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Il 9 gennaio ricorre il 115° anniversario della nascita della scrittrice e filosofa femminista Simone de Beauvoir, figura che continua ad ispirare tante donne a lottare per i propri diritti.
«Il femminismo è un modo di vivere individualmente e lottare collettivamente», ha detto De Beauvoir, che ha avuto l'audacia di mettere in discussione la "femminilità" come costruzione culturale e sociale del patriarcato ed espressione del dominio maschile nella società. E ancora: «Donna non si nasce, lo si diventa», intendendo che non esiste una condizione biologica che determina l'evoluzione storica delle donne come la conosciamo, ma si tratta piuttosto di una costruzione storica che si è cercato di naturalizzare attraverso il predominio patriarcale nelle diverse società. Le donne devono raggiungere insieme la libertà di scegliere la strada su cui costruire per sé una vita dignitosa.
A Simone De Beauvoir è dedicata questa riflessione di Ada Donno *
In principio era Simone de Beauvoir. Così potrebbe
cominciare chi volesse fare una storia del femminismo della seconda metà del
‘900, poiché Simone è riconosciuta universalmente come la madre del neofemminismo
europeo. Quando pubblica in Francia, nel 1949, Il secondo sesso, Simone de Beauvoir è già una scrittrice e
filosofa affermata, ma è più conosciuta come compagna di Sartre, protagonista
della vita culturale e politica, non solo francese, del dopoguerra. Ha fondato,
insieme a Sartre e Merleau-Ponty, la rivista Temps modernes, punto di coagulo dell’esistenzialismo francese e di
quegli intellettuali impegnati che sosterranno le lotte anticolonialiste e per i
diritti civili e politici nel corso degli anni sessanta e settanta.
Il secondo sesso è un
saggio fondamentale col quale Simone tenta una prima sintesi
generale delle conoscenze biologiche e psicologiche, ma anche storiche e
antropologiche, fin allora elaborate sulla donna. Mille pagine in cui mette in
discussione realtà codificate da secoli, critica il “determinismo freudiano”,
accusando Freud di essere mosso da “pregiudizio maschile” nel porre il problema
del destino femminile, analizza la “mistica della femminilità" per smantellarne
molti stereotipi, demistifica la nozione falsamente neutra di essere umano, che
è invece stata definita dal genere maschile in ogni forma di organizzazione sociale
esistente.
Il libro solleva aspre polemiche negli ambienti conservatori e
clericali e nel 1956 viene messo all’indice dei libri proibiti da un editto vaticano.
Poche reazioni o significativi silenzi, invece, da parte dell’associazionismo
femminile di sinistra. La critica più frequente che le viene da questa parte è che la
sollecitazione da lei rivolta alle donne a privilegiare la riflessione sul
proprio “vissuto personale" crea un diversivo rispetto a tematiche più
direttamente sociali e politiche, spinge le donne a vedere solo nel rapporto
con l’uomo il campo di una sua possibile rivoluzione, deviandone la ribellione
verso sbocchi individuali. La si accusa di focalizzare la dimensione meramente
culturale, di porre l’accento sul disagio delle donne frustrate nelle loro
aspirazioni personali dal patriarcalismo persistente nella società a capitalismo
avanzato, di privilegiare la pars
destruens rispetto all’elaborazione di un’ipotesi costruttiva di
trasformazione sociale.
Tuttavia il libro diventa ugualmente formidabile agente di una lenta e tenace propagazione culturale (in Italia viene tradotto nel 1961, nella Spagna franchista circola clandestinamente in una edizione argentina del 1962), che troverà sbocchi e sviluppi nel movimento neofemminista generatosi, attraverso un processo contraddittorio ma fertile, dai movimenti giovanili del ’68.
In
realtà, nel mettere a tema la liberazione sessuale della donna, Simone aveva
intravisto non un “diversivo” ma il terreno di crescita di nuove attività
speculative a lungo oscurate, che avrebbero potuto innescare un profondo e
autonomo processo di ripensamento della donna su se stessa, che avrebbe potuto significare
di sé la cultura e l’intera società europea occidentale fino a diventare il
fenomeno socialmente e culturalmente più rilevante degli anni ’70 e ‘80.
Che cosa dice in sostanza Simone de Beauvoir? La donna è il secondo sesso, quello che l’uomo,
ponendosi come soggetto, ha definito e descritto come “altro” da sé, come oggetto. L’autodefinizione del soggetto uomo rispetto alla donna, cioè, non è
avvenuta in reciprocità, ma con un atto di oppressione psichica e culturale attraverso il quale l’uomo
solo si è arrogato la responsabilità di dare
senso al mondo, sostenendo le proprie costruzioni come neutre e universali
in ogni campo: religione, linguaggio, filosofia, economia, politica. Nel fare ciò, l’uomo ha
anche definito i modi di essere della donna, che essa ha dovuto subire e accettare. Questa
condizione di alterità alienata rispetto all’uomo, e di non riconoscimento di sé, è perciò
all’origine dello “svantaggio” femminile.
Partendo dall’osservazione della condizione delle donne
nella società a capitalismo avanzato (l’occasione del saggio le è data da un
viaggio che compie negli Stati Uniti per tenervi una serie di conferenze), Simone
mette in luce una dimensione celata dell’oppressione femminile, offre nuovi
strumenti concettuali che aprono per le donne la possibilità di uno spazio autonomo in cui ripensare cultura e
società, coglie una serie di temi che nel neofemminismo avrebbero trovato
sviluppo, come la politicità del corpo e la connessione tra oppressione politica
e oppressione personale.
Il ripensamento di sé non può non partire, per le donne, dalla sfera del “privato”, nella quale gran parte delle donne vive gli unici rapporti umani e sociali che le siano consentiti: da qui, il prendersi la parola per dare voce a ciò che è stato muto nei secoli, per farsi acquisizione di responsabilità e progetto di trasformazione della società.
Riprendendo l’analisi marxista della fondamentale contraddizione di classe, Simone vi aggiunge, come originaria, quella tra i sessi, che spiega riportandola alla distinzione tra lavoro di produzione e di riproduzione e alla differente collocazione di donne e uomini rispetto ad essa.
Le donne, in quanto donne, non si definiscono in rapporto alla classe, né costituiscono nel loro
insieme una classe, e la loro oppressione non è in relazione diretta coi
rapporti di produzione, anche se si specifica variamente a seconda del modo di produzione.
Sulle funzioni biologiche riproduttive femminili si è
fondato il ruolo storicamente costruito e socialmente imposto alla donna, la
quale può realizzare la propria libertà prendendo coscienza dell’oppressione
con un atto di trascendenza e di riconoscimento dell’esproprio operato da
cultura e società nei suoi confronti.
Superare la femminilità alienata e porsi come soggetto
autentico, malgrado la conquista dell’uguaglianza sul piano formale, tuttavia,
non è facile nelle società a capitalismo avanzato poiché resta l’impostazione
dei rapporti tra i sessi ereditato da un percorso secolare. Tanto più che, diversamente
da altri gruppi di persone oppresse, le donne nella società patriarcale sono
rese “complici”, mediante privilegi e compensazioni offerti loro per mascherare
l’annullamento storico simbolico operato nei secoli e per condizionarle ad
accettare la loro posizione subordinata. Fino al punto di incoraggiare in loro,
come dice Simone, “il desiderio inautentico di rinunzia e fuga dalla libertà”.
*L’articolo è stato pubblicato sul settimanale La Rinascita della sinistra nel 2008.
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