Il 1° dicembre di 75 anni fa nasceva la Federazione Democratica Internazionale delle Donne
Ricordiamo quel giorno (e ciò che ne seguì) riportando l'introduzione al libro di GALINA GALKINA La Federazione Democratica Internazionale delle Donne. Capitoli nella storia (Edizioni Il Raggio Verde, 2017)
Il volume è reperibile in formato ebook: https://www.bookrepublic.it/book/9788899679286-la-federazione-democratica-internazionale-delle-donne/
Una storia da raccontare
«È un’emozione per me salutare tante donne d’ogni provenienza, differenti
percorsi di vita ed età, che qui rappresentano più di 40 paesi del mondo» disse
Eugénie Cotton, prestigiosa allieva di Marie Curie e presidente dell’Unione
delle donne francesi, salutando le convenute a Parigi, nel Palais de la
Mutualité, quel 26 novembre 1945. Era il primo incontro internazionale di donne
dopo la guerra e l’occasione era di quelle che passano alla storia: 850 donne,
o forse più, delegate da oltre 180 organizzazioni d’Europa, Nord e
Sud America, Africa e Australia, a rappresentare virtualmente 81
milioni di donne,[i]
avevano risposto all’invito del Comitato d’Iniziativa Internazionale che si era
costituito a Parigi nel mese di giugno di quell’anno.[ii] Era stata la stessa Madame Cotton
a lanciare l’idea di un congresso internazionale, dal quale far nascere una
grande federazione femminile per la democrazia e la pace [iii].
Finalmente, dopo il lavoro febbrile di molti mesi, l’idea diventava realtà.
Tra le
delegate c’erano ex deportate nei campi di concentramento e di sterminio nazisti,
donne che avevano perduto marito e figli nella guerra, che avevano conosciuto
la dura vita della clandestinità e dell’esilio, che avevano combattuto sui
campi di battaglia e nelle file della Resistenza europea. Ad esse si aggiunsero
donne di altri continenti, alcune venivano da paesi nei quali le lotte contro
il colonialismo e per l’indipendenza nazionale erano agli inizi.
Alcune delle presenti avevano nomi conosciuti oltre i confini dei loro
paesi, perfino leggendari, come la pasionaria
basca Dolores Ibarruri e la combattente
dell’Armata Rossa Nina Popova.[iv]
La francese Marie Claude Vaillant Couturier era sopravvissuta ad Auschwitz[v].
La britannica Elizabeth Acland Allen era una pacifista nota per aver
contribuito ad organizzare il grande Congresso Mondiale della Pace di Bruxelles
del ‘36, alla vigilia della guerra. Victoria Kent rappresentava la Spagna
antifranchista costretta all’esilio.[vi]
Altre erano semplici operaie, delegate sindacali, attiviste, i cui nomi suonavano
sconosciuti ai più.
Della delegazione italiana (fra le più nutrite, insieme a quelle di Stati
Uniti, Gran Bretagna, Messico e Francia), facevano parte donne che avrebbero avuto
un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale repubblicana e nel
movimento femminile, come Camilla Ravera, Ada Gobetti, Maria Romita, Lina Merlin, Maria Calogero, Anna Lorenzetto, Elena Fischli Dreher, Gigliola
Spinelli, Rosetta Longo, Marisa Rodano
e altre. [vii]
Da quel congresso, il 1° dicembre 1945, nacque la Federazione democratica
internazionale delle donne. La grande tragedia del fascismo e della seconda
guerra mondiale – la più distruttiva che l’umanità avesse conosciuto – era alle
spalle e i sentimenti prevalenti fra la gente, in Europa come negli altri
continenti, erano la speranza che gli orrori a cui aveva assistito non si
ripetessero mai più e la determinazione a lottare per questo.
«A nome di 81 milioni di donne, facciamo solenne giuramento di aderire allo
sviluppo di questa grande organizzazione femminile, nata dopo la seconda guerra
mondiale. Facciamo solenne giuramento di lottare …» dichiararono le donne
riunite a congresso.[viii] Oggi forse il linguaggio suona antiquato e fra le
donne non usa più fare solenni pubblici giuramenti, ma non v’è dubbio che una convinzione
profonda e un autentico entusiasmo ispirassero le fondatrici della FDIF, come
testimoniò la corrispondente di Noi
Donne, che scrisse: «Due italiane, tutt’e due appartenenti all’Udi, Ada
Gobetti e Camilla Ravera, fanno parte del Comitato esecutivo della Federazione.
Tutte noi donne italiane dobbiamo essere liete e fiere che la lunga attività
antifascista delle migliori fra noi, che il nostro apporto alla lotta di
liberazione e all’opera di ricostruzione – apporto del quale la nostra grande
Udi può a buon diritto rivendicare il merito – abbia permesso al nostro paese
d’essere degnamente rappresentato in un organismo internazionale di tanta
importanza per l’avvenire dell’umanità».[ix]
«La Federazione nasce perché le donne di tutti i continenti possano
lottare unite per la realizzazione dei loro interessi e delle loro speranze»,
disse ancora Eugénie Cotton, che fu eletta presidente della Federazione e
conservò l’incarico fino al 1967, anno della sua morte.[x]
E aggiunse, commossa: «Per la nostra bella impresa, abbiamo le stesse ambizioni
e lo stesso amore che una giovane madre ha per il figlio che sta per nascerle,
e noi vogliamo vegliare sulla giustizia e sulla pace come sulla salute preziosa
dei nostri figli».[xi]
Quel momento sarà ricordato a lungo, con tenerezza ancora incredula, dalle
donne che vi parteciparono, molte delle quali negli anni successivi divennero dirigenti
politiche di primo piano nei loro paesi di provenienza. «Oggi una non
s’immagina neppure le difficoltà – raccontava molti anni più tardi Marie-Claude
Vaillant-Couturier, che della federazione fu segretaria generale per i primi
dieci anni - costituite dai lunghi viaggi non soltanto per venire da
paesi lontani come l’Argentina o l’India con i mezzi di trasporto dell’epoca,
ma anche per attraversare l’Europa devastata dalla guerra. L’organizzazione
materiale del congresso richiese grandi sforzi, non c’erano le apparecchiature
per la traduzione simultanea, come oggi, e le traduzioni si facevano per gruppi
ad alta voce in un frastuono spaventoso. Ma non era importante, dominava
l’emozione di ritrovarsi assieme, di misurare assieme l’importanza della
partecipazione delle donne…”». [xii]
La neonata Federazione scelse di darsi obiettivi che riflettevano i
sentimenti e le necessità di quel momento storico: la «lotta contro il fascismo
e il militarismo, la sola che può permettere di assicurare le condizioni di una
pace durevole», un’azione risoluta per «l’uguaglianza completa di diritti
per donne e uomini in tutti i campi della vita sociale, giuridica,
politica ed economica» e per «il rispetto di tutte le libertà fondamentali
degli esseri umani, senza distinzione di genere, razza, lingua o credo religioso»[xiii].
