Nella lotta al fianco dei palestinesi che resistono contro l’occupazione israeliana si aprono nuovi orizzonti di resistenza e di liberazione per le nuove generazioni di tutto il mondo.
di Ada Donno*
L’ondata di proteste che sta scuotendo i campus
universitari degli Stati Uniti dilaga in ogni continente. Si allestiscono
tendopoli nelle aree delle principali università in Asia, America Latina,
Oceania e Medio Oriente, aule di atenei vengono occupate in Europa dagli
studenti che chiedono ai vertici accademici di tagliare i rapporti con
l'industria bellica israeliana, denunciano le complicità dei governi con i
bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza, con l’occupazione israeliana
dei Territori Palestinesi e con 75 anni di un processo di colonizzazione di
lunga durata fatto di oppressione, apartheid e sfruttamento. Si levano anche voci
di giovani della diaspora ebraica che prendono posizione contro il piano di
annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo sionista
israeliano, che pretende illegittimamente di parlare a nome di tutti gli ebrei.
Anche in Italia la protesta degli studenti muove dalla
condanna della guerra di sterminio a Gaza e della vendita di tecnologia bellica
a Israele da parte di aziende come Leonardo, per estendersi alla licenza fornita
a Eni per l’esplorazione relativa a gas in acque territoriali palestinesi, alle
logiche militariste e alla moltiplicazione delle basi militari della NATO, al
coinvolgimento delle infrastrutture civili del paese, come porti e aeroporti nell’invio
di armi nei territori in guerra, ai rapporti sempre più stretti tra industria
bellica e istituzioni educative.
Sono centinaia le università coinvolte e notizie di proteste
pro Palestina continuano a giungere da ogni continente. A Nuova Delhi la Federazione
degli studenti indiani, affiliata al partito comunista, denuncia “la posizione
assunta dal governo in sostegno di Israele, deviando da una posizione storica
dell'India". Nei paesi Europei, negli Stati Uniti e in Canada le
manifestazioni pacifiche sono state represse con una brutalità sproporzionata
da parte delle forze dell’ordine. In poche settimane, studenti e docenti,
compresi studenti e docenti ebrei, hanno subito migliaia di arresti, violenze e
intimidazioni per aver esercitato il loro diritto di parola. In alcuni casi le
forze dell'ordine in assetto anti-sommossa che hanno fatto irruzione nelle
facoltà per evacuare gli studenti che avevano occupato le aule, sono state
supportate da gruppi di contro-manifestanti di estrema destra e sionisti che
fiancheggiano la repressione e veicolano una narrazione degli eventi in Medio
Oriente che non fa distinzione tra oppressi e oppressori, tra antisionismo e
antisemitismo.
Quanto ai media mainstream,
in gran parte si esercitano nel negazionismo e nei tentativi di riscrivere la
narrativa sulla protesta pacifica di questi studenti, accusati di “vandalismo”
e di connivenza col terrorismo. In un vergognoso tentativo di deviare le
responsabilità e minare la legittima protesta, si pone l’enfasi sull’aumento
dell’antisemitismo fra i giovani che creerebbe “un'atmosfera ostile e tossica
verso gli studenti ebrei", mentre si occulta il dilagante razzismo
anti-palestinese e l’islamofobia seminata dagli stessi media.
Invece di prestare ascolto alle argomentazioni dei
manifestanti e di sostenere il loro diritto alla libera espressione e riunione,
li si rende bersagli di fronte agli attacchi della repressione, ribaltando sugli
studenti, che chiedono all'università di boicottare le società che fanno affari
con Israele, l’accusa di voler negare la libertà di ricerca all’istituzione
universitaria.
Nelle università dell’America Latina, d’altra parte, si
canta, con un impressionante salto generazionale, una canzone che il popolare
cantautore Silvio Rodriguez compose ai tempi della guerra del Vietnam, nei
giorni in cui l’esercito statunitense minò il porto di Haiphong, il luogo in
cui arrivavano gli aiuti umanitari al Vietnam del Nord: bombardato e minato
perché non arrivassero i soccorsi alla popolazione civile, esattamente come
oggi accade alla popolazione di Gaza.
Analogia che non è pura coincidenza. Il raffronto con
“gli anni del Vietnam”, infatti, rimbalza qua e là nei commenti di alcuni
osservatori più attenti. Talvolta con dispetto, ma più spesso con speranza.
Perché riporta la generazione che la vissero all’epopea del piccolo coraggioso
popolo dell’Indocina che, scavando cunicoli e tunnel nella giungla, resistette
e infine sconfisse il gigante imperialista americano. Non fu solo una lotta di
liberazione di un popolo dal colonialismo. Fu una speranza che si apriva per il
mondo.
