30/11/20

FDIF/FDIM/WIDF 1945-2020 Una storia da raccontare

 Il 1° dicembre di 75 anni fa nasceva la  Federazione Democratica Internazionale delle Donne




Ricordiamo quel giorno (e ciò che ne seguì) riportando l'introduzione al libro di GALINA GALKINA La Federazione Democratica Internazionale delle Donne. Capitoli nella storia (Edizioni Il Raggio Verde, 2017)

Il volume è reperibile in formato ebook: https://www.bookrepublic.it/book/9788899679286-la-federazione-democratica-internazionale-delle-donne/



Una storia da raccontare

di Ada Donno

«È un’emozione per me salutare tante donne d’ogni provenienza, differenti percorsi di vita ed età, che qui rappresentano più di 40 paesi del mondo» disse Eugénie Cotton, prestigiosa allieva di Marie Curie e presidente dell’Unione delle donne francesi, salutando le convenute a Parigi, nel Palais de la Mutualité, quel 26 novembre 1945. Era il primo incontro internazionale di donne dopo la guerra e l’occasione era di quelle che passano alla storia: 850 donne, o forse più, delegate da oltre 180 organizzazioni d’Europa, Nord  e Sud America, Africa e Australia,  a rappresentare virtualmente 81 milioni di donne,[i] avevano risposto all’invito del Comitato d’Iniziativa Internazionale che si era costituito a Parigi nel mese di giugno di quell’anno.[ii] Era stata la stessa Madame Cotton a lanciare l’idea di un congresso internazionale, dal quale far nascere una grande federazione femminile per la democrazia e la pace [iii].

Finalmente, dopo il lavoro febbrile di molti mesi, l’idea diventava realtà. Tra le delegate c’erano ex deportate nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, donne che avevano perduto marito e figli nella guerra, che avevano conosciuto la dura vita della clandestinità e dell’esilio, che avevano combattuto sui campi di battaglia e nelle file della Resistenza europea. Ad esse si aggiunsero donne di altri continenti, alcune venivano da paesi nei quali le lotte contro il colonialismo e per l’indipendenza nazionale erano agli inizi.

Alcune delle presenti avevano nomi conosciuti oltre i confini dei loro paesi, perfino leggendari, come la pasionaria basca Dolores Ibarruri e la combattente dell’Armata Rossa Nina Popova.[iv] La francese Marie Claude Vaillant Couturier era sopravvissuta ad Auschwitz[v]. La britannica Elizabeth Acland Allen era una pacifista nota per aver contribuito ad organizzare il grande Congresso Mondiale della Pace di Bruxelles del ‘36, alla vigilia della guerra. Victoria Kent rappresentava la Spagna antifranchista costretta all’esilio.[vi] Altre erano semplici operaie, delegate sindacali, attiviste, i cui nomi suonavano sconosciuti ai più.

Della delegazione italiana (fra le più nutrite, insieme a quelle di Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico e Francia), facevano parte donne che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale repubblicana e nel movimento femminile, come Camilla Ravera, Ada Gobetti, Maria Romita, Lina Merlin, Maria Calogero, Anna Lorenzetto, Elena Fischli Dreher, Gigliola Spinelli, Rosetta Longo, Marisa Rodano e altre. [vii]

Da quel congresso, il 1° dicembre 1945, nacque la Federazione democratica internazionale delle donne. La grande tragedia del fascismo e della seconda guerra mondiale – la più distruttiva che l’umanità avesse conosciuto – era alle spalle e i sentimenti prevalenti fra la gente, in Europa come negli altri continenti, erano la speranza che gli orrori a cui aveva assistito non si ripetessero mai più e la determinazione a lottare per questo.

