che descrivono corpi senza nome e senza storia alla deriva nel Mediterraneo.
Non sempre è necessario indugiare su dettagli orrendi per ottenere attenzione e forse comprensione. A volte basta dare un nome a quei corpi e farsi voce narrante delle loro piccole storie di dolore.
Come quella di Ibrahim, immigrato in Germania da diversi anni, di sua moglie Ibtissam, e del loro piccolo Elias. Ibrahim, avendo una famiglia da sostenere, sopporta con pazienza di vivere la condizione di tanti altri immigrati, paria nella città globale, con un lavoro precario e sottopagato, socialmente invisibile, facilmente ricattabile.
Sennonché Ibrahim, nel suo passato di immigrato, ha commesso un errore: un’infrazione, un’impazienza di gioventù. Si fosse trattato di un cittadino legittimo, le Autorità sorvolerebbero, tanto più che Ibrahim è disposto a pagare il suo piccolo debito pur di vivere libero. Ma l’Ordine che è stato violato non dimentica ed è inflessibile nella punizione. La piccola famiglia deve andarsene, sconfitta, tornare là da dove era partita pensando ingenuamente di avere il diritto di scegliere il paese nel quale costruire il proprio futuro.
Ma non partiranno soli: alla cerimonia dell’espulsione, su cui s’indugia con tenerezza minuziosa, li accompagneranno come in trionfo l’affetto e la solidarietà degli amici che restano dentro la frontiera e rappresentano quella “Umanità dolce” che si dà la mano “pour tisser le voile de la Renaissence”.
Dalle pieghe di questa storia semplice Aicha estrae interrogativi e temi di riflessione stringenti anche per noi. A quale nazione appartiene il piccolo Elias nato da genitori immigrati in terra germanica? Quali sono i suoi diritti? Su quale passaporto può essere iscritto per avere un titolo di viaggio che gli consenta di attraversare le frontiere?
E poi: che ne sa il piccolo Elias dei dispositivi di esclusione in cui è incappato alla nascita? E che ne sa di dotte disquisizioni, se sia meglio legare il riconoscimento della cittadinanza all’ancestrale concezione dello jus sanguinis oppure a quella territoriale dello jus soli, o se né l’una né l’altra siano più adeguate ai bisogni di una umanità mobile e plurale, com’è quella odierna delle migrazioni e della multiculturalità?
Il gioco dell’inclusione/esclusione è davvero l’unico modo in cui si può costruire la comunità umana moderna? E chi stabilisce cos’è Ordine e che cosa Disordine?
L’antica mitologia greca raccontava l’evoluzione dal Chaos primigenio - un vuoto oscuro prima del tempo - al Kosmos, che era invece ordine e armonia. Dall’eternità al tempo, dal vuoto alla Terra, agli astri, alle genealogie degli dei, degli eroi e degli uomini. Il passaggio è segnato dall’intervento di Zeus olimpico, dio intelligente e portatore d’ordine, il quale ingaggia una dura guerra contro i Titani, divinità primordiali dell’oscurità e della brutalità, che incarnano il disordine: sottomesse infine e relegate nel Tartaro, sono però sempre in agguato, costante minaccia di regresso allo stato di Chaos.
Il mito greco è la metafora di una verità semplice: l’umanità ha bisogno di ordine. L’esistenza di regole la percepiamo come ordine e ci dà sicurezza; ciò che percepiamo come non conforme alle regole, è disordine e ci appare una minaccia. Pertanto l’Ordine coincide con il Bene, il Disordine con il Male. Così discorrevano anche le Muse di Platone.
Ma la metafora mitologica ci racconta anche che per vincere le forze titaniche, Zeus dovette acquisire ed utilizzare una parte dei loro strumenti (il fulmine dei Ciclopi, per esempio). Forse vuole dirci con ciò che l’ordine non può imporsi se non accoglie al suo interno il seme del principio contrario.
Insomma, ordine e disordine sono condizioni relative, non assolute. Tanto è vero che l’una definisce l’altra.
Non potrebbe essere che ciò che viene percepito come ordine in un contesto, possa essere considerato disordine in un altro?
Forse disordine è la condizione di un bambino che nasce in un paese nel quale i suoi genitori sono immigrati, ma non ha diritto di considerarsi cittadino di quel paese.
Disordine può essere anche la condizione della famiglia di quel bambino, espulsa dal paese nel quale aveva cominciato a costruire onestamente il proprio futuro. E forse disordine sono i cittadini di quel paese che, davanti al clandestino immigrato senza diritti e senza voce, in vendita sul mercato nero di cose ed esseri umani, si ritraggono indifferenti o infastiditi perché non possono soffermarsi troppo a considerare il valore di persone che pagano quattro soldi per un servizio che loro non vogliono più fare.
Disordine è la guerra permanente e preventiva dell’Occidente in nome della propria sicurezza. Disordine è la fame causata dal mostruoso meccanismo di spreco, dilapidazione, distruzione di risorse sottratte al resto dell’umanità, su cui è cresciuto per secoli quest’ordine vertiginoso che è il modello occidentale che seduce e abbandona.
E forse l’ordine plausibile per i prossimi secoli non potrà che essere la restituzione di una parte, almeno, della refurtiva.
La percezione di ordine e disordine è determinata culturalmente, dunque. E chissà che, mentre l’ordine dentro la frontiera precipita vertiginosamente, ciò che è stato percepito precedentemente come disordine non appaia “benevolo”, alla fine.
Alla fine, le cose potrebbero andare meglio, se alla definizione di un nuovo ordine potessero partecipare quelli che sono stati esclusi e si potesse proclamare la “sovranità di questa umanità variegata”, suggerisce Aicha.
Ma ancora così non è. Anzi, dentro la frontiera si fa un gran polemizzare e se qualcuno propone per gli immigrati alcuni diritti di cittadinanza, come votare, ricevere assistenza sanitaria, costruire un edificio destinato al proprio culto religioso, è tutto un vociare sgangherato e arrogante.
E allora Aicha con la sua scrittura naviga sopra i flutti del disordine mondiale tenendo la direzione caparbiamente contraria ai luoghi dell’indifferenza, dove regna l’ordine insensato, e “fissa sulla carta le immagini dell’insensatezza”, alla ricerca di un altro ordine possibile da narrare.
Dalla sua posizione di migrante del tutto particolare (lasciare l’Algeria è stata per lei una “scelta imposta dall’urgenza”, in un momento tragico per il suo paese, ma non è un’emigrante né una rifugiata, nessuno le impedisce di tornare in patria e niente la obbliga a restarne lontana), può penetrare i sentimenti dei suoi conterranei magrebini e condividerne speranze e umiliazioni. Ma sa anche condividere i sentimenti dei fratelli e sorelle africani, medio-orientali, latino-americani, e di tutti coloro nei quali riconosce “la naturale gioia di vivere spesso smorzata da una nostalgia insidiosa”. E sa riconoscere l’Umanità dolce in ogni persona – il poliziotto che ha un attimo di resipiscenza al momento di eseguire il respingimento, le amiche di Ibtissam che facendo ala accompagnano all’aeroporto i “respinti”, la hostess che assume la sua quota di compassione prendendosi cura del loro bagaglio – ogni persona “che non è cieca, che è intelligente, gioiosa e premurosa e che può trovarsi davanti a qualsiasi porta”.
“Sono sempre a disagio – ha scritto Aicha Bouabaci in un altro suo racconto - davanti alle frontiere: quelle che chiudono, maltrattano, sminuiscono. Come un ipnotizzatore, mi piacerebbe mettermi di fronte ad esse e abbassarle con uno sguardo. Uno solo. Potente”.
Costruire lo sguardo che può. E’ ciò che ha cominciato a fare quella “Umanità dolce e perseverante” che scende nelle strade e con la sua arte implacabilmente smaschera il fallace ordine imperiale, con la sua musica svergogna il decrepito ordine patriarcale e canta il suo disprezzo verso i “cacciatori della libertà”. E caparbiamente li assedia con la narrazione delle sue storie diverse.
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Il disordine umano raccontato a mio nipote
Recensione
PUBBLICATO IN : IL
SUDEST.IT luglio 2011
di MILENA FIORE
“[…] Molte donne, molti bambini. Una donna incinta avanza, sfiorando senza timore gli ondeggiamenti della folla. Una donna seduta sui gradini, vicino a me, allatta tranquillamente il suo bambino; due donne stringono a sé piccolissimi bebé e si scambiano delle informazioni. Capisco subito: quella là è francese, questa qui di origine algerina.