Alla comunità internazionale il congresso di Parigi chiese «il rispetto dei
principi di uguaglianza di diritti e di autodeterminazione per tutti i popoli»
e «del diritto di ciascun popolo a scegliere liberamente, senza ingerenze
esterne, la forma di governo che gli conviene».[xiv]
La difesa del diritto dei popoli
all’indipendenza nazionale e alle libertà democratiche, la costruzione della
pace e del disarmo universale apparivano un compito fondamentale delle donne. Già
presaghe dei nuovi pericoli che si paravano all’orizzonte, le convenute a
Parigi chiesero che l’energia atomica fosse messa «al servizio del progresso e
della pace e posta sotto il controllo delle Nazioni Unite».[xv]
Uscendo
dalla più mortale delle guerre, scatenata dal fascismo, era comprensibile che
le questioni della democrazia e della
pace fossero poste in primo piano.
A farsi interprete di questa preoccupazione fu soprattutto Dolores
Ibarruri, con la veemenza del suo eloquio trascinante[xvi]:
«I nostri cuori di donne e di madri battono d’una indignazione violenta pensando
che, mentre ancora sanguinano le ferite della guerra, mentre le rovine delle
città distrutte ancora ci si parano davanti, tragica testimonianza di un
passato d’orrore, vi siano persone che non soltanto ricominciano a parlare di
guerra, ma si preparano a nuove aggressioni”[xvii].
Tuttavia c’era anche piena consapevolezza che nessuna vera democrazia si
sarebbe costruita, nessuno sviluppo economico e sociale equo sarebbe stato
possibile finché le donne non avessero goduto della pienezza dei loro diritti.
Di tutti i diritti, in campo politico, economico, giuridico e sociale.[xviii]
«Il nostro incontro di oggi – ammonì Eugénie Cotton – è un evento storico
di cui dobbiamo sottolineare l’importanza e la novità. I milioni di lavoratrici
di tutti i paesi che hanno inviato delegate a questo Congresso sono oggi anche
elettrici. Non solo possono esprimere dei desideri su tutte le questioni che le
interessano, ma possono mettere al servizio delle loro rivendicazioni
l’autorità dei loro voti. Questa autorità è grande, e noi
ne abbiamo coscienza»[xix].
Alle “donne del mondo” fu proposto un programma d’azione con il lungo elenco
dei diritti da conquistare e difendere «in quanto madri, lavoratrici e
cittadine, per la difesa del diritto alla vita e al futuro per i loro figli, ».[xx]
Su questo punto occorre soffermarsi e insistere.
La ricostruzione puntuale degli eventi che vedono promotrici e partecipi la
FDIF e le sue organizzazioni affiliate nel mondo, fatta da Galina Galkina, è
basata in larga misura su materiale d’archivio e su pubblicazioni
autobiografiche di alcune protagoniste, reperiti per lo più in Russia (come testimoniano
i riferimenti riportati nelle note). È il punto di partenza indispensabile e
prezioso di una ricostruzione storica che, per essere completa, non potrà non
essere il risultato e la sintesi della molteplicità delle fonti e delle
testimonianze.
Tuttavia, va detto che non è affatto facile reperire - nella pur abbondante
pubblicistica, disponibile sia in cartaceo che on line, riguardante le attività di movimenti transnazionali di
donne nella seconda metà del secolo scorso – altre rielaborazioni storiche
importanti sulla FDIF. Abbiamo solo narrazioni parziali, pezzetti di storie,
riferimenti inseriti nelle pieghe di narrazioni biografiche o autobiografiche
di coloro che di questa storia sono state partecipi o testimoni. Questo vuoto
non è casuale, anzi ha ragioni precise che solo da qualche anno in qua si
stanno cominciando ad indagare.
Richiamo su questo punto ciò che scrive Francisca De Haan, docente di Gender Studies e Storia presso la Central European University di Budapest,
[xxi]
autrice di un progetto di ricerca che si propone di “ripensare le donne della
Guerra Fredda: una storia politica femminista transnazionale” e di focalizzare
in particolare le storie di alcune organizzazioni femminili internazionali palesemente
e immotivatamente “sottorappresentate” nella storiografia femminista occidentale che
si è occupata del periodo che va dal 1945 ad oggi.
De Haan osserva in premessa che "per una corretta comprensione delle
continuità e dei cambiamenti nella lotta per i diritti delle donne durante
questo periodo,… dobbiamo considerare più pienamente il ruolo importante di
quelle che attualmente sono spesso chiamate "organizzazioni tradizionali
di donne" nel promuovere i diritti delle donne a livello internazionale,
almeno fino al 1975."[xxii]
Coloro che si sono occupate di questa storia «hanno trattato della FDIF come
se i diritti delle donne non fossero stati centrali nel programma e nelle sue attività
fin dal primo giorno» [xxiii],
dice De Haan citando alcuni esempi clamorosi di studiose dei movimenti
femministi che hanno sottovalutato o ignorato l’apporto della FDIF alla
affermazione dei diritti delle donne. [xxiv]
E sottolineando che, quelli da lei citati, “sono solo esempi di un più esteso
atteggiamento nella storiografia occidentale di sottovalutazione o
sottorappresentazione della FDIF”.[xxv]
Quanto abbiano giocato su tale atteggiamento quelli che De Haan chiama “i
paradigmi della guerra fredda”[xxvi]
e quanto questi abbiano influenzato l’intera storiografia occidentale, ma in
particolare quella sui movimenti delle donne, è un campo d’indagine appena
aperto.[xxvii]
Sta di fatto che la FDIF fu oggetto in occidente di una campagna
denigratoria, che è almeno una delle ragioni per cui essa “è scomparsa dalla
mappa mentale delle storiche femministe occidentali (relegata in un angolo
oscuro oltre la “cortina di ferro”) [xxviii].
