"Non in nome del femminismo"
Nelle ultime settimane la stampa corporativa, la radio e la tv non hanno smesso di occuparsi della situazione in Nicaragua, teatro - dallo scorso aprile - di disordini volti a rovesciare il governo di Daniel Ortega. Tutti all'unisono si sforzano di convincere l’opinione pubblica che Ortega è un "dittatore", un "autoritario" e un "genocida". Sono rumori già familiari, che di solito preludono agli "interventi" - duri o blandi - degli Stati Uniti in qualche paese del globo: li abbiamo sentiti risuonare con Saddam Hussein, Muammar Gheddafi, Bashar al-Assad, Hugo Chávez; risuonano ora con Nicolás Maduro e con Daniel Ortega...
di TITA
BARAHONA / Redazione CANARIAS-SEMANAL.ORG.
24 dicembre 2018
Tutto questo mi ricorda una frase che ho sentito da Noam Chomsky,
qualche anno fa, in un'intervista. Alla domanda sul significato della parola
"terrorista", rispose: "terrorista significa che Obama vuole
ucciderti". Si può cambiare terrorista con dittatore o con misogino; Obama
con Trump, uccidere con rovesciare, ma l'equazione produrrà lo stesso risultato.
Altrove ho
richiamato l'attenzione su come l'imperialismo statunitense strumentalizza le
donne, le loro lotte e organizzazioni, per giustificare attacchi contro paesi
classificati come terroristi. L'ho illustrato con i casi dell'Afghanistan e
della Libia. Oggi, in Nicaragua, assistiamo alla stessa strategia. Una
cosiddetta "Articolazione Femminista", composta da gruppi di donne
nicaraguensi e di altre nazionalità, con sede in Francia, Paesi Bassi, Regno
Unito, Germania e Spagna, proclama che Ortega è uno stupratore e definisce
"patriarcale e sessista" ( sic) il suo governo. L'attività di questa
Articolazione è incentrata, secondo le sue stesse affermazioni, sul "levare
la voce e lo sguardo femminista su ciò che sta accadendo in Nicaragua". E
ciò che ritengono stia accadendo in Nicaragua è ciò che stiamo leggendo o
sentendo nei media mainstream: che manifestazioni spontanee e pacifiche di
cittadini scontenti delle politiche di Ortega sono state brutalmente represse,
anche con l'ausilio di bande paramilitari, lasciando un bilancio di centinaia
di morti (tutti dalla stessa parte), detenuti politici e un'ondata di profughi.
Questa narrazione, messa in dubbio da altre fonti, proviene
da istituzioni nicaraguensi come l'Alleanza civica per la Giustizia e la Democrazia,
nelle cui file sono compresi imprese private e lobbisti dell'agrobusiness, la
direttrice della Camera di commercio USA-Nicaragua, María Nelly Téllez, di cui
si parla come futura candidata alla presidenza; gli studenti dell’università
privata che formano il Movimento 19 Aprile; oligarchi travestiti da società
civile, come Juan Sebastián Chamorro; qualche ex alto funzionario sandinista;
Azalea Solís, direttrice di un'organizzazione femminista finanziata dal governo
degli Stati Uniti; e un “leader campesino”, sostenuto da Washington, che fu espulso
dal Costa Rica per traffico di esseri umani. Alcuni appartengono al Movimento
per il Rinnovamento del Sandinismo (MRS), che dal 2007 si è andato avvicinando
all’estrema destra statunitense del Partito Repubblicano, e ultimamente al
partito salvadoregno ARENA, noto per i suoi legami con gli squadroni della
morte che assassinarono l'arcivescovo Óscar Romero.
Sotto queste prime
figure, c'è una rete di oltre duemila giovani che con i finanziamenti del
National Endowment for Democracy (NED) si sono formati nella gestione dei
social network, tra i quali c’è la "Articolazione Femminista". Con
hashtag come #SosNicaragua, questo battaglione è stato in grado di plasmare e
controllare l'opinione pubblica su Facebook in soli cinque giorni dal 18 al 22
aprile. Ci hanno pensato i giornali con la maggior tiratura al mondo, dal New
York Times al Guardian o El País, ad amplificare il discorso. Quest'ultimo si
avvale di editorialisti legati a Confidencial, il principale promotore delle
rivolte, che riceve fondi non solo dalla NED ma anche dalla Open Society
Foundation.