«Quanto tempo ha?»
«Quattro mesi e mezzo».
«Un mese e mezzo» fa eco la donna più anziana.
«Che coraggio!». E una delle due madri si chiede allora:
«Che coraggio?» Si, anch’io mi pongo la domanda:
il coraggio della madre o quello del bambino?
Questo bambino coraggioso che immerge i suoi piedi, ancora umidi dell’impronta del corpo della madre, in quella eterna della più grande questione del mondo: l’umanità nuda è una? Cocente domanda!”
Il disordine umano raccontato a mio nipote della poetessa e scrittrice algerina Aicha Bouabaci (Edizioni Kurumuny, Martignano, 2011), con la prefazione di Ada Donno, la traduzione di Viviana Ingrosso e i disegni di Rita Goffredo, è stato presentato in diverse realtà della Puglia e anche a Gravina il giorno 26 luglio, alla presenza dell’autrice a cura dell’Anpi, dell’Arci “Muretti a secco”, della Stakanov film e dell’AWMR (Associazione Donne della Regione Mediterranea).
Ci informa la quarta di copertina: “Aicha Bouabaci è nata a Saida, in Algeria. Trascorre l’infanzia e la giovinezza tra la sua città natale, Oran e Algeri, dove completa la sua formazione scolastica e gli studi universitari laureandosi in Lettere e in Giurisprudenza. Esordisce come autrice di poesie con la raccolta L’alba è nata sulle nostre labbra, pubblicato ad Algeri nel 1985. Nell’autunno del ‘94 lascia il suo paese e il suo lavoro per trasferirsi in Germania, seguendo, insieme ai figli, il marito [...]. Qui ha ricevuto nel 2006 il prestigioso riconoscimento di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere.
Le sue raccolte di racconti, come Pelle d’esilio. Algeria la speranza a rovescio e Racconti dell’arcobaleno, sono state pubblicate insieme a varie raccolte di poesie e saggi in Algeria, in Germania e Spagna. Il disordine umano raccontato a mio nipote è il primo romanzo di Aicha Bouabaci che esce in traduzione italiana.”
Il libro della Boubaci è un’arma culturale, “diversamente più offensiva del fucile”, come è scritto in un passo del racconto, contro le tendenze neofasciste e xenofobe, la paura e la diffidenza, diffuse nel senso comune, verso il gli immigrati accusati di “invadere” l’Occidente e rubare i posti di lavoro. Con le nuove leggi razziali, come la legge Bossi-Fini che alimenta la clandestinità, il decreto sicurezza che criminalizza gli immigrati, e l’ultimo provvedimento che vieta l’accesso per i giornalisti nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), i governi di centrodestra favoriscono l'instabilità sociale agli immigrati, ai quali magari si attribuisce anche la responsabilità della crisi economica. Il libro di Aicha Bouabaci è il racconto di un’ordinaria storia di respingimento, anzi di “tre espulsioni in una”: il padre, la madre, il bambino (Ibrahim, Ibtissam, Ilyès), tre “scomodi” innocenti travolti nel vortice della dialettica ordine/disordine. Ed è proprio intorno a questa dialettica che ruotano gli interrogativi e le riflessioni di Aicha che coinvolgono anche noi europei: “Il gioco dell’inclusione/esclusione è davvero l’unico modo in cui si può costruire la comunità umana moderna? E chi stabilisce cos’è Ordine e che cosa Disordine?” (dalla prefazione di Ada Donno).
La vicenda si svolge nella Germania dell’immigrazione più recente, dopo il crollo del muro, che ha modificato profondamente gli equilibri mondiali e aperto la strada alla restaurazione neoliberista degli anni ’90.
“C’era una volta… Yazid, piccolo mio, permettimi di raccontarti la storia triste di un bambino come te… All’inizio della sua storia, una vita serena e inondata d’amore.
Il 28 aprile 2000: Ilyès, un bambino mediterraneo e due volte africano, “vede la luce” sul suolo tedesco, accolto dapprima dalla gioia commossa dei suoi concittadini tedeschi. Questa terra è anche la sua. Questa destinazione per lui è naturale e spontanea. Nessun decreto gliela imposta. Nel suo passato di feto, non conosceva altre frontiere che quella del Mondo che si stava aprendo per lui senza un visto, senza dover fare la fila davanti a una cancelleria e senza diritti da pagare. Un’uscita e un’entrata in tutta complicità con sua madre e la Natura. Nascita non è una parola vana. Né una brutta parola. E’ un trionfo. Una Festa. Ma chi oserebbe guastare questa festa?”
Il libro è la narrazione di ciò che Rym, la madre di Ibtissam, torturata dalla mancanza di notizie, definisce la disgrazia più grande dell’essere respinti da una terra straniera nel momento in cui si era costruita onestamente una vita intera: aiuta a chiarire la percezione di un disordine fatto di indifferenza civile, guerra “permanente e preventiva” e della fame di popolazioni sterminate.
Frasi che hanno anche uno scopo pedagogico, dense di sapere antico, accompagnano le vicende raccontate:
“…bisognava non dimenticare che il disordine umano poteva sopraggiungere in qualsiasi momento” (la condizione di un bambino che nasce in un paese nel quale i suoi genitori sono immigrati e non ha diritto di considerarsi cittadino di quel paese);
“…Esiste anche l’Umanità dolce, non se ne dispiacciano i seminatori di disordine” (l’amicizia con l’amica Ulrike, la solidarietà, conforto e fortuna di Ibtissam);
“…bisognava continuare la lotta: cercare le voci sincere, le voci giuste. L’umanità non è sempre cieca, grazie a Dio!” (contro il respingimento di Ibrahim);
“…L’umanità intelligente può indubbiamente trovarsi davanti a qualsiasi porta!” (rifiuto di concedere la visita a Ibrahim in carcere);
“… Alla fine, un’umanità gioiosa anche in un luogo di miseria” (la visita in prigione).
E poi il rimpatrio forzato: “Per Ibrahim, il tempo era annullato davanti ai visi dagli sguardi taglienti che lo spogliavano della sua dignità. Rimanere stoico… Era necessario: non era solo. Non rispondere alle provocazioni. Era sospettato di tutto: egli era più volte transfuga. Aveva lasciato il suo paese. Non vi era più tornato da tanti anni. Aveva sposato una straniera…”
Il libro termina con le parole ancora rivolte a Yazid, il nipote dell’autrice, con un augurio che è anche un monito ad aprire gli occhi “alla vera vita”. In questo senso l’intero libro è un appello a “essere partigiani”, a reagire all’indifferenza, quella stessa indifferenza contro cui si scagliava Antonio Gramsci.
Annalisa Fantini
L’innocenza indecente
Sedici racconti di donne
Editrice Il Filo, 2010
Introduzione
di Ada Donno
Quell’ossimoro del titolo, nell’evidente contraddizione dei due termini, dei quali il primo è sostantivo e il secondo l’elemento che lo qualifica, allude al filo sottile che può collegare le vite spezzate, lontane fra loro nel tempo e nello spazio, di creature al margine, qualche volta in cammino verso la ricerca più o meno consapevole di sé, altre volte che s’interrogano del tutto smarrite. Possibile filo conduttore delle sedici narrazioni di Annalisa Fantini comprese nella raccolta.
Apparentemente non c’è alcuna relazione fra le sedici storie, se non fra due di esse, la settima e l’ottava. Non c’è neppure un ordine sequenziale, temporale o spaziale, fra i sedici racconti. Si presentano piuttosto come “brani di vite” giustapposti, su cui l’autrice con scrittura sobria, lucida, ma carica di tensione narrativa, focalizza l’attenzione, con l’immediatezza della narrazione breve, in qualche caso lasciata come in sospeso e quasi senza conclusione.
Un pregio della narrazione breve, diceva Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane, è quello di “inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo”.
Qui i luoghi sono, per ammissione della stessa autrice, quelli da lei visitati, taccuino alla mano, da giornalista. Per buona parte delle storie si tratta dei luoghi dell’immigrazione, della clandestinità, della “tratta” di donne approdate fortunosamente in Italia: a volte descritti dalla voce narrante, a volte solo nominati dagli stessi personaggi, ci suonano familiari perché negli ultimi vent’anni sono stati proposti con frequenza dai telegiornali alle nostre orecchie più o meno distratte. Sarajevo, l’Iraq, il Kossovo, i bombardamenti, la guerra, le fughe per mare e i drammatici approdi di una umanità dolente e sbattuta. In altri racconti troviamo invece luoghi che riconosciamo come “più nostri” - la Puglia, il Salento, l’Umbria, la Romagna – e che sono contesti fisici, ma anche paesaggi dell’anima, che la narratrice condivide con i suoi personaggi.
