LIBERTA’ DELLE DONNE NEL XXI SECOLO
PENSIERI E PRATICHE OLTRE I FONDAMENTALISMI
Si è tenuto a Roma dal 20 al 22 ottobre, nella Casa internazionale delle donne, il Convegno Libertà delle donne nel XXI secolo. Pensieri e pratiche oltre i fondamentalismi promosso e organizzato da Awmr Italia - donne della regione mediterranea; Cultura è Libertà una campagna per la Palestina; Il Giardino dei ciliegi; Wilpf Italia . IFE Italia, con il contributo di Transform Europe
di Ada Donno
Ciascuna di noi può dire, con
grande soddisfazione, che è stato un convegno ricco e produttivo, anche oltre
le nostre aspettative, per quantità di presenze e qualità degli interventi, per
lo spirito partecipativo che l’ha animato, per le emozioni che l’hanno
attraversato. E’ stato il meritato approdo di un percorso costruttivo iniziato un anno e mezzo fa dalle
organizzatrici che l’hanno convocato “arbitrariamente”, mosse dall’urgenza di ragionare fra donne, ma
rivolgendoci al mondo, sulla prepotente ascesa dei fondamentalismi nell’epoca
che viviamo. Che sono di varia natura, ma abbiamo preferito occuparci soprattutto di
quelli che più mettono a rischio la libertà delle donne.
Su questa proposta sono state chiamate al confronto donne sapienti, con conoscenze ed esperienze di pratiche diverse di resistenza.
L’ abbiamo chiamato “percorso collettivo di confronto ragionato e di azione” –
perché volevamo che si nutrisse delle
relazioni che costruivamo o consolidavamo strada facendo – dove l’accento veniva posto su due o tre
condizioni necessarie : la dimensione collettiva, come ha sottolineato in
apertura Nicoletta Pirotta di IFE; il ragionare di fondamentalismi al plurale,
perché ce ne sono di tipi e forme differenti, anche se si riconoscono per il comune carattere - l’atteggiamento totalizzante ed escludente verso l’altro o l’altra - come ha
ricordato Alessandra Mecozzi di Cultura è libertà; il volgere lo sguardo sull’altro o l’altra da
sé come termine di una relazione positiva da costruire e non come “altra cosa da sé”, alterità irrimediabile e immodificabile - come ha insistito Imma Barbarossa. Tenendo fermo che il punto d’arrivo di ogni
discorso è il raggiungimento di un pensiero critico capace di trasformare lo
stato di cose presente, hanno ribadito Chiara Giunti, Anna Picciolini,
Antonia Sani, Francesca Koch, Giuliana Beltrame, Barbara Bonomi Romagnoli e abbiamo ripetuto tutte nel corso delle tre giornate.
Il proposito di partenza era
indagare i fondamentalismi nelle loro specificità e nei loro contesti diversi – con l’aiuto di altre donne che a tale ricerca
hanno dedicato energie intelligenza e
capacità – con l’intento di valorizzare le diverse esperienze e pratiche di
contrasto messe in atto e di costruire relazioni potenzialmente capaci di
generare azioni comuni trasformatrici dello stato di cose presente. Nelle tre
giornate e nelle tre sessioni in cui è stata articolata la discussione, con le
relatrici e con l’interlocuzione attiva del pubblico presente, sono stati focalizzati
i fondamentalismi che si nutrono del dogma della propria onnipotenza a cui
subordinano i corpi degli esseri viventi, in particolare delle donne.
Si può tentare una sintesi,
raggruppando attorno a due assi le riflessioni venute fuori nelle sessioni di
lavoro: quello dei contenuti e quello dei possibili modi in cui i movimenti
delle donne costruiscono gli “antidoti” ai fondamentalismi, che non vuol dire
solo fare opposizione ad essi, ma anche
introdurre proposte concrete di cambiamento.
A Susan George abbiamo
affidato il compito di contestualizzare le tematiche proposte alla discussione in questa fase di sviluppo del capitalismo globale
e di collegarle ai fenomeni globali che possono avere un impatto maggiore sulla
vita delle donne, investendo il presente e futuro dell’umanità: la
globalizzazione, le disuguaglianze e la questione ambientale.
Nella prima sessione (Libertà, uguaglianza fraternità?
