... per gridare, non come vittime ma come protagoniste, la nostra rabbia, la nostra voglia di autodeterminazione e la forza delle nostre pratiche politiche
Awmr Italia
aderisce alle iniziative della Giornata internazionale per l’eliminazione
della violenza contro le donne
Oggi più che
mai, il 25 novembre non può essere assimilato ad altri eventi rituali e
istituzionalizzati, né deprivato della sua valenza politica originaria di sfida
che il femminismo ha lanciato alla narrazione patriarcale dominante.
La violenza
maschile sulle donne - che è stata riconosciuta (dati Onu) come la prima causa
di morte e di invalidità permanente per le donne in tutto il mondo - è una
storia infinita che si continua a far passare come devianza di singoli, per
ricondurla a un mero problema di sicurezza delle città o di ordine pubblico.
La violenza
maschile sulle donne si porta dietro una storia millenaria che ha giustificato,
fino a tempi recentissimi, sotto il profilo morale e giudiziario, gli uomini
che l’hanno commessa e continuano a commetterla. Essa affonda le sue radici
nell’arcaico diritto patriarcale che codificò l’appartenenza delle donne, insieme
con la terra e i mezzi di produzione, agli uomini.
Le violenze
sulle donne continuano ad essere perpetrate nella società moderna principalmente
là dove si strutturano rapporti di potere e di dipendenza: all’interno dei
nuclei familiari, dei luoghi di lavoro, delle crisi migratorie, dei teatri di
guerra. Gli stupri di guerra sono il paradigma di ogni violenza sulle donne.
Anche se la
violenza attraversa tutte le classi sociali e condizioni economiche, la
dipendenza economica delle donne, la condizione di bisogno, ne costituisce un
incentivo non secondario.
Il fenomeno
emerge dal sommerso e si rivela nella sua reale dimensione grazie al fatto che
sempre più donne rompono il silenzio, dichiarano la propria indisponibilità a
subire, elaborano le conseguenze, affrontando un percorso di cambiamento
profondo che certamente richiede l’impegno delle diverse componenti della
società, dai Centri Antiviolenza alle istituzioni tutte, ma che nasce e si
sviluppa principalmente nei luoghi dove si elabora l’autodeterminazione delle
donne.
L’interiorizzazione
del ruolo subordinato assegnato alle donne nell’organizzazione sociale viene da
molto lontano. C’è stato un tempo in cui le donne lo hanno subito e molte lo
subiscono ancora.
Ma oggi è il
tempo per le donne, dopo decenni di lotte per la decostruzione della cultura
patriarcale che ha mostrato tutti i suoi limiti di unilateralità e la sua
insufficienza, di affermare il ruolo che esse stesse hanno elaborato per sé, di
viverlo con orgoglio e determinazione e di esplicare le nuove capacità che rendono
possibile un’altra visione del mondo e della vita.
Le politiche
cosiddette di “inclusione”, le quote di rappresentanza, le politiche di parità,
a partire da quella salariale, sono iscritte da tempo nelle costituzioni e
nelle leggi dei moderni stati democratici, grazie alle lotte condotte dai
movimenti femministi nei due ultimi secoli. Ed è una vergogna che ancora oggi dobbiamo
lottare per rivendicarne l’applicazione e per eliminare tutte le forme di
discriminazione che già le moderne legislazioni proclamano abolite. Ma è anche una grande ipocrisia del potere
patriarcale, dei governi e dei mass media asserviti, ostentare indignazione perché
non siamo abbastanza rappresentate nella politica, nei consigli
d’amministrazione, nelle posizioni apicali e nei luoghi decisionali. O far
mostra di contrizione per l’esclusione massiccia delle donne dal mondo del
lavoro, per la percentuale crescente di donne in povertà assoluta e relativa.
È una
narrazione insopportabilmente ipocrita che non vede, o finge di non vedere, che
è presente nel mondo ad ogni latitudine un soggetto politico femminile che non
vuole essere “incluso” nel paradigma politico esistente, né vuole essere
“annesso” alle stanze del potere patriarcale dominante.
Avere donne
capo di governo, ministre, magistrate, manager, donne in posizioni apicali nei
grandi istituti bancari e perfino negli esecutivi di alleanze militari
internazionali, senza però che alcun cambiamento sostanziale sia impresso all’ordine
delle cose esistenti; senza che nulla, o quasi, cambi – se non forse in termini
di maggiore operosità, solerzia, rendimento ed efficienza – nella direzione
politica; senza che venga in alcun modo modificata una visione dell’economia
blindata dalle leggi del
profitto, della gestione privatistica delle risorse, dell’iniquo sviluppo umano, della
cieca prospettiva di futuro del pianeta: è quello che ci serve?
La nostra
idea d’inclusione è inscindibilmente legata a quella di cambiamento radicale
dello stato di cose presente. Ci fa rabbrividire la riproposizione degli stessi
errori che vengono presentati come soluzioni all’attuale crisi sociosanitaria. C’indigna
l’assuefazione alla violenza, alla discriminazione e ai soprusi, indotta da chi
promette tempi migliori per dopo, quando avremo pagato anche quest’altro
tributo.
Le case
delle donne, gli spazi femministi diffusi in ogni territorio del nostro paese –
ma non solo nel nostro paese – hanno proposto un cambio di paradigma politico
che hanno chiamato “rivoluzione della cura”. Cura non solo come rimedio alla malattia, ma come differente
paradigma relazionale entro cui declinare i diritti di tutte e tutti. Cura come
leva per la trasformazione sociale e politica, come modo differente di abitare
il mondo.
La nuova
sfida è vincere l’inerzia a recepire questo necessario salto di paradigma. Se
nulla sarà più come prima, dipenderà da noi, dalla nostra capacità di costruire
e moltiplicare gli spazi femministi dove si elabori la nostra differente
visione del mondo e la libertà di tutte di decidere delle proprie vite nel
pubblico e nel privato.
Scendiamo in
piazza e prendiamo la parola per gridare, non come vittime ma come protagoniste,
la nostra rabbia, la nostra voglia di autodeterminazione e la forza delle
nostre pratiche politiche.
25 novembre
2021
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