08/12/10

Palestina/Israele. Donne di pace che hanno scelto il pericolo


Hanan Awwad (a destra) con Ada Donno a Lecce (2004)

DONNE DI PACE ARABE ED EBREE NEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE[1]

di Ada Donno


«Mi hanno costretta a scegliere / tra la morte e il varco / ma io ho scelto il pericolo / mi sposto passo dopo passo / senza curarmi delle fosse / che ostacolano il mio cammino…»



…Sono versi di Hanan Awwad, poeta, saggista, scrittrice palestinese. Ella stessa ce li recitò una sera d’estate di due anni fa a Serrano di Lecce, dove una giuria intelligente assegnò a lei e ad un suo collega e amico poeta israeliano un prezioso simbolico premio detto “Olio della poesia”.

Hanan è di Gerusalemme, nata da una famiglia di intellettuali da cui ha ricevuto un lascito inestinguibile: un viscerale attaccamento alla patria palestinese, una profonda conoscenza della straziata storia del suo popolo e, insieme, una volontà appassionata di difendere le libertà e i diritti umani universali.

Come poeta, ha scritto “con il sangue” il senso di perdita e la pena del suo popolo defraudato della terra, l’amore e lo struggimento per la patria incatenata, lo sconforto e la speranza irreprimibile. Come attivista, Hanan ha dedicato gli anni migliori della sua vita all’impegno per una giusta soluzione del conflitto Israelo-Palestinese, sempre ispirato alla consapevolezza che la pace per i palestinesi è fondamentale non solo per la qualità delle loro vite, ma per la loro stessa sopravvivenza.

Dal 1988 Hanan è presidente della Sezione palestinese della Women’s International League for Peace and Freedom. Nel 1990 fu tra i coordinatori di una memorabile Marcia per la pace con “catena umana” attorno a Gerusalemme, nel 1991 contribuì per la parte palestinese a preparare la conferenza sul Medio Oriente di Madrid.

Hanan osserva i suoi fratelli e sorelle palestinesi trasformati in rifugiati sulla loro stessa terra e si prodiga in una inesausta attività di movimento, di studio e di scrittura perché essi non siano spinti nell'assenza e perché la realtà palestinese non sia rimossa dalla coscienza del mondo.

Alyiah Strauss è israeliana: arguta, lo sguardo diretto e franco, indulgente e forte. Arrivò in Israele dall’Europa dell’Est inseguendo come tanti altri ebrei il sogno di una terra promessa. Ma non voleva realizzarlo al prezzo della distruzione di un sogno altrui. Né intendeva coprirsi di quella sorta di immunità morale che dà alle vittime di ieri il diritto di produrre altre vittime oggi.

Donne di pace che hanno scelto il pericolo

Alyiah è una donna di pace, sa che non può esserci pace là dove c’è occupazione militare, arbitrio, oppressione. È insegnante di liceo a Tel Aviv ed è presidente della Sezione israeliana della Women’s International League for Peace and Freedom, che è composta di donne arabe ed ebree insieme. Vede con apprensione la società israeliana diventare ogni giorno più reazionaria, bellicosa e chiusa in se stessa, vede le disuguaglianze e le violazioni dei diritti umani, il razzismo e l’ingiustizia acquistare nuove forme e significati che vengono accettati e giustificati da una larga parte della popolazione israeliana. Osserva la situazione sociale ed economica del suo paese e il sistema dell’istruzione in cui lavora e pensa che non possano non essere condizionati dal fatto che l’apparato militare e gli ininterrotti insediamenti abusivi di coloni nei territori occupati palestinesi inghiottono una enorme quota del bilancio nazionale a scapito di tutto il resto.

Un anno fa Alyiah venne all’Università del Salento, invitata ad un convegno su “La Nuova Triade Mediterranea: l’Acqua l’Olio e il Vino”, e coraggiosamente ed impietosamente ci raccontò come Israele nel 1967 si sia appropriato, insieme alle terre dei palestinesi, anche dell’altro elemento vitale: l’acqua. Aggiornò a nostro beneficio il bollettino doloroso delle attività quotidiane di sradicamento di alberi, demolizione di case e confisca di terreni, delle angherie e prepotenze dei coloni israeliani e della resistenza dei contadini palestinesi che difendono il loro diritto a coltivare la propria terra palmo a palmo, contro i bulldozer dell’esercito. Ci spiegò che la costruzione del famigerato Muro di Separazione, voluto dal governo Sharon, significava privare i contadini di pozzi d’acqua ed ulivi da cui traggono alimento e vita. Sentendola parlare, alcuni tra il pubblico si domandavano se non avessero capito male, se non fosse lei stessa palestinese.

