Liberare il lavoro dagli stereotipi di genere
Una campagna di comunicazione sociale affronta, con leggerezza ed ironia, sei temi importanti per il mondo lavorativo e la vita delle donne: conciliazione vita - lavoro, tetto di cristallo, sessismo nei luoghi di lavoro, linguaggio stereotipato e disparità salariale
Sei poster fotografici per le strade di Lecce per una campagna di comunicazione che fa parte del progetto di cooperazione internazionale WOMEN AT WORK della Casa Delle Donne Lecce a cui partecipa Awmr Italia - donne della regione mediterranea insieme a Alveare Lecce, Meticcia Lecce, BLABLABLA, WILPF Albania, l'associazione albanese Aca Npo, col sostegno della Regione Puglia, CNA Impresa Donna, Assessorato pari opportunità del Comune di Lecce. Nel progetto è compreso il corso di formazione WAW cercare creare lavoro destinato a donne native e migranti residenti nel Salento, che viene realizzato in contemporanea anche in Albania.
Stereotipi sessisti più o meno radicati e attitudini discriminatorie persistono nel mondo del lavoro e, anziché diminuire
o scomparire, sembrano ritornare con maggiore aggressività in presenza, da una
parte, dei processi di deindustrializzazione e di mancata nuova occupazione connessi
con la crisi economica, che esasperano la competitività nel mercato del lavoro;
dall’altra, in presenza di politiche di austerità che incidono sui servizi
sociali e addirittura
pretendono di riformare il “ciclo di vita” delle persone. Tutti fattori che
giocano a sfavore delle donne e rischiano di annullare i risultati di decenni
di lotte di emancipazione.
#facciamochenonsiauneccezione è il claim che ricorre in ciascuno dei poster
fotografici, per ribadire che ciò che oggi rappresenta
una singolarità dovrebbe diventare una prassi, un’abitudine di vita condivisa
tra uomini e donne, un contesto culturale entro cui tutti e tutte debbano
riconoscersi, affinché ciascuno/a possa crescere
e vivere come persona, con bisogni e necessità che vanno al di là dello
stereotipo dei ruoli sociali.
È il caso del congedo
parentale, che ben rappresenta l’attuale situazione. Infatti, sebbene la
legislazione italiana preveda dal 2013 il
congedo per i neo-papà, la percentuale di uomini che ne beneficiano è ancora
troppo bassa. Dall'11,0% del 2012 al 18,4% del 2016, nonostante si riscontri
un aumento continuo, l’INPS non ritiene che questo dato sia un valore a
regime.
Il tetto di cristallo, come si sa, è quella barriera invisibile che impedisce tuttora alle donne di raggiungere posizioni dirigenziali e alti livelli manageriali in ogni campo del lavoro produttivo, riducendo anche i loro stipendi nei confronti degli uomini. Le statistiche dicono che tale meccanismo negativo, presente nel mercato del lavoro globale, agisce con maggior efficacia nel mondo del lavoro in Italia rispetto ad altri paesi europei. Analisi più approfondite indicano che non è solo una questione legata alla maternità e a mancate politiche di conciliazione vita-lavoro, ma è un meccanismo discriminatorio legato al persistere degli stereotipi di genere. A parità di curriculum vitae, gli uomini hanno più probabilità di accedere a ruoli dirigenziali e, a parità di performances, gli uomini hanno più probabilità di avanzare nella carriera.
Sessismo
nei luoghi di lavoro
Secondo le ultime rilevazioni statistiche condotte dall’ISTAT, sono 1 milione e 173 mila in Italia le donne che durante la loro vita hanno subìto ricatti sessuali sul posto di lavoro. In modo particolare, le disoccupate più delle occupate perché più vulnerabili; le indipendenti più delle dipendenti; le impiegate più delle operaie. Solo lo 0,7% però ha sporto denuncia, sia per paura di perdere il lavoro che per “vergogna” di essere giudicate dalla società e dai familiari. La campagna #metoo, nata negli Usa e diffusasi in breve in tutto il mondo per sensibilizzare il genere femminile nei confronti di abusi fisici o psicologici che possono avvenire sul posto di lavoro o in un qualunque altro contesto, ha contribuito ad aprire uno squarcio sul substrato sociale della violenza più diffusa e silenziosa esercitata sulle donne da parte degli uomini che occupano posizioni di potere nel mondo lavorativo. Il movimento #metoo ha avuto il merito di scoperchiare il vaso di Pandora della condizione di ingiustizia entro cui la relazione sociale fra donne e uomini è strutturata. Non si tratta soltanto di denunciare comportamenti moralmente riprovevoli, ma di scardinare la strutturale e radicata asimmetria di potere che tuttora caratterizza, anche nel mondo del lavoro e della produzione sociale, i rapporti fra uomini e donne.
La
gabbia del “lavori tipicamente maschili e/o femminili”
Spesso
le donne per essere accettate si adattano a rientrare in cliché di scelta e/o
di comportamento, cioè tendono a preferire lavori “tipicamente” femminili, oppure
ad imitare sul lavoro i comportamenti dei colleghi maschi. Alcune indagini
condotte fra lavoratrici con mansioni tradizionalmente maschili (tipografe,
camioniste, minatrici, guardie giurate, agenti di polizia, ma anche maestre
d’orchestra e avvocate) hanno messo in luce come esse avessero finito col
modificare il loro modo di essere, confermando così inconsapevolmente lo schema
della segregazione e divisione sessuale del lavoro. Accade allora che,
di una lavoratrice che dimostra buone capacità si dica che “è una donna con le
palle”.
Una forma mascherata di mancato riconoscimento delle capacità professionali delle donne è l’attribuzione di titolo professionale e qualifica lavorativa non declinati al femminile, come invece la lingua italiana consente agevolmente.
«Le donne sono più brave nei lavori di cura»
«Architetta suona strano, no?»
«Non puoi diventare uno chef, semmai una cuoca»
«Mi scusi, potrei parlare con l’ingegnere? Ah, è lei? Pensavo fosse la segretaria!»
Queste domande, apparentemente innocue, hanno alla base una concezione stereotipata del ruolo delle donne nella società. Le donne non intendono più rimanere nascoste e indistinte all'interno del genere grammaticale maschile. L’uso non indifferenziato, e perciò non discriminante, dei titoli professionali in riferimento alle donne è un risultato importante, perché l’appropriazione declinata al femminile di un appellativo, un titolo o una qualifica, favorisce nelle nuove generazioni la consapevolezza di un mondo più equo e diversificato a favore delle donne.
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