24/10/21

CURA E INCURIA 2. Le sfide del femminismo


Conclusi con successo i lavori del seminario Internazionale “CURA E INCURIA. Il mondo alla prova della pandemia e oltre…” organizzato dal FemmSdc Group (gruppo femminista attivo nella Società della Cura), in doppia modalità on line e in presenza, con traduzione simultanea in italiano, inglese francese, spagnolo, portoghese. 

Pubblichiamo l’introduzione alla seconda giornata, di Samanta Picciaiola (Associazione Orlando di Bologna)

Una delle prime parole che la pandemia ci ha consegnato è cura. Il paradigma della cura emerge già al termine del periodo del primo confinamento ed è carico di istanze ed echi diversi.

Cura non solo come rimedio alla malattia ma da subito cura come nuova postura dell’abitare il mondo (la cura del mondo di Elena Pulcini); cura come paradigma relazionale (prendersi cura di sé e delle altre, le nuove forme di sorellanza) e infine la cura come modello sociale da realizzare attraverso nuove pratiche di partecipazione diretta alla gestione delle risorse e dei beni comuni.

Le celebrazioni del ventennale di Genova ci hanno riportato alla cura come sintesi di un modello antitetico al capitalismo e al neoliberismo che visti attraverso il cono d’ombra del tempo hanno irresponsabilmente spinto nella direzione della rapina delle risorse e del pianeta.

 In tutte queste accezioni la parola cura è stata parola interrogata, analizzata e avocata dai femminismi contemporanei. Il manifesto della cura delle donne della Magnolia di Roma, la manifestazione del 25 settembre a Roma con le donne della Casa Internazionale e tante altre realtà femministe, l’Agenda politica di donne elaborata a Bologna, rappresentano tutti esempi nel nostro Paese di quello che è stato un muoversi trasversale delle donne che fa della cura un crocevia.

In questa seconda sessione di lavoro ci concentreremo sull’analisi di quelle che sono state le differenti articolazioni della cura nelle pratiche, nelle iniziative e nei movimenti delle donne in luoghi diversi del mondo.

Vorrei qui dare conto di alcune costanti che emergono nelle diverse esperienze di cui oggi sentiremo e che possono costituire una cartina di tornasole per orientarsi nella poliedricità delle pratiche che andremo a indagare.

Un primo cardine sta nel rapporto tra soggettività e risorse. La cura si fa concetto per descrivere una nuova coscienza del nostro “esserci” a livello globale. L’interdipendenza dei viventi - un principio con cui lo spill over ci ha drammaticamente costrette a fare i conti - si riflette nell’interdipendenza delle parti e degli attori sociali con una nuova apertura a tutte quelle soggettività che tradizionalmente sfuggivano all’analisi di contesto basate sulle leggi di mercato, del “consumo ergo sum". Il mondo attraverso la lente della cura appare così più variegato, meno canonizzato e più complesso rispetto a quanto il nostro sguardo pre Covid sapesse cogliere.  Perché lo stare nella malattia impone una serie di condizioni strettamente legate alla propria differenza che altrimenti la partizione tra spazio pubblico e spazio privato avrebbe continuato a celare e a rendere quasi invisibile. Essere ammalate di Covid 19 come donne, magari migranti, magari responsabili di un nucleo familiare o di persone non autosufficienti in un Paese che non riconosce gli stessi diritti e che non garantisce la stessa possibilità di autodeterminarsi, non può essere la stessa esperienza di malattia di un uomo cis-gender bianco in un paese occidentale.

Questa ricchezza di soggettività impone una destrutturazione di categorie consolidate: prima tra tutte l’essere in salute. L’assenza di una prospettiva forte di medicina di genere non ha permesso di indagare fino in fondo alcune questioni fondamentali quali le diverse risposte immunitarie a livello biologico al virus in relazione al genere (elemento messo in luce dalla virologa Ilaria Capua) così come le differenti ripercussioni dei vaccini nella popolazione maschile e in quelle femminile.

Strettamente legato a questo primo aspetto registriamo come attraverso le pratiche di cura assuma forza la rivendicazione della fragilità come condizione umana e delle fragilità come indici del benessere sociale di cui il soggetto pubblico dovrebbero farsi carico.

Sulle capacità di cura dei soggetti pubblici (gli Stati ma anche gli enti locali e le Istituzioni internazionali) si definisce un altro dei cardini attorno a cui organizzare il nostro ragionare oggi: la pandemia fa emergere i limiti strutturali e contestuali di alcune funzioni pubbliche attraverso cui si sostanzia il welfare e la concreta realizzazione del diritto alla salute.  Mi riferisco, ad esempio, al sistema sanitario e al sistema educativo che sono le linee di frattura lungo le quali hanno vacillato le nostre cosiddette democrazie occidentali. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nel sorreggere entrambi questi apparati. Sia perché le professioni specifiche relative alla sanità e all’istruzione sono professioni da sempre femminilizzate (infermiere e docenti come due esempi per tutte ) sia perché - abbandonando la sfera del lavoro retribuito entrando in quella del lavoro riproduttivo - sono state perlopiù le donne a farsi carico delle persone non autosufficienti, a supportare l’azione delle agenzie educative principali costrette ad agire da remoto. Ciò ha fatto sì che aumentasse il loro carico di lavoro e condensando lo stesso in un medesimo spazio (di vita e professionale) è esplosa tutta l’ambiguità di un’impalcatura di ruoli di genere obsoleta e schiacciante.

Dentro questa morsa, costata tantissimo alle donne anche solo in termini di occupazione e perdita di salario, le donne hanno sperimentato forme di neo-mutualismo attraverso pratiche solidaristiche che non si sono, però, limitate alla ripartizione di forze e incombenze, ma sono diventate sperimentazioni che aspirano a farsi modelli alternativi di governo delle comunità.

Penso in particolare ai luoghi delle donne. Nello specifico in Italia cito esperienze come quelle di Lucha y Siesta, ma lo stesso per i luoghi che ci ospitano oggi: a Bologna, Il Centro di documentazione ricerca e iniziativa delle donne che non ha mai smesso di fare analisi e raccolta delle esperienze, a Roma e a Lecce le Case e ai Centri antiviolenza che hanno agito per portare assistenza e cura.

 A fronte di questo rinnovato protagonismo delle donne abbiamo riscontrato una risposta debole e tardiva da parte delle politiche istituzionali a livello internazionale: una sorta di inerzia a recepire questo necessario salto di paradigma. I movimenti delle donne su scala mondiale chiedono una riconversione produttiva che punti a economie della cura che rigettano l’approccio neocolonialista, che cassano le spese per gli armamenti e ripropongono come strumenti della democrazia le diplomazie, l’ascolto, la partecipazione e la condivisione delle responsabilità.

Quello che accade in Afghanistan ci riporta alla pratica dei movimenti delle donne, pensiamo a RAWA da sempre accanto alle forze democratiche del Paese e che ha operato in termini di cooperazione sui territori e le comunità promuovendo un rapporto diverso con le risorse e la gestione delle stesse in una comunità.

La critica al PNRR realizzata dalla nostra rete, la richiesta di una suddivisione equa delle risorse per genere, la proposta di modelli progettuali differenti su cui immaginare nuove città, nuovi spazi comuni e nuovi spazi di donne, rappresentano un patrimonio di idee e modelli che non deve essere disperso. Di qui la necessità di questo interrogarci oggi, con la speranza di mappare su scala internazionale e definire nella pluralità dei nostri approcci quell’universo della cura che chiede di essere a pieno titolo assunto all’interno delle agende politiche internazionali.

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