«A nome di 81 milioni di donne, facciamo solenne giuramento di aderire allo sviluppo di questa grande organizzazione femminile, nata dopo la seconda guerra mondiale. Facciamo solenne giuramento di lottare …» dichiararono le donne riunite a congresso.[viii] Oggi forse il linguaggio suona antiquato e fra le donne non usa più fare solenni pubblici giuramenti, ma non v’è dubbio che una convinzione profonda e un autentico entusiasmo ispirassero le fondatrici della FDIF, come testimoniò la corrispondente di Noi Donne, che scrisse: «Due italiane, tutt’e due appartenenti all’Udi, Ada Gobetti e Camilla Ravera, fanno parte del Comitato esecutivo della Federazione. Tutte noi donne italiane dobbiamo essere liete e fiere che la lunga attività antifascista delle migliori fra noi, che il nostro apporto alla lotta di liberazione e all’opera di ricostruzione – apporto del quale la nostra grande Udi può a buon diritto rivendicare il merito – abbia permesso al nostro paese d’essere degnamente rappresentato in un organismo internazionale di tanta importanza per l’avvenire dell’umanità».[ix]

«La Federazione nasce perché le donne di tutti i continenti possano lottare unite per la realizzazione dei loro interessi e delle loro speranze», disse ancora Eugénie Cotton, che fu eletta presidente della Federazione e conservò l’incarico fino al 1967, anno della sua morte.[x] E aggiunse, commossa: «Per la nostra bella impresa, abbiamo le stesse ambizioni e lo stesso amore che una giovane madre ha per il figlio che sta per nascerle, e noi vogliamo vegliare sulla giustizia e sulla pace come sulla salute preziosa dei nostri figli».[xi]

Quel momento sarà ricordato a lungo, con tenerezza ancora incredula, dalle donne che vi parteciparono, molte delle quali negli anni successivi divennero dirigenti politiche di primo piano nei loro paesi di provenienza. «Oggi una non s’immagina neppure le difficoltà – raccontava molti anni più tardi Marie-Claude Vaillant-Couturier, che della federazione fu segretaria generale per i primi dieci anni -  costituite dai lunghi viaggi non soltanto per venire da paesi lontani come l’Argentina o l’India con i mezzi di trasporto dell’epoca, ma anche per attraversare l’Europa devastata dalla guerra. L’organizzazione materiale del congresso richiese grandi sforzi, non c’erano le apparecchiature per la traduzione simultanea, come oggi, e le traduzioni si facevano per gruppi ad alta voce in un frastuono spaventoso. Ma non era importante, dominava l’emozione di ritrovarsi assieme, di misurare assieme l’importanza della partecipazione delle donne…”». [xii]

La neonata Federazione scelse di darsi obiettivi che riflettevano i sentimenti e le necessità di quel momento storico: la «lotta contro il fascismo e il militarismo, la sola che può permettere di assicurare le condizioni di una pace durevole», un’azione risoluta per «l’uguaglianza completa di diritti per donne e uomini in tutti i campi  della vita sociale, giuridica, politica ed economica» e per «il rispetto di tutte le libertà fondamentali degli esseri umani, senza distinzione di genere, razza, lingua o credo religioso»[xiii].

Alla comunità internazionale il congresso di Parigi chiese «il rispetto dei principi di uguaglianza di diritti e di autodeterminazione per tutti i popoli» e «del diritto di ciascun popolo a scegliere liberamente, senza ingerenze esterne, la forma di governo che gli conviene».[xiv]  La difesa del diritto dei popoli all’indipendenza nazionale e alle libertà democratiche, la costruzione della pace e del disarmo universale apparivano un compito fondamentale delle donne. Già presaghe dei nuovi pericoli che si paravano all’orizzonte, le convenute a Parigi chiesero che l’energia atomica fosse messa «al servizio del progresso e della pace e posta sotto il controllo delle Nazioni Unite».[xv] Uscendo dalla più mortale delle guerre, scatenata dal fascismo, era comprensibile che le questioni della democrazia  e della pace fossero poste in primo piano.

A farsi interprete di questa preoccupazione fu soprattutto Dolores Ibarruri, con la veemenza del suo eloquio trascinante[xvi]: «I nostri cuori di donne e di madri battono d’una indignazione violenta pensando che, mentre ancora sanguinano le ferite della guerra, mentre le rovine delle città distrutte ancora ci si parano davanti, tragica testimonianza di un passato d’orrore, vi siano persone che non soltanto ricominciano a parlare di guerra, ma si preparano a nuove aggressioni”[xvii].