Inquadrature in esterno, dove riconosciamo ambienti e vicende che hanno attraversato il campo visivo della cronaca, sono lo sfondo all’interno del quale i personaggi femminili si muovono con passo talvolta indecente, il più delle volte innocente. Ma anche luoghi del ricordo penoso, della sofferenza e dell’abbrutimento morale, che la “brava giornalista” ha a suo tempo indagato, toccandoli quanto bastava per tirarne fuori il “pezzo”, senza potervisi addentrare, sicché tanta parte è rimasta nei taccuini riempiti di appunti non utilizzati.
Gli slittamenti dei piani temporali fra una storia e l’altra, i salti generazionali all’interno di una stessa storia, sembrano rimandare a “movimenti della mente” in cui presente e passato, vicino e lontano si sovrappongono, si inseguono, irrompono l’uno nell’altro senza potersi separare. La narratrice ci chiede di seguirla attraverso strati di diversa consistenza temporale per poter giungere al cuore di questa raccolta.
La giovane Hana, profuga da Sarajevo, e l’anziana Frau Ilse, sopravvissuta alla tragedia del nazismo, - in Dall’altra parte del ponte - non hanno in comune nulla, se non il caso che le fa incontrare in Italia e la percezione di trovarsi sulle due sponde opposte di un ponte sospeso sul nulla. Ma “basta attraversare il ponte e la gente che abita sull’altra sponda respira e ama come te”. Basta?
A Sarajevo, quasi tutte le culture dell’Europa convivevano senza urtarsi, prima che odi nazionalistici feroci e irrazionali frantumassero la polifonia delle culture che riempivano di senso la parola “jugoslavo”. Con effetti devastanti che le donne dei racconti sono in grado di mettere a fuoco – quando ci riescono - solo grazie alla distanza spaziale e critica che decidono di porre fra sé ed essi.
Ovunque, la guerra fa emergere ciò che di torbido sta nascosto nel cuore di ciascuno. La ferocia, la viltà, il meschino tornaconto di quelli che nella guerra – come scriveva Ivo Andric - “si arricchiscono e tappezzano le loro case con le sofferenze degli altri”.
“Mirja che odia le bambole” è la donna-bambina zingara fuggita dal Kossovo che si porta dentro il rimosso oscuro, così profondo da trasmettersi di madre in figlia, della demolizione degli affetti, delle notti e dei giorni trascorsi aggrappati a vecchi legni sbattuti dalle onde, respinti dalle diverse guardie costiere, prima di trovare accoglienza in Italia.
“L’innocenza indecente” che dà il titolo all’intera raccolta, è quella di Marjela, piccola albanese sfuggita alla bestialità della tratta e a un destino di prostituta coatta, a cui trova la possibilità di sottrarsi grazie all’aiuto di un’altra profuga più fortunata.
Caterina è la giovane contadina che, sullo sfondo della stagione contorta del mai compiuto sviluppo industriale salentino, vive insieme alle sue compagne la breve illusione dell’uscita dall’antico servaggio nella parentesi da operaia del calzaturificio clandestino in cui viene assunta e bestialmente sfruttata. Malvina è la vittima innocente del degrado sociale e morale, e di rancori familiari, in un’Italia del nord che forse non c’è più, o forse no.
Adriana è la donna-lupo che ricerca nel ritorno perverso ad un’animalità ancestrale il senso della vita che non sa trovare nell’ipocrita società borghese dell’Italia fascista. Mentre dall’altra parte sta Teresa staffetta partigiana che, di fronte alla minaccia, “torna a difendersi come l’istinto comanda” e insieme alla piccola comunità di donne, uomini e bambini di cui fa parte cerca riparo nelle nicchie e nei ricoveri sotterranei scavati come fanno gli animali per sfuggire ai predatori.
“La notte dell’anima” è invece la piccola grande storia di due donne che nella reciproca confessione della violenza sessuale subita da bambine scoprono il conforto di un’amicizia ritrovata…
Fra container sanitari, centri di accoglienza, putride baracche, ambienti della malavita appena camuffati, le donne dei racconti di Annalisa Fantini si muovono, prese a mezzo o straniate, quasi sempre vittime di conflitti interni inquadrati dentro conflitti esterni che sono storia recente, anche nostra.
In questi contesti la narratrice si addentra quanto basta per assistere al nascere, in mezzo al “lezzo di una umanità sporca di sudore e sfinimento”, di un sentimento di solidarietà femminile appena accennato, sul quale posa lo sguardo con discrezione, quasi con pudore. Sempre al di qua di una volontà di giudizio o di denuncia, è attratta dai moti dell’animo femminile suscitati dalle necessità e dal disagio, quando la fatica quotidiana del vivere schiaccia i sentimenti e il bisogno impoverisce gli affetti. La rabbia, la paura, il dolore, lo smarrimento (“ancora oggi attendo che un significato, almeno uno, prenda corpo e si manifesti”).
Non c’è, tuttavia, quella che la filosofa Luisa Muraro chiamerebbe la “rappresentazione miserabilistica” di una condizione umana femminile violentata e maltrattata. C’è piuttosto, al di qua della penna che annota, uno sguardo che sa vedere altro. Perché anche quando ogni cosa sembra macchiata, vengono alla luce sentimenti puri che restituiscono dignità.
Mettendo insieme frammenti di vite, alla fine della lettura risulta un universo femminile che, sì, vive la violenza come aspettativa normale di vita, ma riesce ancora a desiderare altro. E quel desiderio si esprime nelle forme più diverse.
La narrazione fluida ha poche incursioni riflessive dell’autrice nelle pieghe delle storie narrate: quante bastano, però, a rivelare la sua ricerca di venire a capo di un irrinunciabile “desiderio di conoscere i fatti delle donne”. E di raccontarli, per non negare loro la speranza.
Ciascuno di noi ha un taccuino di storie. Storie vissute o ascoltate che hanno riempito le pagine della nostra esistenza, ma che possono restare un insieme casuale di atti, episodi, esperienze di cui ci sfugge il senso. Oppure possiamo tentare di comporle in racconti, dando loro un inizio e una fine. Narrandole, possiamo dare un senso. Come Shahrazàd, che raccontò le mille e una storia che teneva a mente, componendole in un progetto di salvezza per sé e per la sorella Dunyazàd.
La narrazione aiuta a ricomporre in forma coerente le esperienze della vita e a dare ad esse senso. Le donne amano molto raccontare: di sé, delle altre, degli altri. “Al centro del mondo c’è un racconto”, amava ripetere Joyce Lussu, che fu grande narratrice di storie e di Storia. E aggiungeva che narrare è come “ritessere i fili della vita quotidiana lacerati dai traumi delle guerre e delle servitù, assicurando a tutti la continuità della sopravvivenza e della convivenza”.
Anche le esperienze di vita umana femminile raccolte da Annalisa Fantini sul suo taccuino di giornalista, nella narrazione trovano un’opportunità di essere collegate e finalizzate. Come nella favola del narratore africano e della cicogna, riferita da Karen Blixen nel romanzo La mia Africa. L’anonimo narratore africano racconta alla scrittrice la storia di un piccolo uomo che, svegliato di soprassalto da un rumore tremendo nel cuore della notte, si precipita fuori dalla sua casupola tonda e va alla ricerca della causa del rumore. Corre in su e in giù nel buio, casca e si rialza più volte, si dirige a nord e poi a sud, poi di nuovo a nord, inseguendo il rumore, in maniera apparentemente insensata.
Mentre descrive a parole i movimenti dell’uomo, il narratore africano disegna, tracciandole sul terreno, le strade da lui percorse. Finalmente l’ometto capisce che il rumore proviene da una falla apertasi nell’argine dello stagno e si affanna a ripararla. Dopo molto lavoro ci riesce e se ne può infine tornare a dormire. Il mattino dopo, affacciandosi alla finestrella tonda della sua casupola tonda, con grande meraviglia l’ometto vede… una cicogna! I suoi movimenti affannosi e apparentemente insensati nella notte hanno disegnato una cicogna. La cicogna è dunque il fine recondito per cui ha faticato nelle tenebre, superando tanti ostacoli. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna?”, si chiede la Blixen. Forse anche la nostra vita, sembra dire la scrittrice, è un insieme di movimenti al buio, apparentemente senza senso che, solo quando saranno composti in un racconto, alla fine tracceranno il disegno che darà senso alla narrazione. Chissà che, raccontando le storie di donne che hanno attraversato al buio mari, frontiere ed impervi passaggi d’epoca, inseguendo ricordi e possibili nuovi inizi, sbattute di qua e di là in una corsa apparentemente insensata verso una meta che forse non c’è, alla fine esse non trovino un senso. Chissà che i “movimenti della mente” che hanno accompagnato il racconto delle sedici storie di donne non generino un bellissimo disegno.
