07/06/24

Proteste studentesche / La Palestina è oggi la nostra coscienza, come ieri fu il Vietnam

 Nella lotta al fianco dei palestinesi che resistono contro l’occupazione israeliana si aprono nuovi orizzonti di resistenza e di liberazione per le nuove generazioni di tutto il mondo.


di Ada Donno*

L’ondata di proteste che sta scuotendo i campus universitari degli Stati Uniti dilaga in ogni continente. Si allestiscono tendopoli nelle aree delle principali università in Asia, America Latina, Oceania e Medio Oriente, aule di atenei vengono occupate in Europa dagli studenti che chiedono ai vertici accademici di tagliare i rapporti con l'industria bellica israeliana, denunciano le complicità dei governi con i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, con l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e con 75 anni di un processo di colonizzazione di lunga durata fatto di oppressione, apartheid e sfruttamento. Si levano anche voci di giovani della diaspora ebraica che prendono posizione contro il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo sionista israeliano, che pretende illegittimamente di parlare a nome di tutti gli ebrei.

Anche in Italia la protesta degli studenti muove dalla condanna della guerra di sterminio a Gaza e della vendita di tecnologia bellica a Israele da parte di aziende come Leonardo, per estendersi alla licenza fornita a Eni per l’esplorazione relativa a gas in acque territoriali palestinesi, alle logiche militariste e alla moltiplicazione delle basi militari della NATO, al coinvolgimento delle infrastrutture civili del paese, come porti e aeroporti nell’invio di armi nei territori in guerra, ai rapporti sempre più stretti tra industria bellica e istituzioni educative.

Sono centinaia le università coinvolte e notizie di proteste pro Palestina continuano a giungere da ogni continente. A Nuova Delhi la Federazione degli studenti indiani, affiliata al partito comunista, denuncia “la posizione assunta dal governo in sostegno di Israele, deviando da una posizione storica dell'India". Nei paesi Europei, negli Stati Uniti e in Canada le manifestazioni pacifiche sono state represse con una brutalità sproporzionata da parte delle forze dell’ordine. In poche settimane, studenti e docenti, compresi studenti e docenti ebrei, hanno subito migliaia di arresti, violenze e intimidazioni per aver esercitato il loro diritto di parola. In alcuni casi le forze dell'ordine in assetto anti-sommossa che hanno fatto irruzione nelle facoltà per evacuare gli studenti che avevano occupato le aule, sono state supportate da gruppi di contro-manifestanti di estrema destra e sionisti che fiancheggiano la repressione e veicolano una narrazione degli eventi in Medio Oriente che non fa distinzione tra oppressi e oppressori, tra antisionismo e antisemitismo.

Quanto ai media mainstream, in gran parte si esercitano nel negazionismo e nei tentativi di riscrivere la narrativa sulla protesta pacifica di questi studenti, accusati di “vandalismo” e di connivenza col terrorismo. In un vergognoso tentativo di deviare le responsabilità e minare la legittima protesta, si pone l’enfasi sull’aumento dell’antisemitismo fra i giovani che creerebbe “un'atmosfera ostile e tossica verso gli studenti ebrei", mentre si occulta il dilagante razzismo anti-palestinese e l’islamofobia seminata dagli stessi media.

Invece di prestare ascolto alle argomentazioni dei manifestanti e di sostenere il loro diritto alla libera espressione e riunione, li si rende bersagli di fronte agli attacchi della repressione, ribaltando sugli studenti, che chiedono all'università di boicottare le società che fanno affari con Israele, l’accusa di voler negare la libertà di ricerca all’istituzione universitaria.  

Nelle università dell’America Latina, d’altra parte, si canta, con un impressionante salto generazionale, una canzone che il popolare cantautore Silvio Rodriguez compose ai tempi della guerra del Vietnam, nei giorni in cui l’esercito statunitense minò il porto di Haiphong, il luogo in cui arrivavano gli aiuti umanitari al Vietnam del Nord: bombardato e minato perché non arrivassero i soccorsi alla popolazione civile, esattamente come oggi accade alla popolazione di Gaza.

Analogia che non è pura coincidenza. Il raffronto con “gli anni del Vietnam”, infatti, rimbalza qua e là nei commenti di alcuni osservatori più attenti. Talvolta con dispetto, ma più spesso con speranza. Perché riporta la generazione che la vissero all’epopea del piccolo coraggioso popolo dell’Indocina che, scavando cunicoli e tunnel nella giungla, resistette e infine sconfisse il gigante imperialista americano. Non fu solo una lotta di liberazione di un popolo dal colonialismo. Fu una speranza che si apriva per il mondo.

