30/04/20

Primo Maggio 2020 / Uscire dall’emergenza per costruire un altro futuro







Celebriamo questo Primo Maggio, giornata universalmente dedicata all’unità delle lavoratrici e dei lavoratori in lotta per i loro diritti, nelle condizioni tremendamente difficili della pandemia di #COVID-19, ma non vogliamo un’uscita da questa emergenza per tornare a una normalità fatta di più disuguaglianza e più violenza.





In questi mesi di emergenza, migliaia di lavoratrici e lavoratori della sanità e dei servizi logistici hanno continuato a lavorare, prendendosi cura dei contagiati, spesso senza le necessarie protezioni e senza limiti d’orario, con salari bassi e in condizioni inadeguate, mettendo a rischio la loro vita ogni giorno.
La pandemia, oltre al numero elevato di vittime, specialmente tra le persone anziane e il personale addetto alla sanità e ai servizi di cura, ha imposto pesanti restrizioni sociali e sacrifici economici alla popolazione, però non equamente distribuiti.

Le politiche di privatizzazione selvaggia nell’intero settore produttivo pubblico e dei servizi, imposte nei decenni passati da governi asserviti al dettato neoliberista delle maxi-istituzioni finanziarie globalizzate, hanno approfondito ed esteso le disuguaglianze, mentre i profitti sono cresciuti a dismisura concentrandosi nelle mani di élites sempre più ristrette.
Le conseguenze della pandemia si sono aggiunte alle ingiustizie preesistenti, le condizioni di precarietà e di sfruttamento di lavoratrici e lavoratori si sono aggravate.  Migliaia di lavoratrici e lavoratori informali e precari hanno perduto il lavoro. Migliaia di lavoratrici domestiche sono rimaste disoccupate, spesso licenziate in tronco senza alcuna assicurazione sociale.

Poiché la prescrizione di “restare a casa” non si è potuta applicare a tutte le lavoratrici e i lavoratori, per comprensibili ragioni, migliaia di essi hanno dovuto continuare a lavorare a loro rischio. Ma sia per le donne al lavoro, sia per quelle rimaste a casa, si è presentato un sovraccarico di lavoro domestico senza limiti di orario e senza retribuzione.
Per molte donne esposte a relazioni familiari violente, la casa è diventata un luogo ancora meno sicuro di prima e, nei due mesi di emergenza sanitaria, sono aumentati i femminicidi e la violenza domestica.

Gli effetti disuguali della pandemia

Se da una parte la crisi pandemica ha mostrato in tutta la sua evidenza l’essenzialità dei lavori di cura, indispensabili per la riproduzione sociale, dall’altra parte ha confermato che tali lavori, svolti per la maggior parte dalle donne lavoratrici e migranti, nelle nostre società sono da sempre i più sfruttati e precari.
La pandemia generata dal COVID-19 ha reso ancora più visibile l'urgenza di trasformare complessivamente la società nella quale viviamo e di combatterne le ingiustizie e disuguaglianze. La ricerca della risposta efficace all’emergenza ha fatto crescere un nuovo senso di solidarietà sociale e, insieme, la volontà di riprendere la lotta per una trasformazione radicale della società.
Nei movimenti delle donne si fa strada la consapevolezza che ingiustizie e disuguaglianze sono elementi strutturali del sistema capitalistico; cresce al contempo l’indignazione per le politiche neoliberiste imposte dall’élite economico-finanziaria globalizzata e per la subalternità ad esse dei governi dell’UE; l’insostenibilità della subordinazione all'alleanza militare Nord Atlantica e alle  sue politiche guerrafondaie.

Uscire dalla pandemia, ma non per tornare indietro

Mentre ci organizziamo per uscire dall’emergenza della pandemia, dobbiamo anche attrezzarci per affrontare le conseguenze a lungo termine che questa avrà sulle condizioni economiche e di vita di milioni di persone in tutto il mondo, dandoci delle linee guida sia per le misure immediate, sia in una prospettiva di futuro diverso.
Non vogliamo uscire da questa emergenza ancora più indebitate, precarie, sfruttate! Perciò chiediamo che nessuna persona sia lasciata senza reddito o sia costretta a indebitarsi per sopravvivere.
Chiediamo servizi pubblici accessibili a tutte e tutti. Chiediamo un sistema sanitario accessibile e gratuito per tutte le lavoratrici e i lavoratori, italiane/i e migranti. Chiediamo che i diritti alla salute mentale, sessuale e riproduttiva siano riconosciuti come diritti essenziali.
Chiediamo un sistema economico e produttivo sostenibile, basato sulla tutela dell’ambiente e sulla distribuzione equa della ricchezza, rispettoso dei diritti del lavoro, senza sfruttamento né divisione sessuale o razzista, che riconosca la centralità del lavoro di riproduzione sociale.
Chiediamo che le attività considerate essenziali nella fase dell’emergenza continuino in condizioni di lavoro dignitose: per attività essenziali intendiamo quelle indispensabili per sostenere la vita. Poiché la guerra non è un’attività essenziale, chiediamo la riconversione della produzione di armi in produzione di dispositivi sanitari e per altri usi civili.
Dobbiamo vigilare perché le restrizioni che la pandemia ci impone temporaneamente non diventino disposizioni di limitazione permanente della partecipazione sociale o, peggio, di criminalizzazione delle manifestazioni popolari di dissenso.
Vogliamo un’Italia in salute, giusta e democratica inserita in un contesto europeo e internazionale basato su relazioni di cooperazione e di pace globale.
Nella giornata internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori, gridiamo forte che non vogliamo un’uscita dalla crisi per tornare a una normalità fatta di disuguaglianze e violenze; che non vogliamo più oppressione né sfruttamento perché le nostre vite non valgono i vostri profitti. Un futuro diverso è possibile.