Dovrebbe essere fonte di sorpresa - ed è certamente fonte di
indignazione - che in nome della emancipazione delle donne si stiano difendendo
gli interessi di una potenza imperialista che cerca di spodestare un governo
eletto nel 2016 con elezioni eque, non contestate da nessun partito, in cui
Ortega è stato eletto con il 72,4 per cento dei voti e un'affluenza alle urne
del 66 per cento, significativamente superiore a quella degli Stati Uniti.
Insomma, una potenza che cerca di fare la stessa cosa che ha fatto con Beltrand
Aristide ad Haiti, con Mel Celaya in Honduras e tanti altri nei paesi
dell'America Latina e dei Caraibi, dove la situazione delle donne in assoluto ha
dato segni di miglioramento, anzi. Ma non sorprende, perché questi gruppi femministi
di “Articolazione” sono ONG finanziate o direttamente dallo stesso governo
degli Stati Uniti o da fondazioni filantropiche globaliste che condividono gli
stessi obiettivi.
La United States
Agency for International Development (USAID), il National Democratic Institute
(NDI) e il NED svolgono un'intensa attività non solo in Nicaragua, ma anche in
altri paesi centroamericani, con migliaia di "attivisti", centinaia
di ONG, università e partiti politici, ai quali fornisce fondi e attrezzature.
Da qualche anno la tendenza è quella di favorire organizzazioni femminili, indigene,
gruppi LGBT, sostenitori dei diritti umani e ambientalisti. Una costellazione di organismi contribuisce a
questo in Nicaragua, tra cui figurano : Seattle International Foundation,
Inter-American Foundation, Open Society Foundations, Global Greengrants Fund,
Kenoli Foundation, Ford Foundation, Fund for Global Human Rights, Astrea
Lesbian Foundation for Justice, Global Fund for Women, Oxfam America,
Grassroots International, FRIDA Young Feminist Fund e Calala Women's Fund.
Quest'ultimo, Calala Fund, ha sede a Barcellona e
sovvenziona il gruppo delle donne Verena, uno di quelli che sostengono la
Carovana di Solidarietà Internazionale per il Nicaragua che viaggia in Europa
per «chiedere alla comunità internazionale di prendere misure contro la
violazione dei diritti umani che Daniel Ortega sta commettendo». Tra le
partecipanti c'è Jessica Cisneros, che si presenta come una femminista e
attivista per i diritti umani, e appartiene al Movimiento Cívico de Juventudes
(MCJ), finanziato dal già citato NDI (National Democratic Institute), la cui
presidente è Madelaine Albright. La Freedom House, invece, ha coperto il
viaggio di una rappresentanza de leader studenteschi a Washington, dove hanno
incontrato i deputati repubblicani che guidano l'offensiva contro il Nicaragua.
Credere che gli
Stati Uniti non siano coinvolti nei disordini che devastano il Paese
centroamericano, membro dell'ALBA, è una ingenuità o una complicità. June
Fernández, direttrice di Píkara Magazine, con esperienza nella cooperazione
internazionale in Nicaragua, sostiene che questa ipotesi di intervento
nordamericano "cade sotto il suo peso", adducendo delle "lotte
antimperialistiche" in cui sarebbero stati coinvolti studenti
dell'opposizione, e citando come fonte affidabile La Prensa, che è di proprietà
di un membro dell'oligarchia nicaraguense molto ben alimentato dalla lobby di
destra a Miami. La signora Fernandez dovrebbe saperlo meglio. Ci sono prove
dell'interesse degli Stati Uniti nel controllo degli stati caraibici, fornite
da loro stessi. Il 1° novembre 2018, John Bolton, consigliere di Trump per le
questioni di sicurezza nazionale, ha dichiarato a Miami che Cuba, Nicaragua e
Venezuela sono la "troika della tirannia". Ma Fernández e altre sono
impegnate ad esigere "elezioni libere ed eque" dove ci sono state,
mentre hanno taciuto dove non ci sono state e il risultato ha favorito il
candidato di Washington (mi riferisco, in effetti, all'Honduras).