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Annalisa Fantini
L’istinto del pane
Prefazione di Alex Zanotelli
Lab/ Giulio Perrone editore 2011
Presentazione di
Ada Donno
Dopo la raccolta di racconti L’innocenza indecente, uscito un anno fa per l’editrice Il Filo, Annalisa Fantini è alla sua seconda prova di narrativa, con il romanzo L’istinto del pane, edito da LAB di Giulio Perrone nella collana Ulivi curata da Teresa Romano.
Storia d’amore e di guerra nell’Italia del ’44, si potrebbe sottotitolare, anche se in realtà il tempo della narrazione va dall’8 settembre del ‘43 alla liberazione d’Italia, fino alla nascita della repubblica. Ne è protagonista un giovane sottufficiale dell’esercito italiano, Emilio Raboni, che insieme ai suoi compagni d’arme vive drammaticamente il capovolgimento improvviso di alleanze militari seguito all’armistizio. Emilio aderisce come molti altri al CIL, il corpo italiano di liberazione che raccolse i militari che scelsero di essere aggregati agli alleati anglo-americani e furono inquadrati nell’Ottava armata britannica. Quest’ultima e la Quinta armata americana costituirono le forze alleate che risalirono l’Italia da Anzio verso la Linea Gotica, per congiungersi alle formazioni partigiane combattenti contro l’occupazione nazifascista.
Nell’ambito della vasta narrativa resistenziale, uno spazio non secondario ha quella femminile. Si tratta in gran parte di narrativa testimoniale, o comunque di narrazioni fatte da donne che quell’epoca e quell’esperienza le hanno realmente vissute. Tanto per citarne una fra le ultime, Pane nero di Miriam Mafai. Fra le più belle, L’Agnese va a morire di Renata Viganò e Fronti e frontiere di Joyce Lussu.
Suona perciò inconsueta e singolare la scelta di questa ambientazione da parte di una scrittrice che, per evidenti ragioni anagrafiche, quegli avvenimenti ha potuto solo leggerli, o sentirli raccontare. E infatti, la stessa autrice rivela di avere avuto una fonte primaria in suo padre, dei cui racconti di guerra si è nutrita fin dall’infanzia la sua fantasia. E’ capitato a tante e tanti di noi, generazione senza guerra. Anche se non tutti i nostri padri tornati dal fronte hanno avuto voglia di ricordare e non tutti i figli hanno avuto voglia di ascoltare: spesso è prevalso il bisogno di dimenticare, cosicché la guerra è diventato un rimosso tacitamente concordato, fatti salvi pochi episodi, accenni al “tempo della guerra”, divenuti parte del lessico e delle narrazioni familiari sempre più sbiadite nella memoria, mano a mano che i fatti si allontanavano nel tempo. Ma Annalisa Fantini aveva qualche ragione in più, come spiega nella postfazione al libro.
Protagonista di questo romanzo, dunque, è il giovane sottufficiale Raboni. Se per protagonista s’intende quel personaggio che in un romanzo è presente dalla prima pagina all’ultima.
In realtà sulla scena qui sono presenti diversi personaggi che condividono le stesse drammatiche vicende e ciò ne fa piuttosto un romanzo corale, storico e corale, che narra l’Italia divenuta crocevia di persone e lingue, nel quale s’incontra e si scontra un’umanità umiliata o feroce, fiduciosa o disperata. Tedeschi della Wermacht in ritirata, italiani del Corpo di liberazione, formazioni partigiane che si vanno organizzando, soldati inglesi, canadesi e americani, un’intera popolazione disorientata e sfinita da vent’anni di fascismo e dalla guerra. Uomini e donne al bivio. Che spesso faticano a comprendere, ma ciascuno dei quali è chiamato a compiere una scelta dalla quale dipenderà il proprio futuro individuale e quello collettivo. In aggiunta a questi, ma con un ruolo determinante nell’intreccio della vicenda narrata, un piccolo distaccamento femminile polacco, venti ausiliarie del Secondo corpo d’armata polacco in Italia, autiste e meccaniche con il compito di trasportare coi loro camion gli uomini che devono raggiungere il fronte.
I polacchi nella resistenza italiana
Il romanzo di Annalisa Fantini getta una luce inedita su questa presenza nella nostra guerra di liberazione dal nazifascismo, generalmente sottaciuta nelle ricostruzioni storiche. In generale, poco spazio è stato riservato al ruolo del secondo corpo d’armata polacco del generale Anders, che sbarcò a Taranto, Brindisi e Napoli, proveniente dal Medio Oriente dov’era stato costituito, e si distinse in azioni di indubbio coraggio nella guerra di resistenza (memorabile il contributo dato dai combattenti polacchi a Monte Cassino e innegabile il merito di essere stati i primi ad entrare in Bologna liberata).
In genere la maggiore enfasi, nella letteratura e anche nella cinematografia di guerra, è stata posta sulla presenza americana. Probabilmente perché, come scrisse Carlo Levi, gli americani “erano giovani e ricchi e allegri e venivano dall’altro mondo, dal mondo di là dal mare, dal paese sognato della fortuna, e la fortuna portavano con sé”. Ma anche per altre ragioni che solo nelle ricostruzioni storiche più recenti sono state adeguatamente illuminate: terminata la guerra, mentre gli italiani affrontavano con fatica il difficile cammino di ricomposizione unitaria, il governo della neonata repubblica doveva destreggiarsi tra i nuovi equilibri politici e diplomatici internazionali. Gli uomini del secondo corpo polacco rimasti in riserva dell’esercito britannico in Puglia, nelle Marche ed in Emilia Romagna, continuando a considerarsi forza armata del governo polacco in esilio, in contrapposizione a quello socialista integrato nella sfera d’influenza sovietica, finirono col diventare una presenza imbarazzante e scomoda per tutti.
Ma tutto questo è ancora di là da venire nel romanzo, nel quale le storie personali dei vari personaggi (il tormentato capitano Arditti, l’equilibrato e paterno Respighi, il faceto sergente Melodia, le dolci ausiliarie polacche Annelise e Wioleta con le loro compagne camioniste, la concreta comandante partigiana Lev ed altri ancora) s’intrecciano stabilendo simmetrie e asimmetrie sullo sfondo di una complessa vicenda storica che per un tratto accomuna i differenti destini.
Il pane della vita
Emerge, come già detto, la figura di Emilio Raboni, di cui seguiamo il percorso che lo condurrà, da militare convinto della propria missione, attraverso le vicissitudini di una guerra crudele (ma tutte le guerre sono crudeli) e attraverso un legame d’amore appena accennato, alla determinazione di lasciare l’esercito e diventare un uomo di pace.
Nella sua bella prefazione Alex Zanotelli sottolinea il senso di questo percorso. Che cosa conduce Raboni fino a questa scelta finale? Una scia profumata, il ricordo e l’emozione che suscita in lui il pane bianco, che da quando è iniziata la guerra gli manca più d’ogni altra cosa, e che egli cerca, fiuta e segue istintivamente. L’istinto del pane agisce in lui, scandito nel racconto in tre macrosequenze, l’odore, il colore, il sapore del pane, come una scia odorosa che dapprima si confonde col sentimento d’amore (o forse soltanto un sogno d’amore) verso la bionda ausiliaria Annelise, e poi con l’affermarsi prepotente dell’istinto vitale sul senso di morte che lo circonda.
Come il filo d’Arianna, il pane bianco diventa così il simbolo forte che gli consente di liberare la forza vitale che sente in sé, dopo avere eliminato il mostro che è nel labirinto.
E a questo punto, il pane bianco diventa, come la Provvidenza manzoniana, il vero protagonista del racconto.