Tuttavia c’era anche piena consapevolezza che nessuna vera democrazia si sarebbe costruita, nessuno sviluppo economico e sociale equo sarebbe stato possibile finché le donne non avessero goduto della pienezza dei loro diritti. Di tutti i diritti, in campo politico, economico, giuridico e sociale.[xviii]

«Il nostro incontro di oggi – ammonì Eugénie Cotton – è un evento storico di cui dobbiamo sottolineare l’importanza e la novità. I milioni di lavoratrici di tutti i paesi che hanno inviato delegate a questo Congresso sono oggi anche elettrici. Non solo possono esprimere dei desideri su tutte le questioni che le interessano, ma possono mettere al servizio delle loro rivendicazioni l’autorità dei loro voti. Questa autorità è grande, e noi ne abbiamo coscienza»[xix].

Alle “donne del mondo” fu proposto un programma d’azione con il lungo elenco dei diritti da conquistare e difendere «in quanto madri, lavoratrici e cittadine, per la difesa del diritto alla vita e al futuro per i loro figli, ».[xx]

Su questo punto occorre soffermarsi e insistere.

La ricostruzione puntuale degli eventi che vedono promotrici e partecipi la FDIF e le sue organizzazioni affiliate nel mondo, fatta da Galina Galkina, è basata in larga misura su materiale d’archivio e su pubblicazioni autobiografiche di alcune protagoniste, reperiti per lo più in Russia (come testimoniano i riferimenti riportati nelle note). È il punto di partenza indispensabile e prezioso di una ricostruzione storica che, per essere completa, non potrà non essere il risultato e la sintesi della molteplicità delle fonti e delle testimonianze.

Tuttavia, va detto che non è affatto facile reperire - nella pur abbondante pubblicistica, disponibile sia in cartaceo che on line, riguardante le attività di movimenti transnazionali di donne nella seconda metà del secolo scorso – altre rielaborazioni storiche importanti sulla FDIF. Abbiamo solo narrazioni parziali, pezzetti di storie, riferimenti inseriti nelle pieghe di narrazioni biografiche o autobiografiche di coloro che di questa storia sono state partecipi o testimoni. Questo vuoto non è casuale, anzi ha ragioni precise che solo da qualche anno in qua si stanno cominciando ad indagare.

Richiamo su questo punto ciò che scrive Francisca De Haan, docente di Gender Studies e Storia presso la Central European University di Budapest, [xxi] autrice di un progetto di ricerca che si propone di “ripensare le donne della Guerra Fredda: una storia politica femminista transnazionale” e di focalizzare in particolare le storie di alcune organizzazioni femminili internazionali palesemente  e immotivatamente “sottorappresentate”  nella storiografia femminista occidentale che si è occupata del periodo che va dal 1945 ad oggi.

De Haan osserva in premessa che "per una corretta comprensione delle continuità e dei cambiamenti nella lotta per i diritti delle donne durante questo periodo,… dobbiamo considerare più pienamente il ruolo importante di quelle che attualmente sono spesso chiamate "organizzazioni tradizionali di donne" nel promuovere i diritti delle donne a livello internazionale, almeno fino al 1975."[xxii]

Coloro che si sono occupate di questa storia «hanno trattato della FDIF come se i diritti delle donne non fossero stati centrali nel programma e nelle sue attività fin dal primo giorno» [xxiii], dice De Haan citando alcuni esempi clamorosi di studiose dei movimenti femministi che hanno sottovalutato o ignorato l’apporto della FDIF alla affermazione dei diritti delle donne. [xxiv] E sottolineando che, quelli da lei citati, “sono solo esempi di un più esteso atteggiamento nella storiografia occidentale di sottovalutazione o sottorappresentazione della FDIF”.[xxv]

Quanto abbiano giocato su tale atteggiamento quelli che De Haan chiama “i paradigmi della guerra fredda”[xxvi] e quanto questi abbiano influenzato l’intera storiografia occidentale, ma in particolare quella sui movimenti delle donne, è un campo d’indagine appena aperto.[xxvii]