Mi vengono alla mente queste due figure di donne, così ammirevoli e vere, mentre cerco un modo non banale di raccontare il lunghissimo impegno della Wilpf per la pace in Palestina. E penso che forse sia questo il modo migliore.

Per due ragioni fondamentali. La prima è che non basterebbero le pagine assegnatemi dalle curatrici di questo libro per contenere l’intera geografia e la storia dell’impegno della Wilpf per la Palestina e, più in generale, per il Medio Oriente.  Neppure se, potendolo fare, mi mettessi a ripercorrere la grande produzione di materiali scritti che documentano la lunga fatica di interlocuzione con le istituzioni internazionali, particolarmente con il sistema delle Nazioni Unite.


La Wilpf ha da poco compiuto novant’anni, il conflitto fra Israele e Palestina l’ha visto accendersi e divampare, ha assistito al succedersi delle drammatiche alterne vicende, è stata sollecitata a dire e ad agire, nei limiti ristretti delle possibilità date, per contribuire a che le due parti e la comunità internazionale trovassero una via d’uscita negoziata e giusta. Se non altro per il prestigio che le deriva dall’età (ma certo non solo per quello) è tuttora, fra le organizzazioni non governative, una voce ascoltata grazie agli “statuti consultivi” e alle “relazioni speciali" di cui gode con il Consiglio economico sociale e con le agenzie delle Nazioni Unite.

Ma temo che, limitandomi all’esame dei documenti, non renderei il senso di un lavoro creativo, appassionato e sapiente svolto negli anni dalle donne che hanno fondato la tradizione politica della Wilpf e dato a noi, generazioni venute dopo, la possibilità di continuarla, riprodurla o trasformarla in cinque continenti.

Né renderei giustizia (e questa è  la seconda delle ragioni di cui dicevo) a tutte le donne che hanno contribuito – e contribuiscono - a creare quel complesso spessore di rapporti, atti, giudizi politici che non possono non aver generato conseguenze, pur nella scarsa visibilità che il più delle volte avvolge il quotidiano caparbio agire delle donne (ma non è una qualità delle donne spostare le montagne senza farsene accorgere?) a tutte le latitudini e longitudini: da quelle che esponendosi prendono parola e si assumono la responsabilità della rappresentanza, a quelle che “scelgono il pericolo” e vanno sul campo, a quelle che si  muovono nel prezioso anonimato della ricerca di fondi o della raccolta di firme in calce ad un appello, fino alle tante e tante altre di cui non so, ma la cui stessa attività “invisibile” assicura la continuità dell’esperienza della Wilpf nel tempo e nello spazio.

L’impegno della Wilpf in Palestina

Partire dalle persone nei cui corpi, biografie e vite quotidiane è iscritto un conflitto devastante come quello palestinese-israeliano, insomma, aiuta a salvaguardare la complessità di un’azione politica che si configura come un difficile lavoro di mosaico, in un contesto così complicato che tante volte fa sentire piccole e inefficaci le nostre azioni e irrilevanti rispetto al mondo.

La Wilpf questo lavoro lo svolge movendosi su un duplice asse. Quello (cui ho accennato) della interlocuzione con le istituzioni alle quali la comunità internazionale affida – o dovrebbe affidare, ma questo accade sempre meno in tempi come questi in cui conta soltanto la volontà di un paese strapotente -  la ricerca di soluzioni negoziate dei conflitti. E quello dell’attività “grassroots”, o di base, che costituisce la nervatura vivente dell’organizzazione, quella che produce saperi e proposte, gesti e relazioni significative.