Guerra e pace
Nella sua narrazione l’autrice tocca con leggerezza alcuni temi profondi (che vengono da lei esplicitati nella postfazione) che affida alla nostra riflessione di lettori: esiste l’istinto della guerra? E’ ineluttabile che nelle relazioni umane prevalga l’istinto di violenza e sopraffazione? O non è più forte invece l’istinto di pace e di solidarietà coi propri simili? Purché si sappia riconoscerlo e affidarsi ad esso, liberandosi di millenarie costruzioni che hanno portato l’umanità sull’orlo del baratro dell’autodistruzione? Alex Zanotelli risponde fiducioso di sì: il desiderio di condividere il pane è l’autentica pulsione ancestrale alla quale l’essere umano deve abbandonarsi se vuole avere un futuro. Non a caso la condivisione del pane ha tanta parte nel messaggio evangelico, dice.
Anche Annalisa Fantini desidera rispondere di sì. Non esistono guerre giuste né umanitarie, dice.
Ricordo un dibattito acceso nei movimenti delle donne negli anni ‘80. Riprendendo il grido di Bertha von Suttner dicevamo: fuori la guerra dalla storia! Con la Cassandra di Christa Wolf scrivevamo: fra uccidere e morire, scegliamo di vivere. Gridavamo il nostro rifiuto dei missili nucleari dicendo : noi donne diamo la vita e per questo rifiutiamo di dare la morte. Ma era/è davvero così? L’istinto della vita preserva noi donne dal dare la morte? E per questo è condizione sufficiente che le donne siano cooptate alla direzione politica della società?
Non era/è così semplice. Infatti c’erano altre soggiogate dalla scienza esatta persuasa allo sterminio, come dice il poeta. Altre, persuase alle guerre umanitarie (che ossimoro vizioso!). Altre ancora, indifferenti.
Non è semplice. Ci sono di mezzo troppe costruzioni. Fra le faticose costruzioni della società patriarcale ci sono state le ideologie e modelli che hanno legittimato il dominio dell’uomo sulla donna. E la donna per millenni, a sua volta, si è descritta debole e sottomessa, pur sapendo di non esserlo.
Con l’emancipazione degli ultimi decenni, tuttavia, si è creata una confusione e le donne emancipate si sono fatte cooptare negli eserciti, che sono addestrati alla guerra. E’ una vera conquista? Vera conquista sarebbe cambiare la società umana in modo così radicale che non abbia più bisogno di eserciti e di guerre. Gisella Floreanini, Carla Capponi, Joyce Lussu e le altre partigiane combattenti ricordavano sempre che avevano imbracciato i fucili ad una condizione giurata nell’intimo: che quella sarebbe stata l’ultima guerra. E invece ce ne sono state altre centoquindici dopo di quella, ricorda Alex Zanotelli.
Forse affidarsi all’istinto individuale del pane non basta. Occorre lavorare e lavorare insieme alla de-costruzione di quell’ordine e quel pensiero incardinato nella cultura patriarcale che considera la guerra una componente primordiale dell’essere, una forza archetipica, un rito sacrificale che porta il segno della “fatale necessità”. E lavorare alla ri-costruzione di un ordine ed un pensiero diversi che propongano strategie di vita e non prevedano come scelte accettabili di sopraffare con la violenza l’altro, si tratti di violenza armata o di altro tipo, né di togliergli il pane per accumularlo nelle proprie dispense, né di dare la morte per appropriarsi del pane altrui. Un pensiero liberato che elimini la guerra dalle coscienze, come il mostro del labirinto.
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L’ossimoro virtuoso
Strategie di pace delle donne nel Mediterraneo
Atti dell’XI conferenza internazionale dell’AWMR
Bologna-Monte Sole, 10/13 luglio 2003
A cura di Ada Donno e Viviana Ingrosso
Foto di Marinella Vadacca e Maire O’Hara
© AWMR Italia 2005
pagg.192 - € 10,00
Nel volume sono raccolti gli atti dell’undicesima conferenza internazionale dell’Awmr, tenutasi nell’estate del 2003 a Monte Sole, luogo prescelto perché suggestivo e anche fortemente simbolico. Definita anche “conferenza itinerante”, perché alcune sessioni di essa si sono svolte a Bologna, Ferrara, Forlì e Rimini, la conferenza è stata di un vero laboratorio di dialogo fra donne provenienti da diverse parti d’Italia, Israele, Palestina, Algeria, Marocco, Sahara Occidentale, Malta, Cipro, Serbia, Bulgaria, Francia, Spagna, dagli Stati Uniti e dal Nord Europa, nel quale le partecipanti hanno potuto verificare come le differenze culturali, nazionali e di genere costituiscano una risorsa e non un limite alla ricerca di percorsi comuni di giustizia, uguaglianza e pace.
Poiché le lingue di lavoro della conferenza sono state l’italiano, l’inglese e il francese, le curatrici hanno scelto di lasciare le relazioni nella lingua in cui sono state presentate dalle relatrici. Quelle presentate in francese e inglese sono seguite dalla traduzione italiana.
Si può richiedere il volume scrivendo a: ada.donno@alice.it
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prefazione
Un ossimoro entrato nell’uso comune
di Ada Donno
Strategia è una parola che evoca immagini di eserciti e battaglie. La locuzione “strategie di pace” è perciò un accostamento di termini antitetici. E’ un ossimoro. La guerra è fin dalla notte dei tempi un’attività cui sono deputati gli uomini. Dunque, parlare di strategie di pace delle donne parrebbe paradossale.
Eppure la pratica femminile di questo luogo “ottusamente acuto” sembra essere antica, come dimostra Lisistrata. Ella e le sue compagne tentano, infatti, attraverso la sottrazione di sé e del loro corpo, di incidere nel meccanismo di una realtà - la guerra - di cui non condividono il senso. Mentre, però, Aristofane nella sua commedia vuole contenere e rappresentare il paradosso, la straordinarietà, l’eccesso femminile, col tempo la ricerca di strategie di pace da parte delle donne ha finito con l’entrare nell’ordine delle cose. Fino a diventare senso comune, dopo avere attraversato le modalità più diverse: le dimostrazioni clamorose e le veglie silenziose; le rivolte segrete e il silenzio portato fuori dalla casa per dare ad esso un nuovo senso; la riflessione sull’inespresso differente senso dentro di sé e la parola ostinata nel mondo; l’azzardo di ipotesi politiche di ordine diverso, capaci di modificare i meccanismi della realtà di cui le donne non condividono il senso, perché non l’hanno costruito né voluto.
Per noi generazioni di donne europee nate dopo il secondo conflitto mondiale, la guerra è stata dapprima un non vissuto evocato dai racconti delle nostre madri; poi un fragore lontano, risonante da latitudini remote nelle nostre giovani coscienze in formazione. Negli anni dei missili, infine, davanti ai cancelli di Comiso e Greenham Common, abbiamo gridato “fuori la guerra dalla storia” e da lì è ripartito un discorso che muoveva dal bisogno di renderci conto, di riandare fra testimonianze e memorie in cerca di parole di donne sulle ragioni dei conflitti, di inventare quello che “le donne con le donne possono fare” per contribuire a risolverli. Di costruire, infine, momenti e luoghi politici in cui far crescere una nuova consapevolezza di quanto nell’universo femminile costituisce risorsa, opportunità, forza di cambiamento.
Ho vivo il ricordo di un convegno internazionale sulle strategie di donne per la pace, nella Sala della Protomoteca del Campidoglio, a Roma, nel marzo 1983. Nel programma si auspicava, fra le altre cose, di “prefigurare nel concreto l’utopia necessaria di una società in grado di svilupparsi e progredire senza guerre, perché l’umanità non può più permettersi il mito della forza militare come mezzo per risolvere i conflitti”.
Fu un’esperienza importante, che diede risultati sia sul piano dei contenuti che dei “canali di comunicazione permanenti” che si riuscì a stabilire con altre donne in Europa, comprese quelle d’oltre cortina, come si diceva allora. Servì a tutte, nel panorama - e anche nella confusione creativa - dei linguaggi, ad orientarci e definirci come donne per la pace. E servì a riprendere il lavoro di costruzione di una tradizione politica delle donne fondata dalle nostra madri, che la guerra l’avevano vissuta e vi avevano preso parte con la divisa partigiana, giurando che sarebbe stata l’ultima, perché nelle loro speranze avrebbe partorito cambiamento, rapporti umani differenti, rapporti tra i popoli differenti.
Ma poi la guerra l’abbiamo sentita alitare su di noi sempre più vicina e possibile, finché le bombe su Belgrado non ce l’hanno riportata fin sulla porta di casa. Ed è ridiventato urgente il nostro discorso sulla guerra, la ricerca di dare forma a un’idea di pace che possa diventare cultura ed esperienza delle generazioni future.