Alternative all’ingiustizia globale) sono emersi alcuni aspetti relativi al
quello che abbiamo chiamato il fondamentalismo del mercato: cosa vogliono dire
oggi le parole libertà uguaglianza e fraternità al tempo del pensiero economico dominante, del neoliberismo come idea
fondamentale del capitalismo, che poggia su presupposto che la vita si possa
ridurre a merce e strumento per la produzione di denaro, sottraendoci la nostra
umanità? Quali alternative sono possibili all’ingiustizia globale? Dalle
relazioni di Monica Di Sisto, Heidi Ambrosch (Austria), Lorena Garron (Spagna), Souad Gharbi (Tunisia) e dagli interventi è emersa con forza la consapevolezza del legame fra
patriarcato e capitalismo («un’alleanza contro le donne per il controllo dei
loro corpi e della funzione riproduttiva» - l’ha definita Tania Toffanin - che ha
sviluppato nel tempo svalutazione e discriminazione in parallelo al
disciplinamento della forza-lavoro, indispensabile per aumentare i profitti
delle imprese»), cosa niente affatto scontata nella storia dei movimenti
femministi. Se è vero che c’è ab origine
un nesso stretto tra forme economiche e patriarcato, questo appare evidente
come mai prima nella fase attuale di capitalismo finanziarizzato e
globalizzato. Ma è emersa anche la consapevolezza delle donne come forza
trainante nei processi di trasformazione (“non ci può essere rivoluzione – ha
detto con forza Eleonora Forenza – senza l’apporto del femminismo”). E, a proposito di nessi, è venuto fuori anche
(ma è un tema da riprendere e approfondire)
quello esistente fra guerra, ritorni di nazionalismi, produzione di armi
e condizione delle donne: l’impegno contro la militarizzazione è un elemento
chiave per le donne di tutte le latitudini.
Ma come il movimento delle
donne può costruire oggi un’agenda degli obiettivi riguardo alla questione del
fondamentalismo del mercato? Una volta messo l’accento sul nesso mercato e
perdita dei diritti e sulle disuguaglianze, come si può intervenire, anche
agendo sugli strumenti istituzionali?
Spunti assai interessanti
sono venuti su quella che è stata chiamata “l’economia al femminile”, cioè
forme di compartecipazione e
autogestione per così dire “orizzontali”, fondate sulla circolarità
delle relazioni economiche, da opporre alla verticalizzazione dell’economia
dominante finalizzata al consumismo e alla massimizzazione del profitto. Così come forme di solidarietà sono state
proposte in alternativa agli effetti distruttivi della crisi economica attuale
sul welfare e i servizi sociali, col conseguente crollo nelle condizioni di
vita delle donne (“la Grecia è diventato
il peggior posto in Europa dove le donne possano vivere”, ha detto a questo
proposito Anna Maria Iatrou di Salonicco). E’ possibile pensare un altro
modello di politica economica, porre la questione del reddito di
autodeterminazione come uno degli elementi utili a costruire un altro modo di
lavorare, vivere e concepire le relazioni sociali? E’ possibile costruire un’iniziativa europea
su una proposta comune di salario minimo per le donne?
La seconda sessione (Crisi
delle identità, critica delle appartenenze) è stata molto intensa e
interessante grazie alle relazioni di Annamaria Rivera e Cinzia Sciuto e alle presenze internazionali che ci hanno dato una
visione abbastanza ad ampio raggio della realtà mediterranea, come quelle dell’iraniana Maryam Namazie, la Palestinese Lema Nazeeh e la libanese Amany Sayyed sulla realtà delle donne in Medio Oriente. Coinvolgente il racconto di Orna Akad, israeliana ebrea sposata con un arabo musulmano, che ci ha presentato la quotidianità disastrosa del vivere in uno stato confessionale quale è Israele oggi, di ciò che comporta in termini di restrizioni e sofferenze per le donne e gli uomini di una parte e dell’altra del muro di cemento e filo spinato. Riassumendo, è stato
confermato quanto sia regressiva ed escludente, sotto il profilo dei diritti
delle donne, qualsiasi politica fondata sulle identità (siano esse etniche,
religiose, ideologiche o d’altro tipo) . Non perché l’identità non sia un
fattore culturale importante, ma perché essa è sempre in movimento e non la si
può intendere come fondante di una organizzazione politica e statale, chiusa ed
escludente.
Ma non crediamo, noi europee,
di essere al sicuro, ci ha detto Urszula
Kuczynska raccontandoci la Polonia di oggi dominata da una chiesa e una destra
cattolica fondamentaliste, dove le donne devono fare i conti con un tipo di
oscurantismo impensabile fino a qualche anno fa, ma dove si è sviluppato anche
un grande movimento per i diritti riproduttivi e contro le leggi regressive
sulla maternità libera.
L’esperienza delle donne
racconta di religioni, mono o politeiste, che si legano e sorreggono il
patriarcato. E tuttavia c’è un’altra
faccia della religiosità, quella che riguarda la sfera più personale e
soggettiva, che non si può ignorare in nome di una idea assoluta di laicità.
