UMANITA' IN TRANSITO
di Ada Donno
Qualche tempo fa, cercando
non so più che libro sugli scaffali di una libreria remainder, mi è capitato tra le mani un vecchio romanzo di Anna
Seghers, Transito, in edizione Oscar
Mondadori del 1987, che ricordavo di aver letto molti anni addietro. Anna Seghers
è stata una grande scrittrice dell’ex DDR, forse la più grande, che ho
incontrato e amato nelle mie letture giovanili. Dei suoi scritti tenevo bene a
mente La Settima croce (che lessi
forse anche perché incoraggiata da una vecchia riduzione cinematografica con
Spencer Tracy, che mi colpì molto); ma di Transito
non mi ricordavo quasi più. L’ho acquistato e poi sfogliato con curiosità, attratta
anche dalla densa, incisiva introduzione di Christa Wolf - anche lei grande
scrittrice dell’ex Germania dell’Est, ma di una generazione successiva - che apre
così: “Transito" è uno di quei libri
che s’innestano dentro la mia vita e che la mia vita non finisce mai di
scrivere, sicché ogni due o tre anni devo riprenderli in mano per vedere che
cosa è successo nel frattempo a me e a loro”.
Il romanzo è a suo modo
autobiografico, uscito in prima edizione nel ’43, ma scritto dalla Seghers
negli anni ’40-’41, quasi “in sincronia con gli avvenimenti”, come dice la
Wolf: cioè nel momento stesso in cui la scrittrice stessa, insieme ai suoi due
figli, stava vivendo il dramma dei profughi, “uno spettrale corteo di milioni
di profughi” che vagava per l’Europa in guerra, tentando di sfuggire alla
Wermacht.
L’ho riletto, dunque, pagina
dopo pagina con crescente rapimento, sempre più stupita che la prima lettura, fatta
forse troppi anni addietro, o forse con superficialità, non avesse lasciato in
me segno. Non escludo che questo romanzo abbia lavorato dentro me negli anni
senza che io me ne rendessi conto, tuttavia prendo questa dimenticanza per una conferma
che c’è un tempo per ogni cosa, come dice Qoèlet, e quindi anche per le nostre
letture. E questo è proprio il tempo di ri-leggere
Transito, storia dimenticata di
un’umanità in fuga dall’orrore della guerra, attraverso confini violati e cancellati,
che la Seghers narra assumendo la voce di un anonimo io narrante: un
perseguitato politico tedesco che, valicata fortunosamente la frontiera della
Francia di Pétain non ancora occupata dai nazisti, si muove in una Marsiglia
brulicante di fuggiaschi dalle disparate nazionalità europee, tutti alla
ricerca, come lui, d’imbarcarsi sul primo piroscafo che li porti lontano, oltre
oceano, in Messico, o alla Martinica, o in uno qualsiasi di quelli che erano
chiamati (ma sono chiamati tuttora, con falso
pudore) “territori d’oltre mare” delle potenze coloniali europee. Una
terra promessa e sconosciuta, una qualsiasi, nella quale sopravvivere. Il
narratore trascorre le sue giornate tra una moltitudine di uomini e donne che
si aggirano frastornati - incontrandosi,
perdendosi e ritrovandosi – per le anticamere di consolati, uffici di
prefettura e di polizia, nell’estenuante attesa di procurarsi l’agognato diritto
di transito. L’anonimo protagonista, oltre a cercare i documenti per sé, ha
ricevuto anche l’incarico di rintracciare un certo Weidel - anch’egli ricercato dalla Gestapo e fuggito
in Francia - al quale deve consegnare un
plico che contiene un manoscritto da salvare. Nella figura del misterioso
Weidel, che non verrà mai raggiunto, la Wolf intravede la figura dello scrittore Ernst
Weiss, morto suicida in un albergo parigino prima di essere catturato dalla
Wermacht. Ma si potrebbe leggere in controluce anche la drammatica vicenda di Walter
Benjamin che, stretto tra la caccia dei persecutori nazisti e le assurde
disposizioni delle autorità spagnole che gli avevano ritirato il visto di
transito impedendogli d’imbarcarsi per gli Stati Uniti, infine si suicidò a
Port Bou. O altre vicende simili di intellettuali tedeschi oppositori del nazismo,
come Walter Hasenclever e Carl Einstein.