Sta di fatto che la FDIF fu oggetto in occidente di una campagna denigratoria, che è almeno una delle ragioni per cui essa “è scomparsa dalla mappa mentale delle storiche femministe occidentali (relegata in un angolo oscuro oltre la “cortina di ferro”) [xxviii]. E laddove la FDIF compare, “è trattata con sospetto e non si fa menzione del suo impegno in difesa dei diritti delle donne, questo non viene preso sul serio, o sospettato di essere subalterno ad altri scopi”.[xxix]

Questo può spiegare perché non è stata scritta una storia della FDIF autonoma, che non sia cioè “collaterale” o narrata nelle pieghe di altre ricostruzioni storiche o socio-politiche incentrate su avvenimenti o fenomeni in cui essa appare collocata a margine. La ricerca di Galina Galkina, proprio per le sue caratteristiche – essere stata condotta fedelmente su documenti d’archivio originali – comincia a colmare un vuoto nella ricostruzione storica del movimento transnazionale delle donne (ma che ha avuto riflessi inevitabili sui movimenti nei singoli paesi), a documentare una presenza, a restituire una centralità negata, a fare giustizia di un equivoco di cui la FDIF è stata oggetto – solo in parte dovuto al fatto che fosse “più inclusiva delle altre organizzazioni di donne già esistenti” [xxx] – ristabilendo alcune verità. A partire dal suo congresso fondativo[xxxi].  

Il percorso seguito da Galkina è quello scandito dai “congressi mondiali” della FDIF (che seguirono a quello di Parigi del 1945, più o meno regolarmente -  a Budapest,  Copenhagen, Vienna, Mosca, Helsinki, Berlino, Praga e così via fino a quello di Beirut che segna l’ingresso nel terzo millennio – ai quali non solo partecipavano le delegate delle organizzazioni affiliate, ma anche venivano invitate altre organizzazioni nazionali e internazionali, esponenti delle Nazioni Unite, personalità del mondo della cultura, della scienza, della politica, dei movimenti sociali), dalle riunioni annuali del Consiglio e del Comitato esecutivo, dai seminari internazionali, la cui stessa dislocazione nel tempo e nello spazio consente di rintracciare la mappa delle attività della Federazione nel corso dei suoi settant’anni. 

La FDIF oggi

In settant’anni sono cambiate parecchie cose. Dopo le tensioni parossistiche della guerra fredda, il mondo è stato attraversato dalla distensione, e poi di nuovo da guerre calde, la cosiddetta “guerra a pezzi”, a cui assistiamo oggi. I muri costruiti in Europa sono stati abbattuti, ma ora se ne profilano di nuovi.

In alcune parti del mondo le donne hanno conquistato i diritti che si proponevano, ma in altre devono lottare per i diritti più elementari e ancora fanno fatica a nominare i diritti riproduttivi. Ci sono da molti anni istituzioni internazionali che autorevolmente affermano i diritti delle donne – non per niente sono state fatte le rivoluzioni – ma per l’iniqua distribuzione delle risorse solo una parte di esse può effettivamente esercitarli.

Nelle aree del pianeta toccate dal benessere, il miglioramento delle condizioni generali della società ha indotto nuove esigenze, impensabili a quel congresso di Parigi del ‘45. Premono necessità culturali nuove e si affermano forme nuove di pensiero rispetto a settant’anni fa. Ma se la somma delle esigenze, dei progetti e delle costruzioni è fatta di tante voci diverse, la cifra totale non è poi così lontana da quella di allora.

La FDIF e le sue organizzazioni affiliate hanno contribuito a questa crescita in maniera varia e articolata. Lo statuto consultivo di cui ha goduto fin dal 1947, pur con alterne vicende[xxxii], presso il Consiglio Economico e Sociale dell’Onu, la collaborazione con l’Unesco, l’Unicef, l’Oil, documentata nella ricostruzione di Galina Galkina [xxxiii], le hanno consentito di svolgere un ruolo efficace, come organizzazione internazionale non governativa, nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite.