E laddove la FDIF compare, “è trattata con sospetto e non si fa menzione del
suo impegno in difesa dei diritti delle donne, questo non viene preso sul
serio, o sospettato di essere subalterno ad altri scopi”.[xxix]
Questo può spiegare perché non è stata scritta una storia della FDIF autonoma,
che non sia cioè “collaterale” o narrata nelle pieghe di altre ricostruzioni
storiche o socio-politiche incentrate su avvenimenti o fenomeni in cui essa
appare collocata a margine. La ricerca di Galina Galkina, proprio per le sue
caratteristiche – essere stata condotta fedelmente su documenti d’archivio
originali – comincia a colmare un vuoto nella ricostruzione storica del
movimento transnazionale delle donne (ma che ha avuto riflessi inevitabili sui
movimenti nei singoli paesi), a documentare una presenza, a restituire una
centralità negata, a fare giustizia di un equivoco di cui la FDIF è stata oggetto
– solo in parte dovuto al fatto che fosse “più inclusiva delle altre
organizzazioni di donne già esistenti” [xxx]
– ristabilendo alcune verità. A partire dal suo congresso fondativo[xxxi].
Il percorso seguito da Galkina è quello scandito dai “congressi mondiali” della FDIF (che seguirono a quello di Parigi del 1945, più o meno regolarmente - a Budapest, Copenhagen, Vienna, Mosca, Helsinki, Berlino, Praga e così via fino a quello di Beirut che segna l’ingresso nel terzo millennio – ai quali non solo partecipavano le delegate delle organizzazioni affiliate, ma anche venivano invitate altre organizzazioni nazionali e internazionali, esponenti delle Nazioni Unite, personalità del mondo della cultura, della scienza, della politica, dei movimenti sociali), dalle riunioni annuali del Consiglio e del Comitato esecutivo, dai seminari internazionali, la cui stessa dislocazione nel tempo e nello spazio consente di rintracciare la mappa delle attività della Federazione nel corso dei suoi settant’anni.
La FDIF oggi
In settant’anni sono cambiate parecchie cose. Dopo le tensioni
parossistiche della guerra fredda, il mondo è stato attraversato dalla
distensione, e poi di nuovo da guerre calde, la cosiddetta “guerra a pezzi”, a
cui assistiamo oggi. I muri costruiti in Europa sono stati abbattuti, ma ora se
ne profilano di nuovi.
In alcune parti del mondo le donne hanno conquistato i diritti che si
proponevano, ma in altre devono lottare per i diritti più elementari e ancora fanno
fatica a nominare i diritti riproduttivi. Ci sono da molti anni istituzioni
internazionali che autorevolmente affermano i diritti delle donne – non per
niente sono state fatte le rivoluzioni – ma per l’iniqua distribuzione delle
risorse solo una parte di esse può effettivamente esercitarli.
Nelle aree del pianeta toccate dal benessere, il miglioramento delle
condizioni generali della società ha indotto nuove esigenze, impensabili a quel
congresso di Parigi del ‘45. Premono necessità culturali nuove e si affermano forme nuove di pensiero rispetto a settant’anni fa. Ma se la somma
delle esigenze, dei progetti e delle costruzioni è fatta di tante voci diverse,
la cifra totale non è poi così lontana da quella di allora.
La FDIF e le sue organizzazioni affiliate hanno contribuito a questa
crescita in maniera varia e articolata. Lo statuto consultivo di cui ha goduto
fin dal 1947, pur con alterne vicende[xxxii],
presso il Consiglio Economico e Sociale dell’Onu, la collaborazione con l’Unesco,
l’Unicef, l’Oil, documentata nella ricostruzione di Galina Galkina [xxxiii], le hanno consentito di svolgere un ruolo efficace,
come organizzazione internazionale non governativa, nell’ambito del sistema
delle Nazioni Unite.
Alla FDIF va ascritto infatti il merito di aver proposto
l’istituzione, nel 1975, dell’Anno internazionale della donna che culminò nella
conferenza di Città del Messico[xxxiv]. Da lì nacque il Decennio delle Nazioni Unite per
la donna che diede vita alle Conferenze di Nairobi nell’85 e di Pechino nel
’95, con i Forum delle Ong segnati da una partecipazione di donne senza precedenti,
da ogni parte del mondo [xxxv].
La FDIF figura tra i promotori della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
verso le donne (Cedaw) - adottata nel 1979 dalle NU e oggi
sottoscritta da quasi tutti i paesi del pianeta - e ha partecipato
all’elaborazione della Dichiarazione
sulla partecipazione delle donne alla promozione della pace e della
cooperazione internazionale, adottata dalle Nazioni Unite nel 1981: il
primo passo verso l’omologa e successiva Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza, dell’ottobre
2000, che auspica una presenza egualitaria delle donne ai tavoli negoziali dei
grandi conflitti internazionali[xxxvi].
I meriti storici riguardano conquiste concrete, ma anche vittorie simboliche,
come l’aver contribuito in misura determinante, grazie all’impegno diffuso e
capillare delle organizzazioni affiliate, a fare dell’8 marzo la giornata della
donna in tutto il mondo.
Il mensile illustrato della Federazione Femmes du monde entier, pubblicato
dal
L’attenzione all’intreccio tra tematiche di genere e di classe, alle questioni dell’indipendenza e della sovranità dei popoli, il primato dell’impegno contro le guerre e per la pace, il rapporto di collaborazione con il sistema delle Nazioni Unite, la (sofferta) unicità di essere un’organizzazione femminile internazionale che riunisce donne appartenenti a paesi con regimi politici e sociali differenti, capitalisti, in via di sviluppo e socialisti (con una preponderante presenza – fino al ’90 – in questi ultimi) sono tutte caratteristiche che hanno significato il ruolo della FDIF nella politica internazionale delle donne, ma nello stesso tempo l’hanno complicato, proiettando al suo interno, più di quanto sia accaduto in altre, i riflessi delle crisi politiche internazionali.