AWMR Italia – Donne della Regione Mediterranea

Viva il Primo Maggio / Federazione delle donne greche (OGE)



Il “virus” più letale è lo sfruttamento e l'oppressione



Donna che lavori o sei disoccupata, lavoratrice autonoma, agricoltrice, giovane lavoratrice, studente, pensionata, immigrata e profuga, l’OGE si rivolge a te e ti invita a onorare insieme il messaggio di lotta del Primo Maggio dei Lavoratori rafforzando la lotta per misure che tutelino la nostra salute e i nostri diritti.
Prendiamo forza dall'esempio di migliaia di lavoratrici e lavoratori nella storia mondiale come i lavoratori di Chicago nel 1886 che non si sono adeguate alle miserabili condizioni di vita e di lavoro, ai vincoli dello sfruttamento e dell’oppressione. Onoriamo la loro lotta e siamo sullo stesso cammino di lotta, soprattutto oggi che la crisi finanziaria si sta diffondendo in Grecia, nell'UE e in tutto il mondo.

Non pagheremo ancora una volta! Non lasceremo che la nuova crisi ci schiacci!
Ci rivolgiamo a voi che state sperimentando l’insicurezza riguardo a salute, reddito, lavoro e orari flessibili, violenza in ogni aspetto della vostra vita.
Le misure del governo non solo non possono far fronte a questi vincoli, ma li rendono ancora più soffocanti.
Il discorso del Primo Ministro e gli annunci del governo accendono la "luce verde" verso la giungla del lavoro del "giorno dopo" che è già qui.
La cosiddetta uscita dalla quarantena in realtà significa per i lavoratori l’inasprimento delle condizioni, orario di lavoro irregolare e altre forme "flessibili" di lavoro. Vale a dire, i rapporti di lavoro, orari, salari e assicurazioni, ferie e indennità sono “flessibili” su misura per le esigenze delle imprese giganti. Sono mezzi per aumentare i loro profitti.

Il "giorno dopo" segna i maggiori tagli al Sistema Sanitario pubblico, in particolare alla Assistenza Sanitaria di Base, come risultato della politica che venera la privatizzazione e la mercificazione della salute.
Le donne in gravidanza continuano a pagare pesantemente nel settore privato gli esami prenatali necessari. Perché le cliniche ostetriche pubbliche rimangono chiuse nello stato di graduale revoca delle restrizioni.
L' ipocrisia del governo trabocca!
Parlano di "responsabilità individuale" quando lavoratrici e lavoratori per responsabilità dello Stato e dei padroni capitalisti rimangono non protetti sul posto di lavoro, nei trasporti pubblici, nei supermercati.
Mentre gli operatori sanitari affrontano la loro battaglia senza le necessarie misure di protezione, invitano noi ad affrontare l'abolizione delle restrizioni con "responsabilità individuale", ovvero trovando i mezzi di protezione "obbligatori" per conto nostro (mascherine) pagandoli caramente. Non ci chiuderanno la bocca con misure per reprimere e criminalizzare le lotte del movimento popolare dei lavoratori!

Non è stata negoziata né dall’attuale governo né dai partiti che difendono l’odierna barbarie della quarantena dei nostri diritti e delle mobilitazioni dei lavoratori, del popolo.
Sono arrivati al punto di rinviare il Primo Maggio dei lavoratori, perché hanno paura del fuoco della contestazione!
Ma noi andiamo avanti nella lotta per i nostri bisogni del momento. Nel 21° secolo, le pandemie e i disastri naturali possono essere affrontati sulla base dell'enorme progresso scientifico e tecnologico. Il "virus" più letale che rallenta queste possibilità è lo sfruttamento e l'oppressione.
Il trattamento più efficace è la lotta per i nostri diritti. Il giorno dopo deve trovarci forti e militanti. Prendiamo il testimone dalla recente azione congiunta dei sindacati del lavoro dipendente e dell’autoimpiego, le associazioni agricole in tutta la Grecia.
Partecipiamo combattive, rispettando le misure di protezione, agli scioperi simbolici del Primo Maggio, organizzato da sindacati, federazioni, centri di lavoro ad Atene, nelle grandi città del nostro paese e nei Comuni dell’Attica.
Viva il 1° maggio, giornata internazionale dei lavoratori!