Alla FDIF va ascritto infatti il merito di aver  proposto l’istituzione, nel 1975, dell’Anno internazionale della donna che culminò nella conferenza di Città del Messico[xxxiv]. Da lì nacque il Decennio delle Nazioni Unite per la donna che diede vita alle Conferenze di Nairobi nell’85 e di Pechino nel ’95, con i Forum delle Ong segnati da una partecipazione di donne senza precedenti, da ogni parte del mondo [xxxv].

La FDIF figura tra i promotori della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne (Cedaw) - adottata nel 1979 dalle NU e oggi sottoscritta da quasi tutti i paesi del pianeta - e ha partecipato all’elaborazione della Dichiarazione sulla partecipazione delle donne alla promozione della pace e della cooperazione internazionale, adottata dalle Nazioni Unite nel 1981: il primo passo verso l’omologa e successiva Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza, dell’ottobre 2000, che auspica una presenza egualitaria delle donne ai tavoli negoziali dei grandi conflitti internazionali[xxxvi].  

I meriti storici riguardano conquiste concrete, ma anche vittorie simboliche, come l’aver contribuito in misura determinante, grazie all’impegno diffuso e capillare delle organizzazioni affiliate, a fare dell’8 marzo la giornata della donna in tutto il mondo.

Il mensile illustrato della Federazione Femmes du monde entier, pubblicato dal 1951 in francese, inglese, tedesco, spagnolo, russo e arabo, per alcuni decenni[xxxvii] è stata la rivista femminile più letta al mondo.

L’attenzione all’intreccio tra tematiche di genere e di classe, alle questioni dell’indipendenza e della sovranità dei popoli, il primato dell’impegno contro le guerre e per la pace, il rapporto di collaborazione con il sistema delle Nazioni Unite, la (sofferta) unicità di essere un’organizzazione femminile internazionale che riunisce donne appartenenti a paesi con regimi politici e sociali differenti, capitalisti, in via di sviluppo e socialisti (con una preponderante presenza – fino al ’90 – in questi ultimi) sono tutte caratteristiche che hanno significato il ruolo della FDIF nella politica internazionale delle donne, ma nello stesso tempo l’hanno complicato, proiettando al suo interno, più di quanto sia accaduto in altre, i riflessi delle crisi politiche internazionali.

Alcuni di questi momenti sono stati parzialmente raccontati, nelle pieghe di narrazioni circoscritte a determinati passaggi storici. Ad esempio, nel libro L’Udi laboratorio di politica delle donne si racconta il momento della crisi e dello “strappo” con la Federazione, al congresso di Mosca del 1963. In quel momento segretaria generale della Federazione era l’italiana Carmen Zanti. Le delegate italiane manifestarono il loro dissenso e rifiutarono di sottoscrivere due documenti di politica internazionale. Un anno dopo l’Udi comunicò la decisione di passare da affiliata ad associata alla federazione, cosa che comportava il ritiro dagli organismi dirigenti. La decisione fu poi ratificata a maggioranza dal settimo congresso dell’Udi,[xxxviii] ma ciò non impedì che dal grosso delle iscritte fosse vissuta come il prezzo doloroso da pagare all’unità con le socialiste. In seguito le relazioni con la Federazione furono interrotte definitivamente.

Va detto per inciso che mantenere una sovrana lontananza dagli “schieramenti” non servì, come si è visto in seguito, né a salvare l’unità con le socialiste, né a guadagnare all’Udi – almeno nell’immediato –  riconoscimento nel movimento femminista. Poi, con la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti nell’est europeo e la prima guerra del Golfo, fu tutta un’altra storia.

A partire dagli anni ’70, con l’avanzata impetuosa del movimento femminista nell’Europa occidentale e nel Nord America, anche la FDIF ha vissuto al suo interno la contraddizione fra l’insensibilità alle tematiche del “femminismo occidentale” e la necessità storica di comprendere i tempi che cambiano e cogliere le mutate necessità.

Il momento di tensione più acuta coincise col terremoto politico nei paesi dell’est europeo: quando la Federazione fu costretta a lasciare la sua sede centrale – che era a Berlino Est – si ritrovò in una situazione di improvvisa precarietà e ridimensionamento che sembrò porre l’alternativa se sciogliersi o continuare ad esserci. «La storia ha molte lezioni e niente si ottiene senza lotta», scrisse in quella circostanza Freda Brown, ultima presidente dell’era precedente la caduta del muro, lasciando il suo incarico.