Alcuni di questi momenti sono stati parzialmente raccontati, nelle pieghe
di narrazioni circoscritte a determinati passaggi storici. Ad esempio, nel
libro L’Udi laboratorio di politica delle
donne si racconta il momento della crisi e dello “strappo” con la
Federazione, al congresso di Mosca del 1963. In quel momento
segretaria generale della Federazione era l’italiana Carmen Zanti. Le delegate
italiane manifestarono il loro dissenso e rifiutarono di sottoscrivere due
documenti di politica internazionale. Un anno dopo l’Udi comunicò la decisione
di passare da affiliata ad associata alla federazione, cosa che comportava il
ritiro dagli organismi dirigenti. La decisione fu poi ratificata a maggioranza
dal settimo congresso dell’Udi,[xxxviii] ma ciò
non impedì che dal grosso delle iscritte fosse vissuta come il prezzo doloroso
da pagare all’unità con le socialiste. In seguito le relazioni con la Federazione
furono interrotte definitivamente.
Va detto per inciso che mantenere una sovrana lontananza dagli “schieramenti” non servì, come si è visto in seguito, né a salvare l’unità con le socialiste, né a guadagnare
all’Udi – almeno nell’immediato – riconoscimento nel movimento femminista. Poi,
con la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti nell’est
europeo e la prima guerra del Golfo, fu tutta un’altra storia.
A partire dagli anni ’70, con l’avanzata impetuosa del movimento
femminista nell’Europa occidentale e nel Nord America, anche la FDIF ha
vissuto al suo interno la contraddizione fra l’insensibilità alle tematiche del
“femminismo occidentale” e la necessità storica di comprendere i tempi che cambiano e
cogliere le mutate necessità.
Il momento di tensione più acuta coincise col terremoto politico nei paesi
dell’est europeo: quando la Federazione fu costretta a lasciare la sua sede
centrale – che era a Berlino Est – si ritrovò in una situazione di improvvisa precarietà
e ridimensionamento che sembrò porre l’alternativa se sciogliersi o continuare
ad esserci. «La storia ha molte lezioni e niente si ottiene senza lotta», scrisse
in quella circostanza Freda Brown, ultima presidente dell’era precedente la
caduta del muro, lasciando il suo incarico.
Dal congresso di Sheffield nel ’91,[xxxix]
forse quello più travagliato, la FDIF uscì con la decisione di decentrare
l’organizzazione e di creare cinque uffici regionali (per l’Europa, i Paesi
Arabi, l’America, l’Africa e l’Asia), semplificando al massimo i rapporti
interni, rinunciando ad organismi dirigenti elefantiaci e costosi, sostituiti
da un più agile esecutivo internazionale ed un’articolazione reticolare delle
affiliazioni.
La FDIF perdette la centralità europea che la caratterizzava, ma in
compenso guadagnò presenza negli altri continenti, specialmente in America
latina, ripartendo dalla partecipazione attiva al Social Forum Mondiale di Porto Alegre e ritrovando la volontà di
futuro.
La “Lettera da Luanda” – documento
approvato nell’esecutivo tenutosi nel 2005 nella capitale angolana – riconfermò
gli obiettivi fondamentali per i quali la FDIF era nata: una «genuina
uguaglianza di diritti per le donne, il rispetto della dignità della persona,
la difesa della democrazia e della sovranità nazionale, lo sviluppo con
giustizia in un mondo senza guerre e senza violenze»[xl].
«Abbiamo imparato con la nostra lotta – si dice nella Lettera – che la
globalizzazione neoliberista induce povertà e aumento delle disuguaglianze;
abbiamo imparato nella nostra quotidianità che questa globalizzazione esacerba
ogni tipo di discriminazione, intolleranza e violenza, dalla violenza di stato
a quella di genere, rafforzando i retaggi del sistema patriarcale. Nuove sfide
ci sono imposte in questo mondo divenuto unipolare, governato dall’egemonismo imperiale
americano, dall’ideologia del profitto e dall’apologia del mercato che impone
altre regole nel mondo del lavoro, annullando le conquiste di sicurezza
sociale…». Allo stesso tempo si riaffermava l’impegno originario e
sempre attuale contro la guerra, perché «i conflitti armati sono un ostacolo
alla piena partecipazione delle donne ai processi di pace e sviluppo», si
condannavano «tutte le forme di terrorismo, il quale va combattuto aggredendone
le cause» e si denunciavano «il terrorismo di stato e le guerre d’invasione
delle potenze imperialiste mirate all’espansione dei mercati e
all’appropriazione delle ricchezze dei paesi e dei popoli».
Il XIV congresso di Caracas del 2007 – festosamente segnato dai colori della rivoluzione bolivariana in ascesa, dalla crescita impetuosa della mujer latinoamericana e dall’incontro fra le generazioni delle madri con le più giovani – disse con orgoglio che c’erano ancora tante ragioni perché la Federazione continuasse ad esistere nel XXI secolo, almeno quante ce n’erano quando fu fondata.
«Oggi
un vento nuovo soffia sul pianeta e specialmente in America Latina», recitava
la dichiarazione finale. «Siamo e saremo donne in lotta per trasformare il
mondo e ottenere il benessere durevole e sostenibile attraverso la giustizia
sociale, politica, economica e di genere. Siamo donne
d’ogni età, credo, fede, identità e cultura; siamo fiduciose della nostra forza
e delle nostre capacità, sensibili alle sofferenze dei nostri popoli, apriamo i
nostri cuori e le nostre menti ai milioni di esseri umani che sentono la
necessità, la volontà e l’impegno di abbattere l’ingiusto ordine economico
sociale patriarcale che oggi domina il mondo… Vogliamo un mondo di uguaglianza
tra uomini e donne in cui la parità di opportunità sia reale ed
effettiva. Vogliamo un mondo in cui ci sia il pieno accesso alla cultura e
alla conoscenza per tutte. Siamo in tutte le sfere della società e
per questo siamo convinte che è la nostra diversità a determinare la nostra
vulcanica ricchezza di visioni e proposte. Questa diversità si manifesta nella nostra creatività, che annienta la
mediocrità del pensiero unico».