Città Ho Chi Minh - Museo della Resistenza (Foto MG Donno)
A Città Ho Chi Min, nel sud del Vietnam, c’è un Museo
dei Residui di Guerra, oggi meta turistica consigliata a chi visita il paese,
in cui sono raccolte le testimonianze di quell’epopea sanguinosa e vincente:
fra le altre, c’è un angolo che documenta la solidarietà internazionale che si
levò nei paesi occidentali. Nella sezione dedicata all’Europa campeggia una
scritta in italiano: “Il VIETNAM È LA NOSTRA COSCIENZA”.
Le analogie non sono casuali. Gaza può diventare la
coscienza dell’ultima generazione? Questa generazione spesso accusata di essere
apatica, legata al denaro e irrimediabilmente corrotta dal consumismo
capitalistico? Probabilmente l’immediato benefico contagio è ciò che fa paura e
scatena la sproporzionata reazione repressiva e i rigurgiti velenosi che si
riversano sui giovani del campus universitari.
Poca simpatia si manifesta per questa generazione di
giovani, come per lungo tempo non ce ne fu verso i ragazzi e le ragazze che
presero coscienza di sé protestando contro la guerra del Vietnam e aprendo la
via alla svolta epocale del ’68.
Vale la pena di ricordare che questa nuova ondata di
protesta, che ha per protagonisti giovanissime e giovanissimi studenti, non ha
il vuoto alle spalle. Ad ondate generazionali successive, nuovi fronti di
protesta e di lotta si sono aperti nel mondo giovanile nel corso dei decenni del
secondo dopoguerra.
Solo per restare nell’ultimo decennio, ricordiamo che nel
Forum Sociale Mondiale che si riunì in Canada nel 2016, nutrite schiere di
partecipanti provenivano dal movimento “Occupy Wall Street”, dalle lotte
studentesche dell’agosto di quell’anno contro la privatizzazione del sapere,
dalle lotte contro le grandi pipeline, dall’impegno per un’energia pulita e
contro un modello di sviluppo energivoro fondato sui combustibili fossili.
Erano giovani tra i 20 e i trent’anni che avevano grande
familiarità con il mondo del web, che non portavano sulle loro spalle il peso
del ‘900, ma erano cresciuti in un mondo dominato dalle multinazionali, avevano
sperimentato il dominio della finanza e del mercato capitalistico sulle loro
vite e stavano acquisendo consapevolezza dell’assenza assoluta di tutele sul
proprio futuro. Conoscevano forse meno la storia del colonialismo e delle lotte
di liberazione dei popoli, ma erano impegnati in dibattiti complessi sul WTO,
il TTIP, gli accordi TRIPs sulla proprietà intellettuale e sui medicinali,
organizzavano campagne per la chiusura dei paradisi fiscali e per la messa al
bando dei “derivati” nella finanza.
Anch’essi furono accusati di “fare disordine” perché
sostenevano che l’assistenza sanitaria è un diritto umano e chiedevano uguaglianza
e fine dell’ingiustizia.
Quattro anni dopo, nel 2020, in piena crisi pandemica,
il mondo giovanile fu scosso dal grido I
can’t breathe: non riesco a respirare! Milioni di persone in tutto il mondo
scesero nelle strade scandendo quelle ch’erano state le ultime parole di George
Floyd, il cittadino Usa afroamericano ucciso per soffocamento da un poliziotto
bianco.
Non era solo una dimostrazione della rabbia accumulata
nei confronti della pluridecennale violenza esercitata contro le minoranze nel
cuore dell’impero, non era solo l’affermazione che “le vite dei neri contano” e
la denuncia della brutalità della polizia, ma il risultato del malcontento di
massa per il continuo deterioramento sociale e delle condizioni economiche e di
vita della maggior parte della popolazione. Allora l'amministrazione Trump
contribuì ad acuire ulteriormente la crisi ignorando che quelle massicce
proteste erano anche il risultato dell'incapacità del governo di gestire il
malessere sociale e la disoccupazione di oltre 40 milioni di lavoratori, in
particolare afroamericani, incoraggiando invece la repressione poliziesca e minacciando
l’intervento dell’esercito. L’establishment politico ed economico degli Stati
Uniti, evidentemente, temeva l’estendersi di una presa di coscienza più
profonda da parte della generazione più giovane sulla intrinseca natura
razzista e oppressiva del sistema capitalista.
Forse le giovani e i giovani che occupavano
simbolicamente Wall Street non avevano ben chiaro cosa volere e quale soluzione
trovare alla crisi. Certamente le decine di migliaia di persone che manifestavano
in ogni forma la propria indignazione per l‘agonia di un nero inerme, soffocato
da un poliziotto bianco immobile e sordo alla legge e alle suppliche,
chiedevano che a nessuno essere umano fosse negato il diritto di respirare. Un
ideale minimo di giustizia. Ma fu anche, come disse qualcuno più sensibile,
l’occasione per riflettere, gestire paure, coltivare ideali. E ragionare sui
danni delle cattive politiche sociali e ambientali, su quanto male fanno la
corruzione, l’incompetenza, l’inquinamento, la discriminazione. Su come i diritti
e le libertà possano essere goduti individualmente solo se sono universalmente condivisi
e tutelati.