Dal congresso di Sheffield nel ’91,[xxxix] forse quello più travagliato, la FDIF uscì con la decisione di decentrare l’organizzazione e di creare cinque uffici regionali (per l’Europa, i Paesi Arabi, l’America, l’Africa e l’Asia), semplificando al massimo i rapporti interni, rinunciando ad organismi dirigenti elefantiaci e costosi, sostituiti da un più agile esecutivo internazionale ed un’articolazione reticolare delle affiliazioni.

La FDIF perdette la centralità europea che la caratterizzava, ma in compenso guadagnò presenza negli altri continenti, specialmente in America latina, ripartendo dalla partecipazione attiva al Social Forum Mondiale di Porto Alegre e ritrovando la volontà di futuro.

La “Lettera da  Luanda –  documento approvato nell’esecutivo tenutosi nel 2005 nella capitale angolana – riconfermò gli obiettivi fondamentali per i quali la FDIF era nata: una «genuina uguaglianza di diritti per le donne, il rispetto della dignità della persona, la difesa della democrazia e della sovranità nazionale, lo sviluppo con giustizia in un mondo senza guerre e senza violenze»[xl].

 «Abbiamo imparato con la nostra lotta – si dice nella Lettera –  che la globalizzazione neoliberista induce povertà e aumento delle disuguaglianze; abbiamo imparato nella nostra quotidianità che questa globalizzazione esacerba ogni tipo di discriminazione, intolleranza e violenza, dalla violenza di stato a quella di genere, rafforzando i retaggi del sistema patriarcale. Nuove sfide ci sono imposte in questo mondo divenuto unipolare, governato dall’egemonismo imperiale americano, dall’ideologia del profitto e dall’apologia del mercato che impone altre regole nel mondo del lavoro, annullando le conquiste di sicurezza sociale…».  Allo stesso tempo si riaffermava l’impegno originario e sempre attuale contro la guerra, perché «i conflitti armati sono un ostacolo alla piena partecipazione delle donne ai processi di pace e sviluppo», si condannavano «tutte le forme di terrorismo, il quale va combattuto aggredendone le cause» e si denunciavano «il terrorismo di stato e le guerre d’invasione delle potenze imperialiste mirate all’espansione dei mercati e all’appropriazione delle ricchezze dei paesi e dei popoli».

Il XIV congresso di Caracas del 2007 – festosamente segnato dai colori della rivoluzione bolivariana in ascesa, dalla crescita impetuosa della mujer latinoamericana e dall’incontro fra le generazioni delle madri con le più giovani – disse con orgoglio che c’erano ancora tante ragioni perché la Federazione continuasse ad esistere nel XXI secolo, almeno quante ce n’erano quando fu fondata.  

«Oggi un vento nuovo soffia sul pianeta e specialmente in America Latina», recitava la dichiarazione finale. «Siamo e saremo donne in lotta per trasformare il mondo e ottenere il benessere durevole e sostenibile attraverso la giustizia sociale, politica, economica e di genere. Siamo donne d’ogni età, credo, fede, identità e cultura; siamo fiduciose della nostra forza e delle nostre capacità, sensibili alle sofferenze dei nostri popoli, apriamo i nostri cuori e le nostre menti ai milioni di esseri umani che sentono la necessità, la volontà e l’impegno di abbattere l’ingiusto ordine economico sociale patriarcale che oggi domina il mondo… Vogliamo un mondo di uguaglianza tra uomini e donne in cui la parità di opportunità sia reale ed effettiva. Vogliamo un mondo in cui ci sia il pieno accesso alla cultura e alla conoscenza per tutte.  Siamo in tutte le sfere della società e per questo siamo convinte che è la nostra diversità a determinare la nostra vulcanica ricchezza di visioni e proposte. Questa diversità si manifesta nella nostra creatività, che annienta la mediocrità del pensiero unico».