I successivi congressi di Brasilia (2012) e Bogotà (2016) hanno riaffermato le ragioni vecchie e le nuove, alla ricerca di una continuità che vuole progettare il futuro senza rinnegare il passato.
Mi piacerebbe poter dire che questo libro contribuirà a stimolare la
riflessione critica sulle connessioni – quelle che ieri alle nostre madri nella
FDIF forse non apparivano chiarissime e che oggi tormentano la ricerca femminista
– fra conflitti di genere e di classe, fra politiche delle donne e questioni
geopolitiche più generali. Ma forse è bene che io mi limiti a dire che questo
libro nasce, semplicemente, dal desiderio di informare le generazioni di donne
italiane più giovani sul fatto che parte del loro percorso di emancipazione e
liberazione lo devono alla FDIF, ma molte di loro non lo sanno. E che considero
importante tenere in vita questa storia, il cui filo conduttore ci è consegnato
da generazioni di donne – una folla di protagoniste – che hanno avuto cura che
non si spezzasse.
Poiché il testo di Galina Galkina si ferma al 2005, ho pensato di integrare
l’ultimo capitolo riassumendo gli eventi fino al 2016, avvalendomi dei miei
appunti personali, di report e pubblicazioni che sono conservati nell’archivio
dell’AWMR Italia.
Desidero vivamente ringraziare l’autrice Galina Galkina e la WUR per averci
consentito questa pubblicazione, con l’auspicio che solleciti interesse e
ulteriori ricerche. E nella speranza, ostinatamente finora non deposta, che il
materiale d’archivio conservato nella sede centrale della FDIF a Berlino fino
al 1990 non sia andato disperso – come si teme – travolto dalla bufera politica
seguita alla caduta del muro.
Mi è sembrato utile, infine, aggiungere in appendice una nota storica che
fu scritta da Yolanda Ferrer per la Federazione delle Donne Cubane, in occasione del 60° anniversario della FDIF,
perché mi pare che in qualche misura aiuti ad integrare e bilanciare una
narrazione che troppo risente ancora di uno “sguardo europeo” sulla FDIF – cosa
peraltro inevitabile, date le caratteristiche stesse della ricerca fin qui
condotta – in prospettiva di una ricostruzione storica che, per essere
completa, non potrà non essere il risultato e la sintesi della molteplicità
delle fonti e delle testimonianze.
[i] I 40 paesi, ciascuno rappresentato da una o più organizzazioni femminili, erano: Albania, Algeria, Argentina, Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Brasile, Cecoslovacchia, Cile, Cina, Colombia, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Grecia, India, Iran, Islanda, Italia, Libano/Siria, Lussemburgo, Marocco, Messico, Norvegia, Olanda, Palestina, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Tunisia, Ungheria, URSS, Uruguay. La documentazione relativa al Congresso di Parigi, con l’elenco completo delle organizzazioni iscritte a partecipare dai 40 paesi sopra elencati, si trova in Archivio UDI, presso la Casa internazionale delle donne di Roma.
[ii] Cfr. “Verso il congresso internazionale
femminile”, art. Noi donne,
N.6-7, 31ott.-15nov. 1945: «Lunedì 22 ottobre, durante i lavori del Congresso
(1° congresso nazionale dell’UDI, a Firenze ndr),
Nicole De Barry, facente parte della delegazione francese e segretaria del
Comitato d’Iniziativa Internazionale, ha lanciato alle donne italiane un caldo
appello a unirsi alle donne di tutto il mondo in una grande lega femminile per
la democrazia e per la pace. Che cosa si propone questa lega? Cosa è questo
Comitato d’iniziativa Internazionale? Il
Comitato d’iniziativa Internazionale si è costituito nel giugno scorso a
Parigi, dove ha sede, tra le delegate della Francia, della Russia, dell’Inghilterra,
della Cina, del Belgio, della Spagna, dell’Italia e della Jugoslavia, con lo
scopo di preparare un Congresso Internazionale delle donne e coordinare
l’attività delle donne del mondo intiero su questi punti programmatici
essenziali: 1°) Distruggere il fascismo e assicurare la democrazia in tutti i
paesi; 2°) Preparare un avvenire felice alle future generazioni; 3°)
Rivendicare tutti i diritti della donna come madre, come lavoratrice e come
cittadina. Rappresentava l’Italia Ada Marchesini Gobetti, vice-sindaco di
Torino e membro del Consiglio nazionale dell’UDI. Nella seconda riunione, il 5
settembre scorso, il Comitato d’Iniziativa stabiliva di fissare il 1° Congresso
a Parigi per il 26 novembre 1945 con il seguente ordine del giorno: 1°)
Partecipazione della donna alla lotta per la distruzione del fascismo; 2°)
Partecipazione della donna all’opera di ristabilimento della democrazia e di
consolidamento della pace; 3°) Situazione economica, giuridica e sociale delle
donne e mezzi da applicare per migliorare senza indugio questa situazione; 4°)
Problemi dell’infanzia e dell’educazione; 5°) Statuto della Lega
Internazionale, 6°) Elezione della Direzione della Lega. Hanno dato fino ad
oggi la loro adesione al Comitato d’Iniziativa venti paesi. l’URSS, la
Jugoslavia, la Cecoslovacchia, il Belgio, la Cina, la Francia, l’Inghilterra,
l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Svezia, la Grecia, la Romania, la
Bulgaria, l’Ungheria, il Brasile, gli Stati Uniti e l’Australia. L’Italia avrà
diritto a 24 voti deliberativi, ma è stata invitata a inviare una numerosa
delegazione veramente rappresentativa di tutte le donne italiane…la nuova Lega
dovrà essere una grande organizzazione di massa internazionale capace di
mobilitare le grandi masse femminili di tutti i paesi a quest’unico scopo e
capace, come ha detto Madame Cotton del Comitato, di pesare veramente sulle
decisioni dei vari governi». (Sta in: Noi
Donne 1944-1945, ristampa, Editrice Cooperativa Libera Stampa, Roma 1978)
[iii] Cfr. La preparazione del Congresso, articolo
di Ada Gobetti in Il Congresso di Parigi,
numero unico a cura del Comitato italiano per la Federazione democratica
internazionale delle donne, marzo 1946. (Archivio UDI, presso la Casa internazionale
delle donne di Roma): «L’ultimo giorno del congresso dell’UFF, Madame Cotton,
nobile e serena figura di scienziata e di madre, lanciò una proposta: Perché le
donne di tutto il mondo, ammaestrate dal dolore e dalle lagrime, non si univano
tutte insieme perché questo dolore e queste lagrime non fossero state vane, per
lottare contro il pericolo di nuove guerre e nuove rovine, per stabilire nel
mondo la democrazia, la libertà e la pace? La proposta fu accolta subito
entusiasticamente; e il giorno stesso le delegate degli otto paesi presenti
(Belgio, Cina, Francia, Gran Bretagna, Italia, Jugoslavia, Spagna, Unione
Sovietica ndr) stabilirono di
costituire un Comitato d’iniziativa internazionale delle Donne...». L’appello
del Comitato Internazionale (provvisorio), lanciato a Parigi il 28 giugno 1945,
recava le firme di Elyzabeth Allen (Gran Bretagna), Madame Dubrau (Belgio), Lee
Hsien Ming (Cina), Victoria Kent (Spagna), Eugenie Cotton (Francia), Ada
Marchesini Gobetti (Italia), Nina Popova (Urss), Olga Miloshevic (Yugoslavia).