Hanan Awwad con Edith Ballantyne (a sin) a Goteborg nel 2004
Un lavoro che non è in sé concluso, ma sempre alla ricerca della sintonia, o anche solo della occasionale alleanza, con altre donne – e altri uomini - che nel mondo hanno altre storie, altre tradizioni politiche. E al contempo è un lavoro che, senza ignorare le concause lontane e profonde del conflitto, si orienta all’individuazione dei nodi storico-politici che hanno complicato la “questione palestinese”, per posizionarsi con puntualità rispetto ad essi e vagliarne senza ambiguità le possibili uscite. Partendo dalla guerra del 1967 per giungere, attraverso gli accordi di Oslo e la contrastata esistenza dell’Autorità Palestinese, fino ai nuovi inquietanti scenari aperti dalla recente vittoria elettorale di Hamas che (a seconda di come Israele e la comunità internazionale si rapporteranno ad essa) può significare una nuova drammatica complicanza oppure l’inizio di un imprevisto percorso di uscita.

Punto fermo della Wilpf è stato nel tempo il richiamo alla legge internazionale e alle numerose ( e mai applicate da Israele) risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che affermano il diritto d’Israele ad esistere e il diritto dei palestinesi ad auto-determinarsi costituendosi come stato indipendente e sovrano entro i confini segnati da quella “linea verde” violata 39 anni fa.

La Palestina nel corso degli ultimi decenni è stata immancabilmente iscritta in agenda nelle sessioni annuali del Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra e la Wilpf, presente nel Gruppo di lavoro delle organizzazioni non governative sul Medio Oriente, ha denunciato ad essa con tenacia la politica repressiva che ha stretto in una morsa le vite dei palestinesi e  ha reso i territori occupati – come ha riconosciuto onestamente l’attivista israeliano Uri Avnery -  “una serra in cui fioriscono gli attentatori kamikaze”.

C’è da chiedersi se i coprifuoco, i checkpoint, il muro di separazione, le demolizioni e le confische, che privano la popolazione palestinese dei residui di libertà e di vita, si giustifichino con il bisogno di sicurezza contro il terrorismo – dice una dichiarazione della Wilpf del 2005 – o non piuttosto con  il tentativo tutto politico di forzare le condizioni ultime di un accordo territoriale con i palestinesi annettendosi quante più terre. Lo stesso ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ordinato da Sharon è stato accolto dalla Wilpf con prudenza, mettendo in guardia contro la possibilità che si trattasse di «un disonesto tentativo di sottrarsi alla necessità di urgenti e autentici negoziati di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese».

Altrettanto dura è stata la critica rivolta all’inerzia delle istituzioni internazionali di fronte alla ri-occupazione brutale delle zone sotto il controllo dell’Autorità Palestinese ( «Come definire queste azioni di Israele, se non terrorismo di stato e crimine contro l’umanità, così come sono formulati dalla Convenzione dell’Aja del 1907, dalle Convenzioni di Ginevra, dal diritto internazionale e dall’Articolo 7 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale?») e di fronte all’implacabile procedere del muro, delle demolizioni e degli insediamenti illegali.

 «A stare in Palestina – ha scritto Edith Ballantynespecial advisor della Wilpf per il Medio Oriente, di ritorno a Ginevra da una missione laggiù, insignita dall’Onu del titolo simbolico di “donna del disarmo” – si prova fisicamente ed emotivamente euforia e fatica allo stesso tempo. È una terra bellissima, le valli verdi e le brulle colline scure ondulate proiettano un sorprendente mix di giovinezza e vecchiaia, di attività e riposo, di innocenza e sapienza. La terra invoca pace ma non c’è pace. Mentre ciascuno vorrebbe vivere in pace, c’è tensione, conflitto e guerra. E questo è vero allo stesso modo per palestinesi ed israeliani».

«Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano…»

Il 13 novembre del ’74 Yasser Arafat, allora presidente dell’OLP, si presentò ad una memorabile Assemblea generale delle Nazioni Unite tenendo in una mano il fucile e nell’altra un ramoscello d’ulivo, e pronunciò una frase rimasta negli annali: «Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano». Erano trascorsi appena quattro anni dall’orribile Settembre Nero e due dall’orrenda strage di Monaco. Alcuni vollero prendere quella preghiera per una minaccia, ma era in realtà il primo coraggioso passo verso l’accettazione della formula “due Stati per due popoli” proposta dalle Nazioni Unite.