Atene, 30 aprile 2020     

29/04/20

Appello del Centro Regionale Arabo della WIDF/FDIM alle donne del mondo


L’emergenza sanitaria aggrava la violenza sulle donne e le ragazze



Nei Paesi della Regione Araba occorrono leggi efficaci e sanzioni severe contro la violenza sulle donne, umiliante e mortale retaggio di una cultura patriarcale tuttora permanente negli ordinamenti giuridici, che conferisce agli uomini autorità e controllo sulla vita delle donne dalla nascita alla morte 


Noi, organizzazioni di donne affiliate al Centro Regionale Arabo della Federazione Democratica Internazionale delleDonne (FDIM/WIDF),* denunciamo insieme alle altre organizzazioni affiliate alla Federazione, alle organizzazioni culturali e dei media, alle organizzazioni sociali e di massa, alle federazioni sindacali e professionali, che in un momento drammatico come questo, le donne sono coinvolte nel processo di sviluppo dei loro rispettivi paesi e stanno facendo tutto il possibile per aiutare le loro società ad emergere dalla grave crisi sanitaria causata dalla pandemia di coronavirus e dalla crisi economica, sociale e finanziaria che i loro paesi stanno soffrendo, ma oggi si trovano esposte in misura più feroce ed estesa alla violenza familiare a causa della quarantena residenziale!

Pertanto, chiediamo alle forze democratiche dei nostri paesi arabi che urgentemente facciano pressione sui governi e i parlamenti affinché:
1) Sia assicurata protezione a donne e ragazze contro l'umiliante e mortale violenza domestica che si è intensificata e ha recentemente causato decine di vittime.

2) Sia accelerata l'adozione di leggi che scoraggino la violenza contro le donne, che includano clausole di protezione efficaci e stabiliscano sanzioni severe per fermare la criminale violenza sulle donne.

3) Si generalizzi una cultura dell’uguaglianza di diritti e doveri, fondata sul sistema dei diritti umani, alternativa alla cultura legata ad usanze e tradizioni del passato, che conferisce agli uomini l'autorità di controllare la vita delle donne dalla nascita fino alla morte e legittima la violenza contro le donne.

4) La lotta contro la violenza di genere diventi parte della strategia degli Stati arabi per combattere la pandemia di COVID-19.

Inoltre rivolgiamo un appello urgente alla Federazione Democratica Internazionale delle Donne affinché:
- lanci una campagna mondiale di solidarietà con le donne della Regione Araba, che sono esposte alla violenza mortale;
- inoltri questo appello alle Organizzazioni dell'ONU e al Tribunale Penale Internazionale;
- in virtù del suo status consultivo presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, come pure nella sua veste di osservatrice presso l'Assemblea Generale delle NazioniUnite, faccia pressione sui governi arabi affinché approvino leggi dissuasive e adottino misure legali, di protezione sociale e sicurezza al fine di fermare la violenza domestica e far cessare immediatamente la sofferenza delle donne nella Regione Araba.
-  
Beirut 29 aprile 2020


*L'appello è stato sottoscritto da circa 270 associazioni di Libano, Giordania, Bahrein, Sudan, Iraq, Kuweit,Marocco, Tunisia, Siria, Palestina, Egitto. 

28/04/20

NUDM Roma / La vita oltre la pandemia

Qualcosa si muove tra le macerie della pandemia


La pandemia ha confermato la centralità del lavoro riproduttivo, occultata dal sistema capitalistico e svelata dai movimenti femministi. Ora più che mai è il momento di battersi per la redistribuzione della ricchezza che da secoli viene sottratta alle donne. È il momento di gridare con tutta la forza che ci anima che «noi siamo in credito e non in debito!» e che «ci vogliamo vive, libere e sdebitate!»





Pubblichiamo volentieri il documento di Non Una di Meno di Roma, stimolante contributo alla riflessione collettiva delle donne al tempo della pandemia.
https://nonunadimeno.wordpress.com/2020/04/28/la-vita-oltre-la-pandemia/


Qualcosa si muove tra le macerie della pandemia. Siamo separate, ma oggi più di prima congiunte dal desiderio di cambiare tutto. Un evento devastante come il Covid-19 richiede risposte potenti e un’ambizione smisurata. L’epidemia ha messo a nudo che la riproduzione della vita è incompatibile con il progetto neoliberista di estendere la logica del mercato a ogni ambito dell’esistenza. Ripartiamo dai saperi e dalle pratiche femministe e transfemministe che, proprio della riproduzione sociale, hanno fatto il terreno di conflitto prioritario. Ripartiamo da un tessuto collettivo e situato, mutevole nelle alleanze trasversali in cui prende sempre nuovo corpo. Perché se il presente è catastrofico, il futuro non è ancora scritto e le nostre lotte dovranno determinare le forme della convivenza dopo la pandemia.


Per trovare risposte potenti a eventi devastanti torniamo all’«arcano della riproduzione», ossia a quell’insieme di attività che rigenerano la vita umana in una determinata formazione storico-sociale: oltre la riproduzione delle generazioni, le cure psico-fisiche e sanitarie di tutt*, adult*, bambin* e anzian*, la gestione degli spazi e dei beni domestici, l’educazione e la formazione, l’accesso alla cultura, ai servizi, lo svago, le relazioni sociali. Sono stati i movimenti femministi a svelare la centralità del lavoro riproduttivo: condizione di esistenza della società tutta, della sua prosecuzione nel tempo.

A partire dagli anni Settanta il movimento per il Salario al lavoro domestico ha documentato come la stessa transizione al capitalismo, agli albori della modernità, sia stata possibile solo attraverso l’occultamento, la naturalizzazione e dunque la svalutazione del lavoro di riproduzione. Senza le attività di cura e domestiche che assicuravano la sussistenza dell’operaio, non si sarebbe data forza lavoro. Senza forza lavoro, non si sarebbero dati né fabbrica né profitto. Eppure, la riproduzione è stata misconosciuta come lavoro, ascritta all’ambito delle risorse naturali disponibili all’appropriazione. Così si è giustificata, e ancora si giustifica, l’estorsione di un’immane fetta di ricchezza. È questo il filo rosso che lega il lavoro gratuito delle donne all’interno delle case e l’espropriazione delle risorse del pianeta.