[iv] Cfr. Il Congresso di Parigi, numero unico,1946
cit.
[v] Marie-Claude
Vaillant-Couturier, entrata nella Resistenza francese nel 1940.
fu arrestata nel febbraio 1942 e deportata ad Auschwitz con un convoglio
di 230 donne francesi non ebree. Da lì
fu trasferita a
Ravensbrück insieme alle altre sopravvissute. Furono liberate dall’Armata Rossa nell’aprile
1945. Marie-Claude, che per molti anni
sarebbe stata parlamentare in Francia,
nel gennaio 1946 fu una testimone
importante al primo processo di Norimberga contro i crimini nazisti.
[vi] Cfr. Il Congresso di Parigi, numero unico,
1946, cit.
[vii] Cfr. Noi Donne, foglio d’informazione
dell’Unione Donne Italiane, N.8, 30 novembre 1945, art. “La nostra volontà di pace espressa dalla
delegazione italiana”: «Sabato mattina 24 c.m. dall’aeroporto di Centocelle è
partita per Parigi la delegazione italiana al I Congresso Internazionale delle
Donne. La delegazione era così composta: per l’AFID, Sandeschi Scelba; per il
CIF, Jervolino (osservatrice); per la Commissione Consultiva femminile presso
la CGIL, Secco, Pascetti e Mari; per la FIDAPA, Cortini; per la FILDIS,
Garibaldi; per l’UDI,: Ravera, Gobetti, Rodano, Dreher, Della Porta, Pavignano,
Lorenzetto, Monsani, Bartolotti, Donnini, Longo, Romita, Maffioli; per l’URI, Beltrami;
per il partito comunista, Pisoni, per il partito d’azione, Calogero; per il
partito dem.crist. Giambruno (come osservatrice); per il partito democratico
del lavoro Friggeri; per il partito liberale, Lupinacci, per il partito repubblicano, Guarnirei; per il partito della sinistra cristiana,
Corti; per il partito socialista, Merlin, per l’ANPI, Berrini; per il Movimento
Federalista Europeo, Spinelli; Angela Zucconi come giornalista. Le ultime
notizie telegrafiche giunte da Parigi ci apprendono che 40 paesi parteciperanno
al Congresso. L’Italia è inclusa nel Comitato Esecutivo. La delegazione
italiana, una delle più rappresentative, ha destato viva simpatia. Le delegate
italiane sono state invitate a far parte di quasi tutte le commissioni
costituite per i lavori del congresso. Così Ada Gobetti è nella commissione per
il consolidamento della democrazia; Camilla Ravera nella commissione per lo
statuto che servirà di base alla Lega Internazionale delle Donne; la dott.ssa
Corti fa parte della commissione incaricata di studiare la posizione giuridica
e economica della donna. Nella seconda giornata del congresso Camilla Ravera ha
parlato del contributo della donna italiana nella lotta antifascista.
L’intervento è stato ricco di dati concreti e di spunti politici che hanno
riscosso gli applausi dell’assemblea. Il giorno seguente ha preso la parola
Maria Romita per parlare del grave problema dell’infanzia italiana». (Sta in: Noi Donne 1944-1945, ristampa, Editrice
Cooperativa Libera Stampa, Roma 1978).
[viii] Cfr. “Hanno giurato di difendere la pace”, art.
Noi Donne, N.9, 15 dicembre 1945: «A
nome di 81 milioni di donne che rappresentano al Congresso le delegate di 39
nazioni, unite dalla stessa fede e dallo stesso entusiasmo, affermiamo il
nostro fervido attaccamento alla Federazione Democratica Internazionale delle
Donne, nata dalla comune volontà e dagli sforzi perseveranti delle donne di
tutto il mondo. Prima di tornare alle nostre patrie, alle nostre case, facciamo
solenne giuramento di aderire allo sviluppo di questa grande organizzazione
femminile, nata dopo la seconda guerra mondiale. Facciamo solenne giuramento di
lottare perché siano create le condizioni indispensabili allo sviluppo
armonioso e felice dei nostri fanciulli e delle generazioni future. Facciamo
solenne giuramento di lottare instancabilmente perché sia annientato il fascismo
sotto tutte le sue forme e perché venga stabilita nel mondo intero una vera
democrazia. Facciamo solenne giuramento di lottare senza tregua per assicurare
al mondo una pace durevole, sola garanzia della felicità delle nostre case e
dei nostri figli». Sta in: Noi Donne 1944-1945, cit.