Trent’anni dopo, il giornale democratico israeliano Yediot Ahanorot, commentando gli effetti della costruzione del Muro della vergogna, che stava trasformando l’ulivo da simbolo di pace in uno di furto ed estorsione, scriveva: «Un albero d’ulivo è una meraviglia della natura. Non a caso è divenuto un simbolo. Sia per gli israeliani che per i palestinesi. Essi traggono da lì la loro vita, e noi scriviamo canzoni di pace sulla proverbiale colomba e il ramo d’ulivo. Ma se questo è ciò che accade agli ulivi in nostro nome, Dio abbia pietà della colomba...».

Impedire che il ramo di ulivo secchi del tutto è ancora un obiettivo primario per le donne palestinesi ed israeliane della Wilpf, che sostengono attivamente strategie non violente di resistenza come la Olive Tree Campaign, progetto di piantumazione di nuovi ulivi là dove vengono sradicati; curano visite guidate nei Territori occupati finalizzate a “vedere con i propri occhi per testimoniare al mondo”;  promuovono giri di incontri con le comunità ebraiche degli Stati Uniti e di altri paesi; mettono in moto la diplomazia delle donne cercando il contatto con autorità di governo arabe alle quali chiedono maggiore responsabilità; tessono reti di relazioni con le altre donne del Medio Oriente; collaborano con le coraggiose donne di Machsom Watch, il gruppo che in Israele si occupa di documentare e testimoniare la brutale realtà dei posti di blocco, dei check-point e delle ruspe che spianano le case palestinesi, affinché anche gli israeliani ignari si rendano conto e nessuno possa dire: “Non sapevo”;  prendono parte nel centro di Tel Aviv alla muta  e severa protesta delle Donne in nero; collaborano alla Coalition of Women for Peace  e sostengono le attività di Bat Shalom a  difesa dei refusenik, i giovani obiettori di coscienza israeliani che finiscono sotto processo e in prigione.

A volte bastano piccoli gesti pieni di senso per misurarsi con quella sfida grande che è andare alla ricerca di una possibilità diversa di affrontare il conflitto e di trovare una soluzione che non sia distruttiva di corpi, culture e risorse ma si traduca anzi in forza rigeneratrice.

Noi sappiamo che “con la Palestina nel cuore” è cresciuta qui in Italia, come in molti paesi europei, una generazione del movimento delle donne che ha cercato di superare i limiti del pacifismo testimoniale per misurarsi con ciò che “le donne con le donne possono fare”, andando sui luoghi dei conflitti per rendersi conto di persona, stabilendo il contatto fisico con i corpi colpiti e martoriati, superando le farragini delle diplomazie istituzionali per far crescere parole di donna in merito a pace e guerra.

Il 31 ottobre 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 1325 che raccomanda ai governi di riservare alle donne una quota negli organismi deputati alla prevenzione e gestione dei conflitti a tutti i livelli decisionali.

La Wilpf ne ha fatto una sua bandiera, perché lo considera un riconoscimento senza precedenti alle capacità potenziali delle donne di negoziare e al ruolo determinante che esse possono avere nello sviluppo di un modello alternativo di mediazione e dialogo politico internazionale.

Nello stesso tempo ha lanciato e va sostenendo la proposta di un Consiglio di Sicurezza Mondiale delle Donne, una sorta di osservatorio internazionale sull’operato del Consiglio di Sicurezza ufficiale (definito “un conclave senza potere del cui operato dubitiamo perché produce più che altro insicurezze”) e delle strutture dell’Onu.

Naturalmente nessuno può assicurare in anticipo che un conflitto verrà risolto positivamente e pacificamente se le delegazioni che negoziano saranno composte per metà da donne. Ma assegnare alle donne la giusta metà dei posti attorno ai tavoli negoziali, dove si decide il futuro, può essere l’inizio di un’altra storia.



[1] Questo testo sta in: Quaderni di Satyagraha la forza della verità - La nonviolenza delle donne (a cura di G. Providenti, Libera Editrice Fiorentina, 2006)