La Carovana della Solidarietà con il Nicaragua ha trovato in
Spagna un terreno ben fertilizzato dove radicare la narrativa di "Ortega è
un genocida". Con gruppi femministi associati a dei media totalmente coinvolti
in un riformismo di corte social-liberale, che non mette in discussione la
politica estera dell'UE, degli Stati Uniti e della NATO, e si aggrappa alla
politica delle identità, è facile capire che si sia dato carattere istituzionale
agli interventi delle partecipanti alla Carovana con figure locali di rilievo,
come Ada Colau, deputati di Podemos e
la cosiddetta Commissione 8-M, alla
cui riunione dello scorso ottobre a Gijón hanno assistito e attirato applausi.
Anche in alcuni comuni come Córdoba sono state presentate mozioni di condanna
contro Daniel Ortega, su proposta di Ganemos.
Già le accuse contro
Ortega, da questa "prospettiva di genere" si estendono al fatto che
il Nicaragua registra livelli molto alti di violenza contro le donne, che
l'aborto è proibito, che le donne soffrono di condizioni molto avverse. Dati
che non corrispondono a quelli presentati dal World Economic Forum, che nel suo
rapporto sull'indice di Gender Gap 2015, colloca il Nicaragua al 12° posto su
145 paesi. L'aborto non è legale in nessuno stato circostante, nemmeno in molti
degli Stati Uniti. Il record di femminicidi, e di violenza in generale in
Centroamerica, è detenuto dall'Honduras, dove il presidente recentemente
eletto, a differenza di Ortega, è uscito da elezioni provatamente manipolate,
che hanno dato luogo a proteste con un alto numero di morti, feriti e
arrestati... Ma dall'Honduras, dove crescono anche le ONG globaliste come
funghi, non è partita nessuna Carovana di Solidarietà Internazionale, né si è
pianto per le donne honduregne.
Il quotidiano Público
ha titolato qualche giorno fa: «Le donne sono state la chiave della ribellione
in Nicaragua». Una brutale generalizzazione manipolativa che cerca di
nascondere che non tutte le donne nicaraguensi o di altri luoghi sostengono
l'offensiva contro il governo di Daniel Ortega. Non tutte le donne o i gruppi
femministi in Nicaragua partecipano a questa "ribellione" di cui beneficerà
solo un'élite disposta a seguire i dettami del FMI, come in Colombia, Argentina
o Brasile. Molte nicaraguensi ritengono che queste donne che sfilano attraverso
i saloni di mezzo mondo per provocare la caduta del governo, non rappresentano
«la collettività dei movimenti di emancipazione delle donne in Nicaragua»; condannano
anche il silenzio dei media sia sulla violenza che questi gruppi hanno
esercitato, sia sui collettivi di donne che l’hanno denunciata. E concludono
che «facendo appello alla sorellanza, si stanno cooptando altre lotte per
imporre l'agenda imperialista».
Ma queste e altre
voci non si sentono. Si diffonde invece quella delle componenti della Carovana
Internazionale, che ultimamente lamentano presunte minacce e attacchi alle loro
persone, e che in Nicaragua il movimento femminista viene “criminalizzato”. Non
in nostro nome. Il femminismo non può essere arma di nessun imperialismo,
perché in tal caso si estingue la sua forza rivoluzionaria, il suo potenziale
per trasformare la realtà e, con esso, il suo stesso significato e scopo. Il
femminismo che difende gli interessi delle donne operaie e contadine,
indipendentemente dalla loro nazionalità, non può essere complice dei genocidi
perpetrati in America Latina e nei Caraibi dagli Stati Uniti, che non
rinunciano al controllo sui “cortili di casa”. Dobbiamo denunciare la
manipolazione implicita nel discorso di coloro che, presentandosi in nome del
femminismo, lavorano per altri interessi. NON IN NOSTRO NOME. Molte cose
possono cambiare in Nicaragua; ma deve essere opera degli uomini e donne nicaraguensi,
non del denaro e dell'agenda degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Trad. Awmr Italia
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