26/04/20

GIULIETTO CHIESA fino all’ultimo in prima linea



nella lotta per attuare l’Articolo 11 della Costituzione,
per portare l’Italia fuori dal sistema di guerra

 





Giulietto Chiesa è morto poche ore dopo aver concluso, nel 75° Anniversario della Liberazione e della fine della Seconda Guerra Mondiale, il Convegno internazionale del 25 Aprile “Liberiamoci dal virus della guerra”.
Da quando cinque anni fa abbiamo costituito il Comitato No Guerra No Nato, siamo stati insieme a lui nel continuo impegno per fornire una informazione veritiera sulle cause reali delle guerre; per un’Italia sovrana e neutrale, fuori dalla Nato e da ogni altra alleanza militare; per l’eliminazione totale delle armi nucleari e delle altre armi di distruzione di massa; per mettere fine allo spreco di enormi risorse destinate ad armi e guerre; per un nuovo sistema economico e sociale che elimini le cause che sono all’origine delle guerre.

Ricordiamo le ultime parole pronunciate da Giulietto Chiesa alla conclusione del Convegno del 25 Aprile, alla fine dell’impegno politico della sua intera vita. Parole veritiere, crude, sulla gravità del momento che viviamo. Parole che chiamano alla lotta per riconquistare le libertà costituzionali:      
«Siamo arrivati alla fine di questa maratona, che spero sia stata per tutti voi interessante. Sono state esposte molte cose nuove, con altre nuove voci internazionali.
Ci diamo un arrivederci, un arrivederci fisico quando potremo rincontrarci, anche se credo non sarà facile riconquistare le libertà costituzionali che sono state sospese, e sappiamo perché.
Già si intravedono segni che ci mostrano le situazioni difficili in cui dovremo combattere per riavere le libertà che sono state sospese.
Dobbiamo sapere che la situazione sarà molto più critica, molto più drammatica.
Incombe una crisi economica di proporzioni gigantesche che coinvolgerà e travolgerà (temo) l'Italia.
Coloro che stanno utilizzando questa situazione come uno strumento per colpire i più deboli, e i più deboli sono già stati colpiti, coloro che hanno in mano i bastoni del comando li useranno, e quindi sarà compito nostro, tutti insieme, costruire una barriera e una capacità di riscossa. Dobbiamo pensare a una politica diversa per uscire da tale situazione.
Questo convegno si è svolto online, ma ci saranno e dovremo fare in modo che ci siano altri momenti di lotta e di combattimento politico che siano fisici, in cui ci si possa ritrovare e guardare negli occhi».

26 aprile 2020

25/04/20

25 APRILE 2020 75 ANNI DI LIBERAZIONE

LE DONNE NELLA RESISTENZA



di Nunzia Augeri


Succede d’improvviso quel che non era mai successo: una grande massa di donne italiane si trova improvvisamente protagonista della storia, immersa in un ciclo di avvenimenti che le travolge. Dopo l’8 settembre 1943, un intero esercito sbandato e in fuga ha bisogno di abiti civili, di cibo, di assistenza: dalle povere case di contadini e montanari le donne estraggono un enorme guardaroba per rivestire migliaia di soldati in viaggio verso le proprie case, con un’operazione di “maternage” assolutamente inedita per la sua ampiezza e capillarità. 

In un secondo momento, quando i bandi della Repubblica di Salò e i proclami dell’esercito tedesco esigono che i giovani si presentino per il servizio militare o del lavoro, ogni giovane in età di leva trova una donna di famiglia che lo nasconde, lo nutre e lo tiene informato. L’aiuto prestato al figlio o al fratello si estende poi quasi naturalmente al gruppo di ribelli cui il giovane si unisce, e la formazione partigiana diventa quasi una famiglia allargata alla quale le donne continuano a fornire alimenti, abbigliamento, informazioni, assistenza di ogni genere. La giovane staffetta che corre in bicicletta trasportando armi e ordini, o la coraggiosa infermiera che sulla montagna cura i partigiani feriti sono diventate icone della Resistenza al femminile.

Ma le donne partecipano alla Resistenza anche direttamente come combattenti: in Emilia Norma Barbolini, operaia ceramista, quando il fratello viene ferito, lo sostituisce al comando della I Divisione “Ciro Menotti”; a Torino la studentessa Matilde Dipietrantonio comanda una brigata cittadina di Giustizia e Libertà; ben 512 donne agiscono come commissari politici presso le formazioni partigiane, soprattutto garibaldine, svolgendo incarichi di responsabilità politica su nuclei a maggioranza maschile, come Manuela, una giovane musicista torinese che in Valtellina assume l’incarico di commissario di battaglione. Nella Repubblica dell’Ossola, la partigiana Gisella Floreanini assume la carica di ministro: è la prima volta nella storia d’Italia che una donna assurge a tale status.

