QUALE VACCINO CONTRO LA PANDEMIA DELLA VIOLENZA DI GENERE?*
di Ada Donno
La ricorrenza del 25 novembre, Giornata mondiale per l’eliminazione
della violenza contro le donne, arriva quest’anno sull’onda della denuncia dell’aumento
esponenziale, in ogni paese colpito dall’emergenza sanitaria del Covid-19, delle
violenze sulle donne, specialmente nei
contesti intrafamiliari.
I centri antiviolenza riferiscono che, nei mesi di marzo e aprile, in
Italia il numero di richieste di aiuto per violenze su donne e bambini è
raddoppiato e che, nelle ultime settimane, la riproposizione delle misure restrittive per
fermare la diffusione dei contagi torna a pesare soprattutto sulle donne, in
diversi modi, incluso quello dell’aumento della violenza.
Il rapporto annuale delle Nazioni Unite conferma che il fenomeno è globale: a qualunque latitudine, per molte donne, trovarsi forzatamente in casa con un partner violento, non poter aver accesso liberamente ai numeri antiviolenza, subire la perdita del lavoro con la conseguente rinuncia alla propria autonomia e alla propria indipendenza economica, è un triste effetto collaterale della pandemia.
Ma se le forme di violenza che le donne subiscono sono varie, la radice – lo diciamo da decenni e finalmente sembra stia diventando pensiero diffuso - è una: l’oppressione patriarcale che si perpetua nella disparità e asimmetria persistnte nei rapporti fra uomini e donne nel pubblico e nel privato, a cui va ascritta ogni forma di violenza contro le donne, dal rigurgito integralista di gruppi sociali all’aggressione violenta e improvvisa in forma individuale. Ogni sopruso e prepotenza compiuti dalla parte maschile della società contro la parte femminile è il retaggio di un ordine patriarcale le cui regole - anche là dove sono formalmente rinnegate - sopravvivono in codici di comportamento accettati o tollerati, in ordinamenti sociali inqui e nelle pieghe delle leggi di uno Stato democratico. Ogni violenza è riconducibile alla radice comune della percezione del corpo della donna come “cosa violabile”, che si può velare, nascondere (o esibire come merce, dipende da circostanze e latitudini), usare, sfregiare e, perché no, annientare.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che una donna su tre abbia subito violenza fisica e/o sessuale almeno una volta nella vita. Ma avverte anche che questa cifra è solo la punta dell’iceberg, a causa dello stigma e la vergogna che questa forma di violenza porta con sé, che colpisce le vittime e lascia impuniti i colpevoli.
Il riconoscimento ufficiale della “violenza di genere” nella sua specificità è stato peraltro l’approdo di un percorso non facile né breve. Grazie alle pressioni del movimento femminista internazionale, venne introdotta per la prima volta nella Dichiarazione di Vienna del 1993, a chiusura della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani tenutasi nella capitale austriaca. “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia – si diceva finalmente nella Dichiarazione - è una violazione dei diritti umani delle donne che va contrastata sia in pubblico che in privato e i governi devono assumersi la responsabilità di farlo”.
Nelle Conferenze del Cairo del ‘94 e di Pechino del ‘95 si cominciarono a dare le cifre globali e si definirono le diverse aree di violenza contro le donne: da quelle compiute all'interno della famiglia agli stupri di guerra, a quelle legate alla prostituzione e al traffico internazionale delle donne, o a pratiche tradizionali e intolleranza religiosa; fino ad ogni forma di violenza legata al ruolo riproduttivo delle donne che impedisce loro di decidere della propria sessualità e maternità. Da qualche decennio in qua si è aggiunta una nuova forma di violenza, virtuale ma non meno feroce, perpetrata attraverso le reti sociali.
La giornata mondiale del 25 novembre, proclamata dalle Nazioni Unite nel dicembre del ’99, è stata importante per favorire l’emersione del fenomeno, tanto antico e occultato, quanto diffuso e trasversale. Talmente esteso da non poter essere riducibile a sacche di arretratezza culturale, ad appartenenze di tipo etnico, economico, o religioso, come confermano i rapporti annuali dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani. La ricorrenza fu scelta in ricordo delle tre sorelle Mirabal, attiviste antifasciste della repubblica dominicana trucidate, il 25 di novembre di sessant’anni fa, per ordine del dittatore Trujillo.