Le donne da sempre respingono ogni pensiero giustificativo della guerra. Sanno confutarlo e perfino metterlo in ridicolo. Come fa qui Aicha Bouabaci, quando mette a nudo il potere patriarcale che circonfonde la guerra di un’aureola di giustificazioni gloriose e “prepara come per una festa la comunità, unita dietro ai suoi soldati come alla squadra di calcio”.
Ma ciascuna e tutte insieme dobbiamo ancora trovare una risposta alla domanda: che fare, che fare, oltre ad augurarci che resti scritto da qualche parte che questa guerra, o quella, o quell’altra ancora, noi non l’abbiamo voluta “perché non avremmo potuto neppure pensarla”?
Quali strategie di pace - per usare l’ossimoro divenuto d’uso comune - possono portare avanti oggi le donne? E’ possibile impedire che la guerra, con le false giustificazioni della “ingerenza umanitaria”, o della “prevenzione”, o addirittura della “imposizione democratica”, s’imponga infine come progetto operativo di una sola superpotenza mondiale, dopo la caduta del sistema bipolare che ha retto gli equilibri mondiali nella seconda metà del ‘900? E’ possibile fondare i processi di mondializzazione sui bisogni e le dignità individuali e collettive, sulle diversità culturali, sui diritti umani senza discriminazioni sociali, nazionali, etniche o di genere?
Quando decidemmo di costituire l’Awmr nel ’92, a Malta, c’era stata la prima guerra del Golfo: le bombe su Bagdad ci avevano lasciate stordite e attonite. Era durata poco l’illusione che la fine del mondo bipolare e della guerra fredda avrebbe portato una svolta verso una pacificazione globale. Avevamo in mente di definire un luogo di donne che costruiscono un progetto politico comune, muovendo da diverse esperienze e appartenenze, navigando attraverso il genere femminile della regione mediterranea, tra l’ineguale distribuzione dei diritti, tra sviluppo e sottosviluppo, contraddizioni strutturali, diversità culturali, conflitti. Uno spazio di donne non come“rifugio gioioso dalla politica”, ma come luogo a partire dal quale si forma la critica della politica e si fa pratica del cambiamento.
Ma dopo il fatidico 11 settembre 2001 molte cose sono cambiate, non solo nel panorama politico internazionale, ma anche nel nostro vivere quotidiano. Guerra e terrorismo sono diventati un binomio che, attraverso il telegiornale acceso distrattamente sui nostri pranzi e cene, ci rimanda immagini che hanno cessato perfino di suscitare orrore, nella loro ordinaria quotidianità di sangue e di morte. Quanti conflitti insanguinano il mondo? Eppure non possiamo - non vogliamo - smettere mai di evocare, con Owen, l’insopportabilità della guerra.
L’ipotesi su cui andiamo ragionando è che costruire nuovi rapporti internazionali basati sulle relazioni pacifiche fra le persone e gli stati, emancipati dalla violenza e dalla povertà, dallo sfruttamento e dalla discriminazione, non solo è possibile, ma è anzi una necessità di sopravvivenza per il genere umano.
Ma come tradurre un astratto possibile in un reale concreto, nello scenario mediterraneo, dove il nuovo ordine imperiale si sovrappone alle stratificazioni di vecchi ordini coloniali e feudali, e sulla scena bruciano conflitti irrisolti come quello palestinese-israeliano, mentre nell’ex Jugoslavia si raccolgono i frantumi recenti della guerra, dei massacri, degli stupri etnici e delle deportazioni?
Come reagire all’ultimo atto, la seconda guerra contro l’Iraq, concepita per fondare le condizioni di un nuovo (nuovo?) ordine militaristico e autoritario mondiale che stracci gli strumenti giuridici e istituzionali che hanno sostenuto l’utopia delle nostre madri partigiane: cancellare l’istituto della guerra dal diritto internazionale?
Ci siamo ritrovate a discuterne a Monte Sole, nell’undicesima conferenza internazionale dell’Associazione Donne della Regione Mediterranea. Il luogo è stato da noi scelto sia per il suo significato fortemente evocativo degli orrori della guerra, che per l’intensa attività che vi svolge oggi la Scuola di Pace.
Donne provenienti da 15 paesi diversi, ci siamo confrontate nel corso delle tre giornate su temi come disarmo, trattati e strategie negoziali per una nuova sicurezza; terrorismo e globalizzazione; strategie di pace delle reti di donne a livello locale, nazionale e internazionale; ruolo dell’Europa e delle istituzioni internazionali nella costruzione di nuove relazioni pacifiche e di cooperazione. Il tutto in un’ottica mediterranea e di genere.
Alcune sessioni della conferenza sono state ospitate dalle città di Bologna, Ferrara, Forlì e Rimini, dove le partecipanti hanno avuto la possibilità di incontrarsi con associazioni ed istituzioni locali.
La risoluzione finale scaturita dalla conferenza traccia le linee guida dell’attività futura dell’Awmr sui temi della guerra e della pace. Le altre risoluzioni riguardanti specifiche situazioni di conflitti in atto nell’area mediterranea - Palestina/Israele, Kurdistan, Sahara Occidentale, Algeria, Cipro - dicono del punto d’incontro raggiunto, talvolta faticosamente.
Non è facile e non sempre si riesce, pur essendo animate da intenti comuni. Gli ostacoli sono fuori di noi e anche dentro di noi. A Monte Sole è accaduto che le palestinesi dei Territori Occupati non potessero essere presenti perché non hanno ottenuto l’autorizzazione dalle autorità israeliane. Tuttavia le loro ragioni sono state rappresentate dalle altre donne: arabe, europee e perfino israeliane.
Ma è anche accaduto che le posizioni della rappresentante del Polisario e della relatrice che veniva dal Marocco, sul problema dei profughi Sahrawi, fossero così inconciliabili da indurre la seconda ad allontanarsi dalla conferenza. Uno scacco? Una frattura irrimediabile? Oppure una momentanea sospensione del discorso, in attesa di ulteriore riflessione? La risoluzione votata infine all’unanimità dalle altre partecipanti, dice comunque lo sforzo di tentare una via di accordo, pur nella fermezza dei principi.
Radicando le sue conferenze in contesti diversi anno per anno, da oltre un decennio l’Association of Women of the Mediterranean Region organizza i suoi incontri come tappe della costruzione di un discorso ininterrotto sulla pace e sulla guerra.
Fanno parte integrante di questa costruzione l’elaborazione di un pensiero critico, le analisi delle situazioni concrete, le azioni concrete che le donne sviluppano. Ne fa parte il rigetto dei nazionalismi, dei fanatismi religiosi, del fascismo e del terrorismo, come traspare dalla preoccupata attenzione alla relazione fra Islam e Occidente presente in molti interventi.
Ne fa parte l’appassionata attenzione ai processi educativi e al ruolo primario che le donne possono giocare in un’educazione sostenuta dall’idea di pace. “Mio figlio soldato dell’intelligence israeliana - racconta Nava Elyashar - porta una maglietta con su scritto: Il mio lavoro è così segreto che neanche io so quello che sto facendo”. E aggiunge preoccupata: “Per la maggior parte degli israeliani questo non è uno scherzo. Se i bambini israeliani e palestinesi non conoscono altre strade perché sono nati nella guerra, tocca a noi insegnare loro che senza la guerra la vita può essere migliore”.
E questa non è per niente una ovvietà, in quel contesto.
Ma certo non basta. Bisogna analizzare il mondo. Chiedersi che cos’è che non ha funzionato nel secolo che ha conosciuto due guerre mondiali e decine di altre guerre in posti più o meno lontani dal Mediterraneo, analizzare l’influenza che il militarismo e in generale gli apparati bellici hanno sui sistemi produttivi e sull’economia. Leggere l’ineguale sviluppo del pianeta, lo scarto nord/sud, il mercato che crea le ricchezze ma le distribuisce male, i termini dello scambio manipolati, come dice Khadija Al Feddy.
Bisogna misurarsi con l’economia. Le donne, nella loro posizione di marginalità economica e sociale, avvertono il grave pericolo di distruzione delle risorse e delle diversità insito nell’idea stessa di riduzione del Pianeta a mercato unico.
Bisogna stare dentro le cose e avere la solidarietà nella testa, dice Nadezda Cetkovic. Guardare dentro di sé per “sentire le proprie ossa”, insiste Aicha Bouabaci.