Quando poi la disorganizzazione dei mercati e lo sconvolgimento delle reti di comunicazione fa mancare cibo, medicine e generi di prima necessità, come stoffe o sapone, sono ancora le donne che con lunghi viaggi a piedi o con mezzi di fortuna si incaricano di effettuare gli scambi necessari. Esemplare il caso della zona libera della Carnia, dove le comunicazioni sono bloccate e mancano i cereali: uno stuolo di giovani donne, organizzate dal partito comunista che predispone rifornimenti e posti di ristoro, trasporta a spalla o con i muli cinque tonnellate di grano dall’Emilia, attraverso un impervio passo di montagna, salvando dalla fame una popolazione di circa 90.000 persone. Ma anche in tutte le altre zone alpine le donne scendono a valle a scambiare patate, castagne, prodotti caseari, oggetti di artigianato, con cereali e altri generi necessari. Dalle coste della Versilia, sono le donne che ricavano il sale dal loro mare e si recano a piedi in Emilia a scambiarlo con grano e farina delle ricche cascine della pianura; e nel viaggio riescono anche a far passare informazioni utili per gli Alleati che stanno risalendo la penisola. “Quelle povere donne scalze, mentre i loro uomini combattevano sulla montagna contro i tedeschi, combattevano in pianura contro la fame. E la battaglia per la libertà e per il pane fu una sola battaglia”, commenta Piero Calamandrei. E a Carrara, quando i nazifascisti, sotto pressione per la risalita degli Alleati, volevano distruggere la città, sono le donne che con furiose manifestazioni riescono ad impedirlo.

Anche nelle città le donne sono le protagoniste delle manifestazioni contro i fascisti: le razioni alimentari sono ridotte al minimo, e spesso neppure si riesce ad ottenerle. Le donne gridano la loro rabbia per la mancanza di pane, sale, legna, ma non è difficile vedere in filigrana l’opposizione politica sotto la fame: gli stessi fascisti sanno benissimo che le manifestazioni sono spesso organizzate da donne dalla chiara coscienza politica, ma come individuarle nella massa di donne furiose per le privazioni? Dove riescono a organizzarsi, i Gruppi di difesa della donna provvedono alacremente a raccogliere viveri e abbigliamento per i combattenti sulle montagne, a nascondere e nutrire ebrei e militanti clandestini, ad appoggiare l’opera pericolosa dei gappisti nelle città. I Gruppi, dove possibile, servono anche da palestra per attività sociali, culturali, politiche inedite per quelle donne, che il fascismo aveva confinato nella funzione procreativa.
Tocca infine alle donne nelle case un compito tanto delicato quanto dimenticato: quello di proteggere bambini e bambine dai pesanti traumi psicologici provocati da occupazioni militari, rastrellamenti, incendi, assassini, cercando di attenuare i drammi e di razionalizzare avvenimenti tragici e incomprensibili agli occhi dei più piccoli.

Ma non è da credere che l’impegno resistenziale delle donne derivi solo dalla loro tradizionale dimensione privata, dal lavoro di cura familiare e dai principi altrettanto tradizionali di ospitalità e solidarismo: esisteva una grande massa di manodopera femminile, particolarmente importante e numerosa nelle fabbriche tessili di tutto il nord Italia, ma presente massicciamente anche nelle fabbriche delle grandi città industriali, dove sostituiva gli uomini richiamati alle armi. Una massa operaia che aveva patito in prima persona la miseria, la fame, le angherie imposte dai fascisti, e ne aveva tratto una chiara coscienza di classe. Le donne operaie partecipano in massa agli scioperi del marzo 1944: a Milano, quando nelle fabbriche suonano le sirene che annunciano lo sciopero, c’è un attimo di esitazione: sono le donne della Borletti a dare l’esempio, uscendo per prime nella strade, e agli uomini non resta che seguirle. Gli occupanti tedeschi deportano migliaia di operai (più di 500 solo da Sesto San Giovanni) fra cui molte donne che finiranno nei campi di sterminio nazisti.

La storia ufficiale ci dice che furono in numero di 35.000 le donne partigiane, staffette, sappiste e gappiste, 4.633 le donne arrestate, torturate, condannate dai tribunali fascisti, 2.750 quelle deportate in Germania, 623 fucilate o cadute in combattimento, 1.750 ferite, 70.000 organizzate nei Gruppi di difesa della donna. Ma questi numeri non comprendono la massa di casalinghe, bottegaie, portinaie, sartine, che diedero il loro contributo in forma anonima e quasi ignorata se non dai pochi che le conoscevano e che magari dovevano loro la vita: come l’ignoto gappista milanese, al quale, fuggendo con i fascisti alle calcagna, si guastò la bicicletta: uno sguardo d’intesa con la portinaia, e un pesante portone di legno si richiuse su di lui, sottraendolo alla cattura, alla tortura, alla morte.

Un movimento di massa, quello delle donne, di cui non esiste alcun altro esempio nella storia d’Italia e che dopo la guerra sarà fecondo di nuove conquiste, prima di tutto il voto.