Città Ho Chi Minh - Museo della Resistenza (Foto MG Donno)

A Città Ho Chi Min, nel sud del Vietnam, c’è un Museo dei Residui di Guerra, oggi meta turistica consigliata a chi visita il paese, in cui sono raccolte le testimonianze di quell’epopea sanguinosa e vincente: fra le altre, c’è un angolo che documenta la solidarietà internazionale che si levò nei paesi occidentali. Nella sezione dedicata all’Europa campeggia una scritta in italiano: “Il VIETNAM È LA NOSTRA COSCIENZA”.

Le analogie non sono casuali. Gaza può diventare la coscienza dell’ultima generazione? Questa generazione spesso accusata di essere apatica, legata al denaro e irrimediabilmente corrotta dal consumismo capitalistico? Probabilmente l’immediato benefico contagio è ciò che fa paura e scatena la sproporzionata reazione repressiva e i rigurgiti velenosi che si riversano sui giovani del campus universitari.

Poca simpatia si manifesta per questa generazione di giovani, come per lungo tempo non ce ne fu verso i ragazzi e le ragazze che presero coscienza di sé protestando contro la guerra del Vietnam e aprendo la via alla svolta epocale del ’68.

Vale la pena di ricordare che questa nuova ondata di protesta, che ha per protagonisti giovanissime e giovanissimi studenti, non ha il vuoto alle spalle. Ad ondate generazionali successive, nuovi fronti di protesta e di lotta si sono aperti nel mondo giovanile nel corso dei decenni del secondo dopoguerra.

Solo per restare nell’ultimo decennio, ricordiamo che nel Forum Sociale Mondiale che si riunì in Canada nel 2016, nutrite schiere di partecipanti provenivano dal movimento “Occupy Wall Street”, dalle lotte studentesche dell’agosto di quell’anno contro la privatizzazione del sapere, dalle lotte contro le grandi pipeline, dall’impegno per un’energia pulita e contro un modello di sviluppo energivoro fondato sui combustibili fossili.

Erano giovani tra i 20 e i trent’anni che avevano grande familiarità con il mondo del web, che non portavano sulle loro spalle il peso del ‘900, ma erano cresciuti in un mondo dominato dalle multinazionali, avevano sperimentato il dominio della finanza e del mercato capitalistico sulle loro vite e stavano acquisendo consapevolezza dell’assenza assoluta di tutele sul proprio futuro. Conoscevano forse meno la storia del colonialismo e delle lotte di liberazione dei popoli, ma erano impegnati in dibattiti complessi sul WTO, il TTIP, gli accordi TRIPs sulla proprietà intellettuale e sui medicinali, organizzavano campagne per la chiusura dei paradisi fiscali e per la messa al bando dei “derivati” nella finanza.

Anch’essi furono accusati di “fare disordine” perché sostenevano che l’assistenza sanitaria è un diritto umano e chiedevano uguaglianza e fine dell’ingiustizia.

Quattro anni dopo, nel 2020, in piena crisi pandemica, il mondo giovanile fu scosso dal grido I can’t breathe: non riesco a respirare! Milioni di persone in tutto il mondo scesero nelle strade scandendo quelle ch’erano state le ultime parole di George Floyd, il cittadino Usa afroamericano ucciso per soffocamento da un poliziotto bianco.

Non era solo una dimostrazione della rabbia accumulata nei confronti della pluridecennale violenza esercitata contro le minoranze nel cuore dell’impero, non era solo l’affermazione che “le vite dei neri contano” e la denuncia della brutalità della polizia, ma il risultato del malcontento di massa per il continuo deterioramento sociale e delle condizioni economiche e di vita della maggior parte della popolazione. Allora l'amministrazione Trump contribuì ad acuire ulteriormente la crisi ignorando che quelle massicce proteste erano anche il risultato dell'incapacità del governo di gestire il malessere sociale e la disoccupazione di oltre 40 milioni di lavoratori, in particolare afroamericani, incoraggiando invece la repressione poliziesca e minacciando l’intervento dell’esercito. L’establishment politico ed economico degli Stati Uniti, evidentemente, temeva l’estendersi di una presa di coscienza più profonda da parte della generazione più giovane sulla intrinseca natura razzista e oppressiva del sistema capitalista.

Forse le giovani e i giovani che occupavano simbolicamente Wall Street non avevano ben chiaro cosa volere e quale soluzione trovare alla crisi. Certamente le decine di migliaia di persone che manifestavano in ogni forma la propria indignazione per l‘agonia di un nero inerme, soffocato da un poliziotto bianco immobile e sordo alla legge e alle suppliche, chiedevano che a nessuno essere umano fosse negato il diritto di respirare. Un ideale minimo di giustizia. Ma fu anche, come disse qualcuno più sensibile, l’occasione per riflettere, gestire paure, coltivare ideali. E ragionare sui danni delle cattive politiche sociali e ambientali, su quanto male fanno la corruzione, l’incompetenza, l’inquinamento, la discriminazione. Su come i diritti e le libertà possano essere goduti individualmente solo se sono universalmente condivisi e tutelati.