[ix] Cfr. “Messaggere di pace venute d’ogni paese” art. Noi Donne, N.9, 15 dicembre 1945. Sta
in: Noi Donne 1944-1945,
cit.
[x] I nomi
delle presidenti elette nei successivi congressi sono riportati nel cap.5 del
presente volume.
[xi] Cfr. “Dal discorso di apertura di
Madame Cotton” in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946, cit.,
pag. 4
[xii] Femmes du monde entier, Revue
éditée par la FDIF, n. 1, 1985, pag.15 (Archivio AWMR Italia)
[xiii] Cfr Statuto della FDIF, in “Il congresso di
Parigi”, numero unico, 1946 cit.
pag.10
[xiv] Ibidem
[xv] Ibidem
[xvi] Cf. “Discorso di Dolores Ibarruri”,
in “Il congresso di Parigi”, numero unico,1946, cit. pag. 10: «Il fascismo è stato vinto moralmente, militarmente e
politicamente in Europa e in Asia, ma non è stato distrutto. Le forze che hanno
nutrito e incoraggiato l’instaurazione di questo regime di barbarie e di
tirannide sono ancora in piedi, pronte a cogliere il momento propizio per
scatenarsi con nuova violenza sull’arena nazionale e internazionale. E oggi,
noi ci urtiamo a questo pericolo come ogni giorno ci urtiamo al sabotaggio che
subiscono tutti i tentativi delle Nazioni Unite per creare un vero sistema di
pace e di sicurezza collettiva. L’inspiegabile ritardo nel punire i criminali
di guerra, i colpevoli della guerra, gli ostacoli che si frappongono alla
ricostruzione in ogni paese, sono opera delle forze sconfitte le quali tentano
di creare un’atmosfera di sfiducia e di disperazione per ricominciare il
sinistro lavoro di propaganda e disgregazione morale e politica dei popoli.
Soltanto rinsaldando la democrazia, soltanto difendendo accanitamente la
democrazia e la giustizia e fondando in ogni paese regimi veramente
democratici, il pericolo che ancora sovrasta i popoli potrà essere scongiurato.
Noi donne non vogliamo e non possiamo disinteressarci dei problemi gravissimi
che la creazione di una pace solida e durevole impone ai popoli. Vogliamo
partecipare attivamente agli sforzi per la ricostruzione, vogliamo partecipare
ai lavori per rendere più leggeri i fardelli che gravano sui popoli mettendo a
disposizione le nostre energie e la nostra volontà incrollabile: siamo pronte a
tutti i sacrifici, a tutti i lavori e a tutte le dedizioni per far sorgere di
nuovo tra le rovine e le ceneri che la guerra si è lasciata alle spalle, popoli
lieti e città fiorenti. Tale spirito, e non uno diverso, anima questo congresso
internazionale di donne».
[xvii] Ibidem
[xviii] Cf Statuto della Federazione
Democratica Internazionale delle Donne in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946, cit. pag. 16: «Compiti. La FDIF dichiara
che cercherà con tutte le sue forze di ottenere la realizzazione delle seguenti
rivendicazioni: 1) Completa uguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini
in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e giuridica, compreso
il campo della magistratura. Attribuzione alle donne del diritto di eleggere e
di essere elette sulla stessa base degli uomini in tutti i gradi
dell’amministrazione e nel parlamento, partecipazione a tutte le organizzazioni
nazionali e internazionali. 2) Soppressione dell’ineguaglianza nella
retribuzione del lavoro delle donne e degli uomini, e applicazione completa del
principio: a lavoro uguale, salario uguale; diritto di lavorare in tutte le
sfere dell’attività umana sulla stessa base degli uomini; garanzia di lavoro
per tutte; proibizione dei licenziamenti delle donne sposate; uguaglianza di
diritti in tutte le organizzazioni sindacali e professionali. 3) Attribuzione
alle donne di uguali diritti degli uomini nel campo dell’istruzione e della
formazione professionale; 4) Miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita
delle lavoratrici, basate su un compenso adeguato; valorizzazione del lavoro
femminile; assicurazioni sociali contro le malattie, gli scioperi, gli infortuni
e la vecchiaia. Estensioni dei benefici delle leggi sociali alle contadine.
Organizzazione o miglioramento degli assegni famigliari, sopprimendo ogni
diseguaglianza tra i figli legittimi o no. 5) Protezione della madre, sposata o
no, per mezzo dell’organizzazione dell’assistenza sociale nelle officine, nei
laboratori e negli uffici; misure speciali per le donne incinte e le madri che
allattano; concessione di un congedo di sei settimane prima e di sei settimane
dopo il parto con salario uguale al salario medio; organizzazione di periodi di
riposo durante la giornata di lavoro per le madri che allattano, senza
diminuzione del salario, e fondazione di nidi.»
[xix] “Dal discorso di apertura di Madame
Cotton” in “Il congresso di Parigi”, numero
unico, 1946 cit.
[xx] Ibidem
[xxi] Francisca De Haan è docente di Gender Studies e Storia presso la Central European University di Budapest. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni nei campi della storia europea moderna, dell’attivismo politico delle donne, della storia transnazionale, Guerra Fredda e gender. E’ fondatrice di Aspasia: The International Yearbook of Central, Eastern and South-eastern European Women’s and Gender History ed è stata vice-presidente della International Federation for Research in Women’s History (IFRWH) (2005-2010).