24/04/20

25 aprile 2020 - Donne nella Resistenza


Una storia di partigiane e partigiani



























 di ADoC - PCI*


Quando si ricorda la Resistenza e il 25 aprile, il pensiero non va subito alle partigiane, ma ai partigiani che combatterono armati per sconfiggere il nazifascismo: magari, il ricordo si sofferma su quelle poche donne che divennero dirigenti politiche nel dopoguerra, come Nilde Iotti, Lina o Angelina Merlin, Tina Anselmi

“Staffette” è la parola più comunemente usata per definire le partigiane, ma esse non sono state solo informatrici ed infermiere, ma anche combattenti con le armi in mano.
Quando prese piede la Resistenza, dopo l’armistizio dell’8 settembre ‘43, nacquero a Milano, nel novembre del ‘43, i Gruppi di difesa della donna per iniziativa del Partito Comunista Italiano, con lo scopo di coinvolgere il maggior numero di donne in attività resistenziali, indipendentemente dall'appartenenza politica. A gettarne le basi fu l'incontro tra donne di diversa appartenenza politica, comuniste, socialiste, azioniste, repubblicane, cattoliche, a cui si aggiunsero ben presto donne prive di formazione politico-ideologica.

Dei Gruppi di difesa della donna, è impossibile misurarne l'entità, poiché intorno a ciascuna delle componenti gravitavano molte altre donne che talvolta ignoravano perfino l’esistenza del gruppo, ma si attivavano a fornire cibo, medicine, indumenti e a prestare servizi vari di comunicazione e sostegno. A Milano, ad esempio. la “sarta di piazza Ferravilla” nascondeva stampa clandestina e passava informazioni alle unità partigiane. La “pollivendola di via Aselli” (nessuno ne ha mai saputo il nome) faceva lo stesso. In un’altra via una portinaia raccoglieva il cibo necessario a due ebrei che stavano nascosti nei pressi e che riuscirono a salvarsi, ma raccoglieva anche per i partigiani in montagna calzettoni e golf di lana lavorati a maglia dalle donne del condominio.

Tali brigate, accomunate a quelle partigiane dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale, organo di direzione della Resistenza, segnarono una rottura epocale: la prima volta delle donne combattenti. Infatti, le partigiane seppero realizzare una sorta di fronte interno che toglieva terreno agli occupanti e che si muoveva alle loro spalle. Ben presto, da ruoli prevalentemente assistenziali, esse passarono a svolgere ruoli importanti nelle attività di informazione, propaganda, trasporto di ordini e munizioni ed attacco armato.
Infatti, le donne provvedevano a nutrire i partigiani, a vestirli, li avvertivano della presenza dei tedeschi, li curavano, se feriti, procuravano loro le armi, attraversavano posti di blocco, diventavano staffette, facevano turni di guardia, attaccavano con le armi i nazifascisti, salvavano ebrei, facevano fuggire gli uomini durante i rastrellamenti.

Le donne operaie hanno portato la loro coscienza di classe nella Resistenza; allo stesso tempo la nuova esperienza acquisita nella partecipazione alla Resistenza, ebbe il risultato che le donne dei Gruppi citati, già nel 1944, cominciarono a dare agli stessi un'impostazione più indirizzata alle attività per favorire l'emancipazione femminile, attività che proseguirono nel dopoguerra. Infatti, durante la guerra le donne avevano sostituito gli uomini in molti luoghi di lavoro, sviluppando coscienza di genere e iniziando le prime lotte per la parità salariale. Raccontava Antonio Pizzinato che nel marzo del 44, quando nelle fabbriche suonarono le sirene che annunciavano lo sciopero indetto dalle forze della Resistenza, nessuno osava uscire. Le prime che si fecero coraggio e uscirono furono le donne della Borletti: a quel punto gli uomini non poterono tirarsi indietro, e cominciarono ad uscire, finché tutte le fabbriche milanesi furono in sciopero. Ricordiamo che allora lo sciopero era reato, punito con il carcere e la deportazione.

Ferruccio Parri nel novembre del 1945 disse che senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza: affermazione importante, purtroppo trascurata per molti anni dalla storiografia ufficiale, lacuna che venne colmata solo dal 1990, oltre quattro decenni dopo la Liberazione.
Secondo i dati dell’ANPI, sono stati stimati i seguenti numeri: 70000 donne organizzate nei Gruppi di difesa della donna; 35000 donne partigiane, che operarono come combattenti; 20000 donne con funzioni di supporto; 4563 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 2900 giustiziate o uccise in combattimento; 2750 deportate Germania nei lager  nazisti; 1700 donne ferite; 623 fucilate e cadute; 512 commissarie di guerra.

Le donne che ricevettero medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la resistenza sono state solo diciannove: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari. Altre furono decorate con medaglie d'argento al valore militare: Norma Barbolini, Joyce Lussu, Valkiria Terradura, oltre alla veneta Zaira Meneghin, due volte imprigionata e atrocemente torturata dai nazifascisti, ed entrambe le volte tornata a combattere. Solo una donna ebbe la medaglia d'oro al valor civile: Rosa Guarnieri Calò Carducci.