Nell’intrico di storie e
personaggi che formano la tessitura del romanzo, a struttura circolare, si riflette peraltro l’esperienza dell’autrice
stessa, come in un gioco di specchi in cui a tratti non si sa più qual è la
parte riflessa e quale la parte riflettente. E sopra ogni cosa necessario,
urgente, s’impone il suo bisogno di narrare: “Veramente mi piacerebbe una volta
raccontare tutto, dal principio alla fine”, fa ripetere la Seghers al suo
anonimo io narrante, come un ritornello.
Narrare l’angoscia e la disperazione,
le paure e le ansie, gli egoismi e le meschinità, l’esaltazione e le delusioni che
accompagnano le interminabili giornate dei profughi che affollano le sale
d’attesa dei consolati, il reparto visti delle prefetture, le stazioni, le
agenzie di viaggio, le sudice camere d’albergo, e ripetono le stesse storie di certificati
promessi e di permessi negati, e “parlano senza sosta del transito, di
passaporti scaduti, di acque territoriali, di visti d’uscita, e sempre sempre
di nuovo del transito”.
Fa uno strano effetto leggere
di un “triste fiume di gente in fuga, che vaga senza meta, dormendo negli asili
o nei campi, saltando sui camion o sui vagoni, senza mai trovare un alloggio o
un’offerta di lavoro”. Gente che ripete storie di piroscafi affondati col loro
carico di fuggiaschi disperati, di navi cacciate attraverso tutti i mari e mai accolte in porto, o di
passeggeri sbarcati a forza sulle coste africane e che “ora staranno
abbrustolendo in qualche campo di concentramento ai margini del Sahara”.
Fa un effetto spaesante
soprattutto perché i personaggi di Transito,
che “si agitano per ottenere dei passaporti, dei documenti, come se si
trattasse della salvezza della loro anima”, sono “fuggiaschi del nord” che si
muovono in direzione sud, alla ricerca di un riparo nelle stazioni, sotto i
portici e nelle chiese; alla mercé di miserabili approfittatori da una parte, e
dall’altra di autorità che, nel disfacimento totale, riescono “a scovare
procedure sempre più lunghe per classificare, registrare, timbrare uomini…”.
Leggi, e pensi che, ecco,
se tutti leggessero questo romanzo e s’immergessero nella sua folla di rifugiati
- tedeschi, olandesi, francesi, austriaci - che dal centro dell’Europa vanno verso
le coste alla ricerca di un posto su un vecchio piroscafo arrugginito, uno
qualsiasi che, a tutto loro rischio, li porti oltre mare, forse oggi sentiremmo
meno imbecillità in televisione, meno bestialità correrebbero sul web.
Leggi e ti vergogni, di
questa Europa d’oggi smemorata che, davanti alle colonne di sventurati spinti a
cercare rifugio dove gli sembra che potranno sopravvivere, non sa fare altro
che erigere nuovamente, ancora una volta, muri e recinti di filo spinato e
campi d’internamento. Oppure, in una versione più “civile”, si riunisce attorno
ad un grande tavolo lucido in un grande palazzo lucido, per discutere su come
“dividersi i profughi”, o su quanti permessi di transito rilasciare, non uno di
più, per non mettere a rischio il PIL.
La lettura di un libro come
“Transito”può aiutarci a respingere i
miserabili egoismi e richiamarci alle
nostre responsabilità? Quelle di oggi? Sì, può darsi. Lo spero.
Per completezza
aggiungo che, alla fine, l’anonimo protagonista del romanzo rinuncerà ad
imbarcarsi. All’ultimo momento non userà il permesso di transito finalmente
ottenuto. Una rinuncia dettata forse dallo
“spavento senza nome per l’allontanamento forzato, forse definitivo, da questa Europa”;
o forse dalla speranza di resistere, perché “quando si versa il proprio sangue
sopra una terra che ci è familiare, qualche cosa vi rinasce, come da arbusti e
da alberi che si è cercato invano di estirpare”; o forse dettata semplicemente
dall’accettazione della condizione transitoria che è propria di noi tutti. Così,
sostiene Christa Wolf, il racconto della Seghers assume forza simbolica e si
colloca profondamente “dentro la vita”.
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