In questi giorni, mentre in Italia assistiamo alla ridicola retorica vittimistica dei ministri dell’interno e dell’istruzione, o della ministra della famiglia Roccella, che con paradossale capovolgimento dei termini lamentano di aver subito la censura e l’aggressione verbale da parte di contestatori giovanissimi; mentre in Italia e in Europa faccendieri di ogni risma, imprenditori e amministratori corrotti e contigui al governo di destra piagnucolano di essere ostacolati nelle loro ladronesche attività da eccessivi controlli, lacci e lacciuoli; mentre in Israele il genocida Netanyahu, con la complicità dei neocolonialisti occidentali, si proclama vittima dell’antisemitismo che pervaderebbe i campus universitari di tutto il mondo…, tornano alla mente le osservazioni di Gramsci sulla così detta “crisi di autorità” delle vecchie generazioni dirigenti e sul meccanico impedimento posto da queste alle nuove generazioni che vorrebbero svolgere la loro missione di trasformazione e rinnovamento.

«Da che viene l’irrequietezza?», si interrogava Antonio Gramsci, mentre era rinchiuso dal fascismo in un carcere amaro che lo avrebbe portato alla morte, riflettendo sulle crisi epocali che attraversano le società quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»[1]. Può il puro esercizio della forza impedire a nuove ideologie d’imporsi? si chiedeva Gramsci. La crisi di cui si impedisce con la repressione violenta la soluzione “storicamente normale”, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio, come era accaduto dopo la prima guerra mondiale e la presa del potere violenta da parte dei fascisti?

E, collegando la riflessione alla “quistione dei giovani”, provava a rispondere: «Si può dire che questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza. L’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si “confessa” ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice, produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: alla irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà… Le responsabilità maggiori in questa situazione sono degli intellettuali e degli intellettuali più anziani. L’ipocrisia maggiore è degli intellettuali e degli intellettuali anziani. Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme caotiche del caso, c’è il riflesso di questo giudizio di condanna… I giovani vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative… e diventano tanto più irrequieti e scontenti. Ciò che aggrava la situazione è che si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione si sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa…»[2].

In un momento di oscurità e incertezza come quello che stiamo attraversando, le proteste esplodono e fanno sperare all’umanità che la giustizia non sia un concetto astratto, ma un obiettivo universale che, partendo dalla lotta al fianco dei palestinesi che resistono, apra nuovi orizzonti di resistenza e di liberazione che uniscano tutti nell’opposizione alle politiche che rendono possibile e legittimano il genocidio e l’apartheid, il nuovo colonialismo, il capitalismo, il razzismo e il patriarcato, sistemi intrecciati che si nutrono a vicenda e riproducono confini e ideologie retrive.

Nella lotta al fianco dei palestinesi che resistono si aprono nuovi orizzonti di resistenza e di liberazione, perché – come dice il comunicato dell’ANPI in occasione del 25 Aprile – domani nei libri di storia non si debba scrivere che alla generazione dei primi decenni del XXI secolo mancò la chiarezza intellettuale e il coraggio morale per opporsi al fascismo di ritorno, alla guerra, all’ottundimento delle menti indotto dalla propaganda menzognera, al ricatto sociale che genera indifferenza o paura.

Come altre precedenti ondate di protesta, questa di oggi, fortemente motivata dal sentimento di solidarietà con la causa Palestinese, potrebbe essere “riassorbita dal sistema”? Nel ’68 avvenne una saldatura del movimento studentesco col movimento operaio che aprì orizzonti nuovi di liberazione alle generazioni giovanili di ogni latitudine. Potrebbe avvenire la stessa cosa per il nuovo movimento, se sarà sostenuto da una coscienza di classe che guidi verso l’uscita dal modo di sviluppo capitalistico, dalla distruttività dei processi di sfruttamento del lavoro e dalle crescenti disuguaglianze e povertà, dalle guerre divenute ormai progetto operativo permanente del sistema di dominio economico-politico-militare che pretende di assoggettare il pianeta agli interessi del profitto.

Non è da escludere in assoluto che ciò possa avvenire, come diceva Gramsci. Tuttavia ad ogni passaggio d’epoca, i movimenti giovanili di protesta introducono elementi nuovi di coscienza che lasciano il segno, comunque. E da questi può nascere un’altra storia.

* L’articolo è stato pubblicato su ReC – Ragioni e Conflitti, periodico d’informazione del Partito Comunista Italiano n. 24/2024.

[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi editore, vol. I, pp.311 e seg.

[2] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi editore, vol. III, pp.1717 e seg.

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