Le partigiane fecero parte sia dei Gap (Gruppi d'azione partigiana), sia delle Sap (Squadre d'azione partigiana). Fra le donne che parteciparono alla Resistenza ci fu un buon numero di partigiane che ebbero responsabilità di comando, come la leggendaria Manuela in Valtellina.
Una menzione particolare meritano la brigata della comandante Norma Barbolini, in Emilia, composta esclusivamente da donne, e la “brigata Alice Noli”, composta da sole donne anche nei gradi di comando, che fu attiva sui monti liguri. Deve il suo nome, come omaggio, ad una giovane staffetta di Campomorone, paese dell’entroterra genovese, seviziata e uccisa dalle milizie nere, perché aveva dato sepoltura ad alcuni tra i 147 partigiani morti nell’eccidio della Benedicta, nell’aprile del 1944. Inoltre, l’8 marzo 1945 le partigiane della ‘Alice Noli’ distribuirono clandestinamente a Genova 20mila volantini e realizzarono oltre 500 scritte sul selciato, per testimoniare il proprio ruolo nella Resistenza. Infine, va ricordata Gisella Floreanini, ministra della Repubblica dell'Ossola, prima donna ad assurgere alla carica di ministro in Italia.
Bisogna ricordare, come fanno notare alcune psicologhe, che praticamente a tutte le madri toccò il difficile compito di spiegare e razionalizzare agli occhi di bambine e bambini, ragazze e ragazzi tutto quello che stava succedendo: incendi, devastazioni, assassinii, stragi, battaglie, o anche - più semplicemente - la fame.

Il 25 aprile e nei giorni che seguirono vi furono le sfilate nelle città liberate, prima gli alleati, poi i gruppi partigiani composti dagli uomini, solo in fondo alla parata alcune donne (e non sempre, perché gli uomini, già partigiani, anche quelli di sinistra, consideravano scostumato fare sfilare le partigiane che erano state sui monti con loro. Per questo comportamento ignobile, le storie uniche e irripetibili di questo meraviglioso esercito femminile finì nel dimenticatoio, dal quale vennero strappate solo molti anni dopo.
Pregevole, a questo riguardo, fu il lavoro di varie storiche che raccolsero le testimonianze e le memorie di molte donne che avevano fatto la Resistenza e ne fecero dei libri. Inoltre, ci furono ex partigiane che scrissero le proprie autobiografie come Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Fronti e frontiere di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard. 
Si riporta, in ricordo delle tantissime partigiane italiane, una poesia scritta da Maria Montuoro che fece la Resistenza in Lombardia, venne arrestata e detenuta a San Vittore, deportata nel lager di Ravensbrück, trasferita a Siemensstadt in una fabbrica di armi dove, insieme ad altre donne, boicottò la produzione di ordigni mortali. Sopravvissuta a quell’inferno, con i suoi scritti, descrisse le condizioni di non vita nel campo femminile. 

DIMENTICARE

Se perdono vuol dire
non desiderare neppure per un attimo
che i vostri crimini ricadano sui figli innocenti
in questo senso noi perdoniamo.
Se perdono vuol dire
non ammettere neppure
che dobbiate soffrire
lungamente l’agonia
sinché la morte divenga liberazione
in questo senso noi perdoniamo.
Se perdono vuol dire
sperare che anche per voi
sorga il giorno
perché nella ritrovata matrice
in voi rinasca il fratello ucciso
in questo senso noi perdoniamo.
Ma se perdono vuol dire
disperdere la memoria
come al vento la cenere dei morti
chiudere occhi, orecchi
impedire al cervello di pensare
mentre voi sognate altri massacri
altri bagni di sangue, altri roghi
ebbene
cercate altrove
i vostri complici e i vostri servi.
Finché avremo un respiro
un atomo di forza
un lampo di pensiero
li useremo contro di voi
finché quel ventre non sarà isterilito.
Dopo, soltanto dopo
potremo dimenticare.



LIBANO / Emergenza Covid-19 ultima manifestazione della crisi sistemica del capitalismo



Quell’ombra scura che si profila all'orizzonte, umanamente, economicamente e socialmente, richiede una risposta vigorosa prima che sia troppo tardi





Nel 2002, il profilo di una grave crisi iniziò a prendere forma nei maggiori paesi capitalisti, in particolare negli Stati Uniti. 
Normale conseguenza delle politiche neoliberiste sviluppate negli anni ottanta del ventesimo secolo dal duo Ronald Reagan - Margaret Thatcher, approfittando del revisionismo di destra attuato da Gorbaciov nell'ex Unione Sovietica, quella nuova crisi capitalistica presto esplose, nel 2008, lasciando le sue impronte oscure sulla vita di decine di milioni di lavoratori che andarono a ingrossare le file dei disoccupati, oltre due miliardi di esseri umani classificati sotto la soglia della nera povertà ... tutto ciò fu accompagnato dal "furto del secolo" che i regimi capitalisti commisero rubando i soldi dei piccoli e medi risparmiatori per darli a banche e grandi società finanziarie, consentendo loro di rafforzare la loro presa sulle ricchezze che cela la terra e, soprattutto, sulla vita degli esseri umani.

Allo stesso tempo, bisogna dire che l'indebolimento delle forze del cambiamento a livello internazionale, a seguito della caduta del muro di Berlino e dell'implosione dell'Unione Sovietica (1990), ha reso il compito del capitalismo più semplice, consentendogli di realizzare i suoi nuovi piani aggressivi, a iniziare dal ritorno alla corsa agli armamenti e all'organizzazione delle cosiddette guerre preventive, in particolare in Medio Oriente. 

Inoltre si è assistito a colpi di stato, specialmente in America Latina e nei paesi ex socialisti dell'Europa orientale, e soprattutto alla creazione di nuove organizzazioni terroristiche, supportate in alcuni casi dallo sciovinismo religioso e confessionale e in altri dall’inasprimento di odi tribali ed etnici. Questo, sul piano della politica internazionale. 

