Pubblichiamo l’introduzione alla seconda giornata, di Samanta Picciaiola (Associazione Orlando di Bologna)
Una delle prime parole che la
pandemia ci ha consegnato è cura. Il paradigma della cura emerge già al termine
del periodo del primo confinamento ed è carico di istanze ed echi diversi.
Cura non solo come rimedio alla
malattia ma da subito cura come nuova postura dell’abitare il mondo (la cura
del mondo di Elena Pulcini); cura come paradigma relazionale (prendersi cura di
sé e delle altre, le nuove forme di sorellanza) e infine la cura come modello
sociale da realizzare attraverso nuove pratiche di partecipazione diretta alla
gestione delle risorse e dei beni comuni.
Le celebrazioni del ventennale
di Genova ci hanno riportato alla cura come sintesi di un modello antitetico al capitalismo e al neoliberismo che
visti attraverso il cono d’ombra del tempo hanno irresponsabilmente spinto
nella direzione della rapina delle risorse e del
pianeta.
In questa seconda sessione di
lavoro ci concentreremo sull’analisi di quelle che sono state le differenti
articolazioni della cura nelle pratiche, nelle iniziative e nei movimenti delle
donne in luoghi diversi del mondo.
Vorrei qui dare conto di alcune
costanti che emergono nelle diverse esperienze di cui oggi sentiremo e che
possono costituire una cartina di tornasole per orientarsi nella poliedricità
delle pratiche che andremo a indagare.
Un primo cardine sta nel
rapporto tra soggettività e risorse. La cura si fa concetto per descrivere una
nuova coscienza del nostro “esserci” a livello globale. L’interdipendenza dei
viventi - un principio con cui lo spill over
ci ha drammaticamente costrette a fare i conti - si riflette nell’interdipendenza
delle parti e degli attori sociali con una nuova apertura a tutte quelle
soggettività che tradizionalmente sfuggivano all’analisi di contesto basate
sulle leggi di mercato, del “consumo ergo sum". Il mondo attraverso la
lente della cura appare così più variegato, meno canonizzato e più complesso
rispetto a quanto il nostro sguardo pre Covid sapesse cogliere. Perché lo stare nella malattia impone una
serie di condizioni strettamente legate alla propria differenza che altrimenti
la partizione tra spazio pubblico e spazio privato avrebbe continuato a celare
e a rendere quasi invisibile. Essere ammalate di Covid 19 come donne, magari
migranti, magari responsabili di un nucleo familiare o di persone non
autosufficienti in un Paese che non riconosce gli stessi diritti e che non
garantisce la stessa possibilità di autodeterminarsi, non può essere la stessa
esperienza di malattia di un uomo cis-gender bianco in un paese occidentale.
Questa ricchezza di soggettività
impone una destrutturazione di categorie consolidate: prima tra tutte l’essere
in salute. L’assenza di una prospettiva forte di medicina di genere non ha
permesso di indagare fino in fondo alcune questioni fondamentali quali le
diverse risposte immunitarie a livello biologico al virus in relazione al
genere (elemento messo in luce dalla virologa Ilaria Capua) così come le
differenti ripercussioni dei vaccini nella popolazione maschile e in quelle
femminile.
Strettamente legato a questo
primo aspetto registriamo come attraverso le pratiche di cura assuma forza la
rivendicazione della fragilità come condizione umana e delle fragilità come
indici del benessere sociale di cui il soggetto pubblico dovrebbero farsi carico.
Sulle capacità di cura dei
soggetti pubblici (gli Stati ma anche gli enti locali e le Istituzioni
internazionali) si definisce un altro dei cardini attorno a cui organizzare il
nostro ragionare oggi: la pandemia fa emergere i limiti strutturali e contestuali
di alcune funzioni pubbliche attraverso cui si sostanzia il welfare e la
concreta realizzazione del diritto alla salute.
Mi riferisco, ad esempio, al sistema sanitario e al sistema educativo
che sono le linee di frattura lungo le quali hanno vacillato le nostre
cosiddette democrazie occidentali. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale
nel sorreggere entrambi questi apparati. Sia perché le professioni specifiche
relative alla sanità e all’istruzione sono professioni da sempre femminilizzate
(infermiere e docenti come due esempi per tutte ) sia perché - abbandonando la
sfera del lavoro retribuito entrando in quella del lavoro riproduttivo - sono
state perlopiù le donne a farsi carico delle persone non autosufficienti, a
supportare l’azione delle agenzie educative principali costrette ad agire da
remoto. Ciò ha fatto sì che aumentasse il loro carico di lavoro e condensando
lo stesso in un medesimo spazio (di vita e professionale) è esplosa tutta
l’ambiguità di un’impalcatura di ruoli di genere obsoleta e schiacciante.
Dentro questa morsa, costata
tantissimo alle donne anche solo in termini di occupazione e perdita di
salario, le donne hanno sperimentato forme di neo-mutualismo attraverso
pratiche solidaristiche che non si sono, però, limitate alla ripartizione di
forze e incombenze, ma sono diventate sperimentazioni che aspirano a farsi
modelli alternativi di governo delle comunità.
Penso in particolare ai luoghi
delle donne. Nello specifico in Italia cito esperienze come quelle di Lucha y Siesta, ma lo stesso per i
luoghi che ci ospitano oggi: a Bologna, Il
Centro di documentazione ricerca e iniziativa delle donne che non ha mai
smesso di fare analisi e raccolta delle esperienze, a Roma e a Lecce le Case e ai Centri antiviolenza che
hanno agito per portare assistenza e cura.
Quello che accade in Afghanistan
ci riporta alla pratica dei movimenti delle donne, pensiamo a RAWA da sempre
accanto alle forze democratiche del Paese e che ha operato in termini di
cooperazione sui territori e le comunità promuovendo un rapporto diverso con le
risorse e la gestione delle stesse in una comunità.
La critica al PNRR realizzata dalla nostra rete, la richiesta di una suddivisione equa delle risorse per genere, la proposta di modelli progettuali differenti su cui immaginare nuove città, nuovi spazi comuni e nuovi spazi di donne, rappresentano un patrimonio di idee e modelli che non deve essere disperso. Di qui la necessità di questo interrogarci oggi, con la speranza di mappare su scala internazionale e definire nella pluralità dei nostri approcci quell’universo della cura che chiede di essere a pieno titolo assunto all’interno delle agende politiche internazionali.
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