Dall’analisi della realtà del mondo e dalla riflessione sull’esperienza storica e attuale del proprio genere, le donne possono trarre capacità di leggere criticamente la realtà e anche forza per cambiarla. Perché certe donne pensano di essere più credibili se si comportano da uomini? si chiede Anna Mallia. E perché - aggiunge argutamente Giancarla Codrignani - porre avanti la relazione delle donne col mondo ancora “urta”?
Bisogna opporre un punto di vista di genere anche a quel concetto di sicurezza, disegnato sulla vecchia concezione della “fortezza Europa”, di tipo poliziesco e militare, che preferisce marginalizzare le tensioni e chiudere i confini. Per dire invece che alla base di una vera sicurezza c’è l’uguaglianza dei diritti umani e dei diritti delle donne: che sono civili e politici, ma anche riproduttivi (sottolinea Cristina Nieto), di accesso alle risorse, al lavoro, alla salute, all’educazione. Per dire infine che dobbiamo operare per raggiungere una “cultura del diritto condivisa”, come propone Magda Tomei, ma essendo consapevoli che la democrazia dell’Occidente non risolverà tutti i problemi perché non può contenerli tutti, come avverte Nazli Ciftci.
E dopo esserci prese qualche istante per riflettere sulle dinamiche che spingono verso le guerre, bisogna cercare su quali capacità di opposizione e di proposizione si può lavorare nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e altrove.
Possiamo lavorare sui parlamenti e sui governi, possiamo lavorare sulle istituzioni internazionali: per Yana Mintoff, la maggiore questione di fronte alla quale si troverà la maggior parte dei governi mediterranei nei prossimi anni è se essere un accolito del militarismo Usa-Israele o essere un buon vicino neutrale; per Arlette Cavillon, occorre giocare la carta della Costituzione Europea, nella quale si dichiari esplicitamente che l’asse centrale della politica estera europea è il ripudio della guerra, il sostegno al ruolo delle Nazioni Unite e della loro Carta come strumento esclusivo di regolazione delle controversie internazionali; per Heidi Meinzolt, occorre puntare sui documenti sottoscritti internazionalmente per raccomandare percentuali paritarie di donne nelle missioni di pace e nei processi negoziali: la risoluzione 1325 votata nell’ottobre 2000 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la risoluzione del parlamento europeo del novembre 2000, la dichiarazione del Consiglio Europeo del settembre 2001, e via raccomandando.
Insomma, per tre giorni interi ci siamo poste domande e abbiamo cercato risposte che fossero supportate da esperienze significative di percorsi individuali di donne nelle istituzioni locali e nazionali, o collettivi di associazioni che interloquiscono autorevolmente con le istituzioni internazionali da postazioni diverse. Testimonianze e riflessioni si sono alternate ed è stato un vero laboratorio di dialogo, come recita il comunicato finale della conferenza, nel quale tutte noi abbiamo voluto verificare come le differenze culturali, nazionali e di genere possono costituire una risorsa e non un limite nella ricerca di percorsi comuni di pace.
ALBANIA AMARA. Visita a Nexhmije Hoxha in carcere (Pietre, Lecce 1996)
Dopo due anni di
ostinati tentativi, istanze, petizioni, appelli, il 12 aprile 1996 Caterina
Gerardi ed io siamo infine riuscite ad incontrare Nexhmije Hoxha, detenuta nel carcere femminile 313 di Tirana. Questo è il
racconto del nostro colloquio.
di Ada Donno
Non dico le difficoltà, gli ostacoli, i rifiuti
arroganti, i rinvii pretestuosi prima di ottenere l’autorizzazione per questo
colloquio: comincio da qui, dal cancello dello scalcinato grumolo di capannoni
in un recinto di muro e filo spinato, che chiamano «istituto di rieducazione».
Così c’è scritto sul cancello. Siamo in tre: Caterina, io e la figlia di
Nexhmije, Pranvera, che ha ottenuto di accompagnarci.
«Più che un carcere, sembra un pollaio», commenta
Caterina caustica. Se non fosse per le due sentinelle armate di mitraglietta,
nelle garitte sopra il muro.
Sopra il cancello s’indovina ancora una vecchia
scritta inneggiante al Partito del Lavoro. A lato, scavalcato un rigagnolo
fangoso, c’è uno stambugio che funge da sala d’attesa, dove entriamo e ci
mettiamo in fila.
Attraverso uno sportello di legno nel muro, un uomo di
mezza età in uniforme verde controlla i nostri documenti con lentezza. Ci
disponiamo ad aspettare. Nessuno sembra in grado di dirci quanto bisognerà
aspettare, ma nessuno sembra neanche preoccuparsi di saperlo. Ci sono altre
persone, donne per lo più, cariche di borse di tela o di plastica, con le
provviste alimentari per i loro carcerati. Nella sua, Pranvera porta invece un
grosso pacco di giornali, i quotidiani dell’ultima settimana.
Pranvera scambia parole di saluto con quelli che
arrivano; a qualcuna spiega, rispondendo a domande mute, che siamo «amiche
italiane di Nezhmije». A noi indica con discrezione un uomo di mezza età,
distinto, vestito di scuro: è il marito di Lenka Ciuko – ci dice – ex dirigente
del Partito del Lavoro, anch’essa detenuta qui.
Nexhmije e lei sono le sole “politiche”, sulle
trentuno donne rinchiuse in questo carcere 313 di Tirana. Le “comuni” scontano
per lo più condanne per omicidio: alcune hanno ucciso il marito, e generalmente
si tratta della conclusione tragica di brutte storie di soprusi e violenze in
famiglia. Ma di qualcuna si dice che si sia autoaccusata di omicidio al posto
di un uomo della famiglia – il marito, il fratello, il padre – contando
sull’indulgenza della legge nei confronti delle donne. Non è cosa infrequente
in Albania – ci dicono – e c’è da credere che lo sarà sempre meno, ora che,
nello sfacelo delle istituzioni statali, va riemergendo la “legge del Kanun”,
dei clan e delle faide, specialmente nel nord del Paese.
Finalmente il cancello si apre per farci entrare. A
ridosso del muro di cinta, prima di attraversare lo spiazzo sterrato di
fanghiglia e pietre che ci separa da un secondo cancello, c’è un altro
bugigattolo dove veniamo condotte da due giovani donne in divisa, che ci
sottopongono a perquisizione: ci svuotano le borse, ci fanno rovesciare le
tasche, ci palpano. Requisiscono tutto quello che «è vietato dal regolamento»,
comprese forbicette e compresse di Maalox. Sulle macchine fotografiche si apre
una discussione. Caterina è molto contrariata, contesta che abbiamo il diritto
di documentare l’incontro, dice che protesterà col direttore del carcere. Le
secondine sembrano un
po’ sorprese dall’inaspettata reazione, ma mantengono la faccia immobile del
diniego. Non c’è niente da fare.
Nexhmije è stata informata della nostra visita
all’ultimo momento. Di fatto, ci ha spiegato Pranvera, non c’è possibilità di
comunicare con lei se non nei colloqui di mezz’ora che sono permessi ai
familiari, quattro volte al mese. Niente telefonate e, quanto alla posta, il
più delle volte finisce “smarrita”, in entrata o in uscita.
Di là dal secondo cancello, Nexhmije ci sorride e
accenna un saluto, infagottata in un impermeabile grigio, aspettando in fila
con altre detenute.
Dobbiamo sostenere un’altra mortificante discussione
sulla durata del colloquio. Questa volta però otteniamo qualche minuto in più.
Poi, finalmente, eccoci nel “parlatorio”, una stanzina col pavimento di
cemento, il soffitto di eternit, quattro scanni lungo i muri e due finestrelle
coi vetri rotti.
Prendiamo posto in un angolo, noi due di fronte a
Nexhmije, Pranvera un po’ più discosta.
Nexhmije ci tiene le mani nelle sue, mentre si svolge
il piccolo cerimoniale dei saluti: noi le portiamo quelli della Women’s International League for Peace and
Freedom e della presidente internazionale Edith Ballantyne, dell’Associazione
di donne della Regione Mediterranea, del Centro Gramsci e del Comitato italiano
di solidarietà, insieme all’augurio di tutti di rivederla presto libera.
Lei ricambia i saluti e ringrazia «tutte le amiche e
gli amici italiani che hanno fatto tanto».