[xxii] «La storia della lotta globale per i
diritti delle donne dal 1945 sta cominciando a essere raccontata. Per una
corretta comprensione delle continuità e dei cambiamenti nella lotta per i
diritti delle donne durante questo periodo, dobbiamo tornare alla Lega delle
Nazioni, il predecessore delle Nazioni Unite. Inoltre, dobbiamo considerare più
pienamente il ruolo importante di quelle che attualmente sono spesso chiamate
"organizzazioni tradizionali di donne" nel promuovere i diritti delle
donne a livello internazionale, almeno fino al 1975». Cfr. https://unchronicle.un.org/authors/francisca-de-haan
[xxiii] F. De Haan: «Karen Offen, per esempio, nel suo importante libro European Feminisms 1700-1950: A political History (Stanford CA: Stanford University Press, 2000) scrive che nel 1953 la WIDF “sollevò la bandiera dei diritti delle donne” e che la WIDF nel 1953 “annesse” il “linguaggio dei diritti delle donne” (p.387), come se i diritti delle donne non fossero stati centrali nel programma e nelle attività della WIDF fin dal primo giorno; ella aggiunge che ciò accadde “in osservanza di un …programma politico capeggiato dall’Unione Sovietica” (p.387)». Rip. in http://wasi.alexanderstreet.com/help/view/the_womens_international_democratic_federation_widf_history_main_agenda_and_contributions_19451991
[xxiv] F. De Haan: «La WIDF non è menzionata, per esempio, in: "Worlds of Feminism" di Susan Kent, ed. Bonnie G. Smith, Women's History in Global Perspective, vol. 1 (Urbana and Chicago: University of Illinois Press), pp. 275-312; "Feminist Movements: Gender and Sexual Equality," di Barbara Winslow, edizioni Teresa A. Meade and Merry E. Wiesner-Hanks, A Companion to Gender History (Malden: Blackwell Publishing, 2004), pp. 186-205; o ed. Bonnie G. Smith, Oxford Encyclopedia of Women in World History (Oxford: Oxford University Press, 2008). E’ inoltre notevole che, per esempio, Christine Bolt, Sisterhood Questioned? Race, Class and Internationalism in the American and British Women's Movements, c. 1880s-1970s (London and New York: Routledge, 2004), non includa la WIDF, o che Karen Garner non faccia cenno al fatto che fu la WIDF a proporre l’Anno Internazionale delle Donne (AID); vedi il suo Shaping a Global Women's Agenda: Women's NGOs and Global Governance, 1925-85 (Manchester: Manchester University Press, 2010), 215». Ibidem
[xxvi] Francisca de Haan, Continuing Cold War Paradigms in Western
Historiography of Transnational Women's Organizations: The Case of the Women's
International Democratic Federation (WIDF), Women's History
Review 19:4, (September 2010): 547-73. Ibidem
[xxvii] F. De Haan: «Il furioso anticomunismo degli
ultimi anni ’40 e ‘50 negli Stati Uniti portarono alla persecuzione di persone di
sinistra e di altri “dissidenti”, alla distorsione degli obiettivi “comunisti”
(quella che Natalie Zemon Davis nel 1951 apertamente chiamò la “Operation
Mind”) e la stigmatizzazione di (sospetti) comunisti che, secondo le parole di
Gerda Lerner, erano “considerati…traditori e spie al fine di colpire il
dissenso”. In questo contesto, dunque, una vasta componente di donne (sospette)
“comuniste” o “pro-comuniste” come il Congress of American Women (CAW) divenne
intollerabile per il governo degli Usa. Il CAW e la FDIF divennero oggetto di
indagini da parte dell’HUAC. L’HUAC, oltre a distruggere il CAW –
l’organizzazione fu costretta a sciogliersi nel
[xxviii] F. De Haan: «Quando scoppiò la Guerra Fredda, la WIDF
solitamente sostenne l’Unione Sovietica. Questo sostegno, comunque, non
significava che la WIDF era stata fondata dal “movimento comunista
internazionale” o che era una organizzazione del “fronte sovietico” con
obiettivi diversi da quelli dichiarati. Ancor meno significa che la WIDF “non
era realmente” interessata ai diritti delle donne. Queste cose furono dichiarate
dalla House Un-American Activities Committee degli Stati Uniti d’America
(HUAC), in un rapporto del 1949 sulla FDIF e la sua organizzazione affiliate
americana, il Congresso delle Donne Americane (CAW). Tuttavia le accuse
dell’HUAC influenzarono molto l’opinione pubblica. Sospetti e rigetti della WIDF
come “strumento sovietico” da allora si diffusero largamente in occidente. La
campagna denigratoria dell’UAC è una delle ragioni per cui la WIDF è scomparsa
dalla mappa mentale delle storiche femministe occidentali (relegata in un luogo
oscuro “oltre la Cortina di ferro”)». Ibidem
[xxix] F. De Haan: «Inoltre, laddove la WIDF compare, è accompagnata
dall’eco delle accuse dell’HUAC; da allora la FDIF è trattata con sospetto e
non si fa menzione del suo impegno in difesa dei diritti delle donne, questo
non viene preso sul serio, o sospettato di essere subalterno ad altri scopi.» Ibidem
[xxx] F. De Haan: «Una caratteristica importante della
WIDF era quella di essere più inclusiva delle altre organizzazioni
internazionali di donne già esistenti, non solo perché la leadership e il corpo
della FDIF comprendeva donne della classe operaia, ma anche perché vi erano
coinvolte donne di ogni parte del mondo. Fin dal 1945 la WIDF riservò un posto
ad una vice-presidente cinese, che fu occupato nel 1948 dalla signora Tsai
Chang. Nel 1953 il numero delle vice-presidenti fu esteso da quattro a dieci:
Nina Popova (Unione sovietica), Dolores Ibarruri (Spagna), Andrea Andreen
(Svezia), Tsai Chang (Cina), Céza Nabaraoui (Egitto), Monica Felton (UK),
Funmilayo Ransome Kuti (Nigeria), Rita Montagnana (Italia), Erzsébel Andics
(Ungheria), e Lilly Wachter (RDT), (con posti riservati a India, Giappone,
Brasile e Usa)». Ibidem
[xxxii] Vedi nota n.31
[xxxiii] Cfr. il
IV capitolo del presente volume
[xxxiv] Cfr.
pag. 49 del presente volume
[xxxv] Cfr.
cap. V del presente volume
[xxxvi] Cfr.
cap. IV del presente volume
[xxxvii] La
rivista fu stampata fino al 1992
[xxxviii] Cfr. M.Michetti,
M.Repetto,L.Viviani Udi laboratorio di
politica delle donne, Cooperativa libera stampa, Roma, 1984 pag.317 sgg.
[xxxix] Vedi
pag. del presente volume
[xl] Archivio
AWMR Italia, Lecce.
Nessun commento:
Posta un commento