Per quanto riguarda l'economia e il sociale, e come conseguenza dell'indebolimento del movimento operaio e dell’andata al potere dei partiti socialdemocratici, in particolare all'interno dell'Unione Europea, le forze del capitale, e più precisamente l'oligarchia finanziaria, sono state in grado di smantellare le forze produttive e con esse una parte significativa delle conquiste che queste forze avevano potuto conseguire durante la seconda metà del XX secolo, in particolare nel campo delle prestazioni sociali e dei servizi forniti dal settore pubblico (una parte dei quali è stata privatizzata in seguito).
Tra queste conquiste smantellate durante i primi due decenni del 21° secolo, i servizi sanitari, di urgenza e altri... I governi capitalisti hanno condotto vere guerre ad oltranza contro questi importanti servizi, specialmente per coloro che sono in fondo alla scala sociale. Ad esempio, negli Stati Uniti, il primo governo Obama ha dovuto affrontare un duro scontro per estendere i servizi di sicurezza sociale; infine, è stato costretto a cedere ai diktat e agli interessi delle compagnie assicurative. Quanto alle grandi potenze dell'Unione Europea, anch’esse hanno soppresso un gran numero di conquiste sociali e stanno gradualmente distruggendo il ruolo degli ospedali pubblici ...

Lo stesso vale nel nostro paese, dove il Fondo nazionale di sicurezza sociale e gli ospedali pubblici hanno subito l’assalto del settore privato, che aveva e ha ancora il sostegno del governo e che ha inghiottito quasi tutto il budget assegnato al Ministero della sanità libanese. Infatti, già un mese prima della diffusione del Covid 19, gli scioperi del personale medico e infermieristico un po’ dappertutto nel mondo avevano espresso la gravità della situazione in questo settore essenziale.

Questi attacchi al diritto d’accesso delle popolazioni ai servizi medici e sanitari hanno lasciato la loro impronta negativa diretta in quasi tutti gli stati del pianeta, ad eccezione di Cuba e, in una certa misura, della Cina. Perché il governo cubano, nonostante le difficoltà create dall’embargo degli Stati Uniti, ha continuato ad assumersi le sue responsabilità in questo settore, sottolineando l'importanza fondamentale della salute e della sopravvivenza della specie umana, a differenza dei regimi capitalisti per i quali la vita umana ha valore solo in funzione del denaro, quel denaro che apre tutte le strade, compresa quella di essere in grado di ottenere i farmaci necessari per la sopravvivenza.

La conclusione che possiamo trarre da questa analisi è che il capitalismo, mentre cercava di porre fine al principio della sicurezza sociale, ha messo fine al ruolo dello Stato nella preservazione delle popolazioni dalle epidemie. La salute, divenuta una merce, era soggetta alla legge della domanda e dell'offerta e il capitale trionfante poteva impunemente orientare la ricerca nella direzione dei suoi interessi e imporre profitti esorbitanti su nuove scoperte nel campo dei medicinali.

Ecco perché non siamo rimasti sorpresi dal panico e l’impreparazione dei governi nei confronti di Covid 19, né dai tentativi di incolpare della diffusione di questo virus la Repubblica popolare cinese, accusata di aver manipolato i geni per mettere le mani sull'economia mondiale ... né, soprattutto, dalla carenza di maschere e guanti protettivi, poiché le fabbriche che li producevano avevano da tempo chiuso e licenziato centinaia di migliaia di lavoratori, con il pretesto che la produzione di questi prodotti in Cina o in India aveva il vantaggio di aumentare i profitti e allontanare lo spettro delle lotte di classe.

L'osservazione che la crisi sistemica del capitalismo, scoppiata nel 2008, è diventata sempre più difficile da risolvere, data l'inflazione al galoppo per dodici anni e l'incapacità del sistema capitalista di risolverla, ci porta a prevedere che ciò che attende il pianeta dopo la fase del confinamento sociale sarà una depressione non meno virulenta di quella del 1929, tanto per lo spaventoso aumento del numero di disoccupati (si parla di un miliardo) quanto per il rallentamento dell'economia mondiale e le falle scoperte nella struttura di questa economia.

Questa ombra scura che si profila all'orizzonte, sia umanamente che economicamente e socialmente, richiede una risposta vigorosa prima che sia troppo tardi.
Le forze del cambiamento a livello internazionale sono chiamate a trascendere le loro divisioni per unirsi in un programma molto chiaro e ben definito. Un programma che impedirà, in primo luogo, al capitalismo di scaricare gli effetti della sua crisi sulla classe operaia internazionale e sui popoli della Terra. Un programma che garantirà a tutti gli esseri umani, senza eccezioni, la possibilità di proteggersi da tutti i tipi di malattie e pandemie e di avere accesso all'assistenza sanitaria, ai vaccini e ai medicinali di cui avranno bisogno.

E se centinaia di partiti politici (incluso il Forum della Sinistra Araba) si incontreranno in una dichiarazione congiunta volta a garantire la vita umana sulla Terra, questa dichiarazione dovrà essere trasformata in un programma comune, non solo economico e sociale, ma anche e soprattutto politico e ideologico al fine di creare un nuovo ordine internazionale basato sulle lotte del proletariato internazionale, al fine di porre fine allo sfruttamento e garantire la realizzazione dello slogan degli umanisti di ogni tempo:
«A ciascuno secondo i suoi bisogni; da ciascuno secondo le sue capacità».

Beirut, 14 aprile 2020