Di fronte a noi, sotto la finestrella coi vetri rotti,
la giovane secondina esegue, un po’ imbarazzata, l’ordine di non perdere un
gesto. Nexhmije è visibilmente felice, continua a sorridere e a tenerci le mani
mentre s’informa di noi, dell’Italia, degli amici e compagni, di altre
conoscenze comuni. Parla a voce bassa, il suo italiano è fluente: quando
qualche termine le sfugge, si rivolge a Pranvera, impercettibilmente. Ci
rassicura sulle sue condizioni di salute: sì, sta bene – ci dice – per quanto
possa stare bene in carcere una donna della sua età.
IL “PROCESSO DEI CAFFÈ”
Nexhmije è detenuta dal dicembre 1991: da quando,
cioè, fu arrestata per ordine del procuratore Mosko, con l’accusa di non meglio
precisati «reati contro la proprietà dello Stato».
Trascorse quasi un anno in totale isolamento,
costretta a dormire per terra in una cella di poco più di due metri, senz’acqua
né servizi, prima di sapere che cosa precisamente le venisse imputato. In fase
istruttoria i capi d’accusa cambiarono tre volte. Infine le venne contestata,
sulla base di una legge ch’era stata varata dopo il suo arresto, una
«appropriazione indebita di fondi statali».
In dettaglio, la sua colpa sarebbe stata quella di
avere mal speso, fra il 1985 e il 1990, anni in cui era presidente del Fronte
democratico, denaro pubblico per una somma equivalente a pochi milioni di lire,
al valore attuale.
In Albania lo chiamano ancora «il processo dei caffè»,
alludendo al fatto che le «spese indebite» contestate a Nexhmije, stringi
stringi, si riferivano ai caffè e pasticcini da lei offerti, nel corso di
cinque anni, agli ospiti albanesi e stranieri che si recavano a farle visita
come vedova di Enver Hoxha.
Accuse risibili, da lei stessa confutate con fermezza
ed intransigenza nel corso del processo: fu costretta infatti a difendersi da
sola, assistita soltanto da un avvocato d’ufficio, poiché con pressioni e
minacce fu impedita la formazione di un collegio di difesa.
«Questo – dichiarò Nexhmije fin dalla prima udienza –
è un processo politico». Fu questa la sua linea di difesa e, d’altra parte, era
voce diffusa in Albania che il suo arresto fosse stata la condizione imposta
dal Partito democratico per mantenere l’appoggio al governo di allora,
presieduto dall’ex comunista Bui, poi passato ai socialisti.
Il processo parve una farsa grottesca perfino ai suoi
avversari politici: decine di testimonianze del tutto improbabili furono
prodotte dall’accusa in udienze interminabili, trasmesse in diretta TV, perché
raccontassero al pubblico vorace la storia trista dei lussi e gli sfarzi della
famiglia Hoxha, e di Nexhmije in particolare. Ma dalla massa melmosa di accuse
e smentite, reticenze e ritrattazioni, una cosa emerse con evidenza e fu la
forza indomita di una donna che con grande dignità difendeva se stessa e il
proprio passato, denunciando, a sua volta, la natura persecutoria di un
processo politico mascherato.
Fu condannata dapprima a nove anni di carcere e poi,
in appello, a undici, senza che fosse stata cambiata una virgola nell’atto
d’accusa. Con quella condanna – fu il commento amaro di Nexhmije – si consumava
la vendetta degli antichi avversari, i collaborazionisti del Balli Kombëtar e i
Bey feudatari che, cinquant’anni prima, quando era impavida dirigente della
gioventù antifascista albanese, l’avevano condannata contumace a tredici anni
di carcere, senza però riuscire a metterle «le manette ai polsi», perché nel
frattempo era entrata nella resistenza clandestina.
LA SOLIDARIETÀ
INTERNAZIONALE
Appena si diffuse la notizia, si andò formando
internazionalmente un movimento di solidarietà: comitati in sua difesa sorsero
a Roma, a Mosca, in Canada, in Brasile, a Londra e perfino in India, per
denunciare le illegalità del processo e le palesi violazioni dei diritti
umanitari. Intervennero alcuni noti giuristi, fra i quali Mario Lana,
presidente dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani. Del caso si
occupò Amnesty International e
Nexhmije ricevette in carcere la visita di Gerald Nagler, segretario generale
dell’International Helsinki Federation
for Human Rights. La WILPF Italia le offrì la membership onoraria dell’associazione e s’impegnò a portare il suo
caso dinanzi alla Commissione per i diritti Umani delle Nazioni Unite, a
Ginevra.
Degli anni di prigionia Nexhmije conserva ogni cosa:
carte, appunti, lettere, documenti. Forse ne verrà fuori una pubblicazione: «Le mie prigioni», allude sorridendo. Ma
ha in programma anche altro. Vorrebbe completare il libro delle sue memorie,
delle quali è stato già pubblicato un capitolo, quello che narra i giorni della
morte di Enver (una traduzione in italiano è stata curata dalla WILPF e sarà
pubblicata), uno squarcio di sofferta intima umanità in una vicenda di pubblico
dominio.
È molto attenta a quello che accade fuori. La inquieta
molto – dice – la violenta campagna repressiva di Sali Berisha e del suo
“partito democratico” contro i presunti responsabili di “genocidio”. È un
grande dolore per lei la morte in carcere del vecchio partigiano Shefqet Peci,
ma lo considera anche il segno tremendo di ciò che si prepara contro tutta l’attuale
opposizione di sinistra. Molti sono convinti in Albania, tuttavia, che alle
prossime elezioni di maggio Berisha perderà, travolto dalla corruzione e dallo
sfascio politico e sociale che lui stesso ha provocato. Ma proprio per questo –
dice – diventa ogni giorno più aggressivo. Pochi anni di “capitalismo
selvaggio” hanno ridotto l’Albania una terra di rapina neocoloniale, in balia
di speculatori, mafiosi e ladri d’ogni risma e provenienza.
«Non riesco a guardare la televisione – mormora Nexhmije
abbassando la voce – le menzogne che raccontano su mio marito (qui dentro non lo
posso nominare) mi fanno stare male. Ma il popolo è deluso da questi
“democratici” e la delusione aiuta a capire».
«VORREI SCRIVERE A
SILVIA BARALDINI»
Qualcuno, sui giornali, l’ha chiamata “Pantera nera”.
Qualcun altro che l’ha intervistata, l’ha descritta come “donna severa, dallo
sguardo pungente”. Ma noi non troviamo in lei durezza alcuna, piuttosto
un’attitudine ad essere risoluta, questo sì. E c’è in lei un senso del ruolo
che la colloca in alto rispetto alla tragedia dell’Albania, al di sopra della
miseria che la circonda, del fango, delle piccole angustie quotidiane della
detenzione.
Ci racconta la sua sofferenza per il figlio Ilir
incarcerato a Kavaja, per la memoria offesa e calpestata di suo marito Enver,
per il popolo d’Albania disilluso e ingannato dai «nuovi democratici»: e il suo
sembra il lamento di un’Ecuba tragica, vinta ma non domata.
Ci racconta che «tutte, qui dentro, le portano
rispetto, anche le secondine; le altre detenute la chiamano “madre” e con la
loro complicità riesce a strappare il piccolo privilegio di potersene restare a
letto, a scrivere.
Sta scrivendo. Intende dare il suo contributo – dice –
perché sia fatta chiarezza su certi fatti del passato, di politica
internazionale, che sono stati volutamente distorti». E accenna alle relazioni
dell’Albania con l’Unione Sovietica, con la Cina, la Jugoslavia…
Se tutto va come deve andare, calcolando gli anni di
carcere duro scontati, che le valgono il doppio, aggiunti agli sconti normali
di pena, nel prossimo mese di luglio potrà uscire. Forse avrebbe potuto
ottenere sconti particolari in considerazione dei suoi 75 anni, ma si è
rifiutata di rivolgere suppliche ai suoi carcerieri. Avrebbe potuto usufruire
di un’amnistia, il 27 marzo di quest’anno, terzo anniversario dei “democratici
al potere”, ma respinge l’idea: «Per pochi mesi, non vale la pena di
sporcarsi», dice sorvolando.
Poi ci chiede di «quella italiana in carcere negli
Stati Uniti, Silvia Baraldini, ho pensato più volte di scriverle, spero di
poterlo fare».
«Sarebbe davvero una cosa molto bella, Nexhmije».
La giovane guardia ci fa segno, alzandosi, che il
colloquio è finito. Ci salutiamo da vecchie amiche, promettendoci di
incontrarci presto, con lei libera.
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