Questa esperienza ci parla di possibili riletture libertarie dei testi sacri,
di una teologia della liberazione, che
non è solo quella cristiana, che esiste anche una teologia della liberazione
islamica su cui sappiamo poco o nulla e che invece bisogna imparare ad
ascoltare. E ci suggerisce che laicità è
un valore da difendere, ma non da intendere come indifferenza rispetto alle
credenze: semmai, come pensiero critico aperto e trasversale rispetto a
qualsiasi credenza (o non credenza) individuale o di gruppo. C’è un rischio di
fondamentalismo “laicista” che può determinare atteggiamenti rigidi ed
escludenti.
Infine, nella terza sessione
(Scienza e tecnologia non sono neutre.
Onnipotenza o coscienza del limite?) ci si è chieste quali sono i limiti e
come costruire una coscienza critica in relazione a quello che è stato
avvistato come pericolo di fondamentalismo scientifico e tecnologico. Ci sono
aspetti cruciali che vanno esplorati, ha detto Flavia Zucco, come la
pervasività delle tecnologie nella vita individuale e sociale, con impatto
immediato su valori e cultura. C’è da affrontare il nodo della responsabilità
sociale che riguarda sia il mondo della scienza e tecnologia, sia il movimento
delle donne. Che significa per le donne riappropriarsi dei luoghi scientifici
sottraendoli al monopolio dell’accademia? E’ un discorso complesso e al tempo stesso scivoloso – su cui hanno ragionato Giuliana Beltrame e Barbara Bonomi Romagnoli con Caterina Botti, Eleonora Cirant e Bente Knoll – perché riguarda i linguaggi, le possibilità di relazionarsi
col mondo accademico, che è prevalentemente maschilista e sessista. Ragionando
di responsabilità sociale e disuguaglianze, esiste una contraddizione evidente
tra l’esaltazione del valore sociale della maternità – con le conseguenze sul
piano normativo e culturale – e le difficoltà crescenti che le donne madri incontrano
per la carenza di servizi adeguati. Ed esiste una contraddizione insita nel
fenomeno nascente del cosiddetto turismo riproduttivo, nel quale si determina
l’ingiustizia tra chi si può permettere di acquistare una maternità o paternità
surrogate e chi si piega per necessità a venderle. A margine della questione
serissima del rapporto oggi fra scienza
e corpo delle donne, è stato sfiorato il problema – che andrà ripreso e
sviluppato – dei media che riguardo a
certe tematiche preferiscono fare gossip, invece di andare al fondo di una
discussione approfondita capace di orientare fondatamente il pubblico.
Di ambiente e salute ha
ragionato Licia Gallo, dei gravissimi rischi da inquinamento ambientale e delle
ricadute di genere, su cui il nostro Paese registra un enorme ritardo. Un tema
che dovrà diventare centrale anche nell’agenda politica e dei movimenti delle
donne, sia in termini di ricadute socio-sanitarie, quanto all’apporto femminile
alla costruzione di movimenti di resistenza e all’elaborazione di proposte di
gestione sostenibile di territori e risorse.
Peraltro quella sull’organizzazione delle donne e le forme possibili di
resistenza e contrasto è stata una domanda che ha percorso trasversalmente
tutte le sessioni: è un nodo da sciogliere, soprattutto in considerazione della regressione politica in atto in Europa.
Come costruire buone relazioni tra i movimenti? Come le donne apportano novità
dentro le organizzazioni esistenti e le istituzioni? Come affrontano il nodo
del rapporto tra lotte dei movimenti e normative? Esiste un nesso chiaro, le
leggi sono il risultato che si può ottenere con le lotte. Ma è altrettanto
evidente che senza l’incalzamento e la capacità di tenuta dei movimenti
sociali, anche le norme più progressive si svuotano e la realtà regredisce.
Perché il movimento femminista oggi parla meno di conflitto col potere,
rispetto ai decenni passati? In particolare, parla poco di conflitto di classe.
Eppure è necessario riprendere questo discorso, se si vuole ripartire. Come
dare alla consapevolezza delle donne il
potere di cambiare? Di essere davvero quel “soggetto imprevisto”che irrompe
nella storia e porta il nuovo, l’alterità, ma senza distruzione? Bellissime, in
questo senso, sono state le esperienze portate al convegno dalla regista curda Leyla Toprak col suo film
su Kobane e Rojava, sulla lotta armata di resistenza condotta dalle donne in
formazioni separate, ma anche relativa alla ricostruzione autogestita dalle donne
curde con modalità che possono aprire
spazi inediti per tutte.
Certo è difficile riportare
la ricchezza di documentazione (ad esempio il dossier sui movimenti femministi in Nord Africa e Medio Oriente curato da Anna Vanzan e Renata Pepicelli) di contenuti, suggestioni e anche emozioni che si possono vivere
in tre giornate intense di confronto fra donne che hanno il futuro nella loro
testa. Ma per chi avesse voglia di una rilettura, rimandiamo al report completo
che si trova registrato in video e audio sul sito http://libertadonne21sec.altervista.org/ che continuerà ad essere attivo e produttivo.
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