In questi giorni, mentre in Italia assistiamo alla
ridicola retorica vittimistica dei ministri dell’interno e dell’istruzione, o
della ministra della famiglia Roccella, che con paradossale capovolgimento dei
termini lamentano di aver subito la censura e l’aggressione verbale da parte di
contestatori giovanissimi; mentre in Italia e in Europa faccendieri di ogni
risma, imprenditori e amministratori corrotti e contigui al governo di destra piagnucolano
di essere ostacolati nelle loro ladronesche attività da eccessivi controlli,
lacci e lacciuoli; mentre in Israele il genocida Netanyahu, con la complicità
dei neocolonialisti occidentali, si proclama vittima dell’antisemitismo che pervaderebbe
i campus universitari di tutto il mondo…, tornano alla mente le osservazioni di
Gramsci sulla così detta “crisi di autorità” delle vecchie generazioni
dirigenti e sul meccanico impedimento posto da queste alle nuove generazioni
che vorrebbero svolgere la loro missione di trasformazione e rinnovamento.
«Da che viene l’irrequietezza?», si interrogava
Antonio Gramsci, mentre era rinchiuso dal fascismo in un carcere amaro che lo
avrebbe portato alla morte, riflettendo sulle crisi epocali che attraversano le
società quando «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo
interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati»[1]. Può il puro esercizio
della forza impedire a nuove ideologie d’imporsi? si chiedeva Gramsci. La crisi
di cui si impedisce con la repressione violenta la soluzione “storicamente
normale”, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del
vecchio, come era accaduto dopo la prima guerra mondiale e la presa del potere
violenta da parte dei fascisti?
E, collegando la riflessione alla “quistione dei
giovani”, provava a rispondere: «Si può dire che questo contrasto tra ciò che
si fa e ciò che si dice produce irrequietezza. L’irrequietezza è dovuta al
fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che
c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o
giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si “confessa” ossia si
afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo
contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice, produce irrequietezza, cioè
scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: alla irrequietezza
si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non
permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà… Le responsabilità
maggiori in questa situazione sono degli intellettuali e degli intellettuali
più anziani. L’ipocrisia maggiore è degli intellettuali e degli intellettuali
anziani. Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme
caotiche del caso, c’è il riflesso di questo giudizio di condanna… I giovani
vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative… e
diventano tanto più irrequieti e scontenti. Ciò che aggrava la situazione è che
si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione si
sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi,
ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di
prolungare la crisi stessa…»[2].
In un momento di oscurità e incertezza come quello che
stiamo attraversando, le proteste esplodono e fanno sperare all’umanità che la
giustizia non sia un concetto astratto, ma un obiettivo universale che,
partendo dalla lotta al fianco dei palestinesi che resistono, apra nuovi
orizzonti di resistenza e di liberazione che uniscano tutti nell’opposizione
alle politiche che rendono possibile e legittimano il genocidio e l’apartheid,
il nuovo colonialismo, il capitalismo, il razzismo e il patriarcato, sistemi
intrecciati che si nutrono a vicenda e riproducono confini e ideologie retrive.
Nella lotta al fianco dei palestinesi che resistono si
aprono nuovi orizzonti di resistenza e di liberazione, perché – come dice il
comunicato dell’ANPI in occasione del 25 Aprile – domani nei libri di storia
non si debba scrivere che alla generazione dei primi decenni del XXI secolo
mancò la chiarezza intellettuale e il coraggio morale per opporsi al fascismo
di ritorno, alla guerra, all’ottundimento delle menti indotto dalla propaganda
menzognera, al ricatto sociale che genera indifferenza o paura.
Come altre precedenti ondate di protesta, questa di
oggi, fortemente motivata dal sentimento di solidarietà con la causa
Palestinese, potrebbe essere “riassorbita dal sistema”? Nel ’68 avvenne una
saldatura del movimento studentesco col movimento operaio che aprì orizzonti
nuovi di liberazione alle generazioni giovanili di ogni latitudine. Potrebbe
avvenire la stessa cosa per il nuovo movimento, se sarà sostenuto da una
coscienza di classe che guidi verso l’uscita dal modo di sviluppo
capitalistico, dalla distruttività dei processi di sfruttamento del lavoro e dalle
crescenti disuguaglianze e povertà, dalle guerre divenute ormai progetto
operativo permanente del sistema di dominio economico-politico-militare che pretende
di assoggettare il pianeta agli interessi del profitto.
Non è da escludere in assoluto che ciò possa avvenire, come diceva Gramsci. Tuttavia ad ogni passaggio d’epoca, i movimenti giovanili di protesta introducono elementi nuovi di coscienza che lasciano il segno, comunque. E da questi può nascere un’altra storia.
* L’articolo è stato pubblicato su ReC – Ragioni e Conflitti, periodico d’informazione del Partito Comunista Italiano n. 24/2024.
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