L’Europa ha sancito il suo impegno per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica con la Convenzione di Istanbul del 2011, insistendo specialmente sugli interventi legislativi da adottare nei paesi membri. Ma ci sono sette paesi del Consiglio d’Europa che non l’hanno ancora ratificata: Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Slovacchia, Lettonia, e perfino (seppur per altri motivi) il Regno Unito.
L'opposizione di questi paesi, oltre a bloccare tuttora l'adesione complessiva del Consiglio alla Convenzione (e a creare imbarazzo negli altri componenti), indebolisce oggettivamente l’efficacia di iniziative come Spotlight initiative, il piano d’azione lanciato con grande enfasi dall’Unione europea, in partnership con le Nazioni Unite nel 2017, e anche la Strategia sui diritti delle vittime, annunciata più di recente dalla Commissione europea per potenziare i servizi di pubblica utilità contro la violenza sessuale e domestica. Come se non bastasse, i governi di Ungheria e Polonia minacciano, un giorno sì e l’altro pure, di ritirare addirittura la firma, mentre nella stessa Turchia, che fu il primo paese a ratificarla nel 2012, cresce il rumore integralista contro questa Convenzione che minerebbe la salute della famiglia tradizionale!
E in Italia? L’osservatorio femminista sempre all’erta denuncia da qualche anno una recrudescenza degli attacchi, aperti o subdoli, ai diritti delle donne e ai luoghi organizzati delle donne: da parte delle destre integraliste in materia di sessualità e riproduzione; da parte di politiche obbedienti ai dettami neoliberisti che impongono tagli drastici allo stato sociale e promuovono nuove forme di sfruttamento del lavoro femminile; da parte di amministrazioni locali che puntano allo sgombero degli spazi in cui operano i collettivi femministi che gestiscono i centri antiviolenza.
Ecco perché per questo 25 novembre, come ogni anno, si organizzano
eventi in ogni città, anche se per forza di cose in modalità online: per dire
alla società tutta che i percorsi di
fuoriuscita dalla violenza di genere sono attivi anche al tempo della pandemia;
per dire alle istituzioni di governo, da quello centrale a quelli locali, che serve
a poco un approccio al problema di tipo emergenziale, che si limiti a prendere misure
“speciali” sull’onda emotiva dell’ultimo femminicidio.
Serve potenziare i centri
antiviolenza e accoglienza delle donne che subiscono abusi, potenziare il
servizio telefonico di pubblica utilità contro la violenza domestica, ma servono
soprattutto interventi strutturali, serve allargare gli spazi di agibilità democratica
per le donne, per farle uscire dalla condizione di minorità in cui ancora in
molte realtà sono confinate; servono politiche organicamente mirate a
colpire le sacche di emarginazione e segregazione sociale che ancora
coinvolgono le donne. Serve valorizzare la presenza femminile nella sfera
pubblica contro ogni discriminazione possibile, supportando i percorsi di
emancipazione e liberazione femminili di tutte le donne, native e migranti. A cominciare dall'accesso al lavoro: l’Italia è
uno dei paesi europei in cui le donne sono meno attive nel mercato del lavoro,
circa il 56%, percentuale lontana dalla media europea del 68%.
Serve infine, ultima ma non per ultima, costruire la cultura
del rispetto a partire dalla scuola, dal linguaggio e dal senso delle parole, lavorare per
rompere modelli relazionali ed educativi patriarcali. Serve snidare la cultura
che produce la violenza e costruire una nuova convivenza basata sull'idea
condivisa della libertà femminile, che ha inizio nell'inviolabilità del corpo
delle donne. Da questa prospettiva, il percorso da realizzare è ancora lungo..
*già pubblicato su: https://www.ventidiponente.it/index.php
Brava Ada! Condivido pienamente, bisogna cominciare dalla scuola e dal linguaggio.Il maschilismo esplicito si riesce a combatterlo ma quello sotterraneo è ancora più subdolo. E poi il mondo femminile non ha preso del tutto coscienza, è la solita storia delle oppressioni, quando l'oppresso/a fa proprio il linguaggio degli oppressori.
RispondiEliminaSono sempre stata convinta del fatto che uno dei terreni fondamentali sui quali lavorare sia quello della forma e del senso delle parole che usiamo. Sul piano simbolico è essenziale. Grazie del tuo commento.
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