I successivi congressi di Brasilia (2012) e Bogotà (2016) hanno riaffermato le ragioni vecchie e le nuove, alla ricerca di una continuità che vuole progettare il futuro senza rinnegare il passato.

Mi piacerebbe poter dire che questo libro contribuirà a stimolare la riflessione critica sulle connessioni – quelle che ieri alle nostre madri nella FDIF forse non apparivano chiarissime e che oggi tormentano la ricerca femminista – fra conflitti di genere e di classe, fra politiche delle donne e questioni geopolitiche più generali. Ma forse è bene che io mi limiti a dire che questo libro nasce, semplicemente, dal desiderio di informare le generazioni di donne italiane più giovani sul fatto che parte del loro percorso di emancipazione e liberazione lo devono alla FDIF, ma molte di loro non lo sanno. E che considero importante tenere in vita questa storia, il cui filo conduttore ci è consegnato da generazioni di donne – una folla di protagoniste – che hanno avuto cura che non si spezzasse.

Poiché il testo di Galina Galkina si ferma al 2005, ho pensato di integrare l’ultimo capitolo riassumendo gli eventi fino al 2016, avvalendomi dei miei appunti personali, di report e pubblicazioni che sono conservati nell’archivio dell’AWMR Italia.

Desidero vivamente ringraziare l’autrice Galina Galkina e la WUR per averci consentito questa pubblicazione, con l’auspicio che solleciti interesse e ulteriori ricerche. E nella speranza, ostinatamente finora non deposta, che il materiale d’archivio conservato nella sede centrale della FDIF a Berlino fino al 1990 non sia andato disperso – come si teme – travolto dalla bufera politica seguita alla caduta del muro.

Mi è sembrato utile, infine, aggiungere in appendice una nota storica che fu scritta da Yolanda Ferrer per la Federazione delle Donne Cubane,  in occasione del 60° anniversario della FDIF, perché mi pare che in qualche misura aiuti ad integrare e bilanciare una narrazione che troppo risente ancora di uno “sguardo europeo” sulla FDIF – cosa peraltro inevitabile, date le caratteristiche stesse della ricerca fin qui condotta – in prospettiva   di una ricostruzione storica che, per essere completa, non potrà non essere il risultato e la sintesi della molteplicità delle fonti e delle testimonianze.



[i] I 40 paesi, ciascuno rappresentato da una o più organizzazioni femminili, erano: Albania, Algeria, Argentina, Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Brasile, Cecoslovacchia, Cile, Cina, Colombia, Danimarca, Egitto, Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Grecia, India, Iran, Islanda, Italia, Libano/Siria, Lussemburgo, Marocco, Messico, Norvegia, Olanda, Palestina, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Tunisia, Ungheria, URSS, Uruguay. La documentazione relativa al Congresso di Parigi, con l’elenco completo delle organizzazioni iscritte a partecipare dai 40 paesi sopra elencati, si trova in Archivio UDI, presso la Casa internazionale delle donne di Roma.

[ii] Cfr. “Verso il congresso internazionale femminile”, art. Noi donne, N.6-7, 31ott.-15nov. 1945: «Lunedì 22 ottobre, durante i lavori del Congresso (1° congresso nazionale dell’UDI, a Firenze ndr), Nicole De Barry, facente parte della delegazione francese e segretaria del Comitato d’Iniziativa Internazionale, ha lanciato alle donne italiane un caldo appello a unirsi alle donne di tutto il mondo in una grande lega femminile per la democrazia e per la pace. Che cosa si propone questa lega? Cosa è questo Comitato d’iniziativa Internazionale?  Il Comitato d’iniziativa Internazionale si è costituito nel giugno scorso a Parigi, dove ha sede, tra le delegate della Francia, della Russia, dell’Inghilterra, della Cina, del Belgio, della Spagna, dell’Italia e della Jugoslavia, con lo scopo di preparare un Congresso Internazionale delle donne e coordinare l’attività delle donne del mondo intiero su questi punti programmatici essenziali: 1°) Distruggere il fascismo e assicurare la democrazia in tutti i paesi; 2°) Preparare un avvenire felice alle future generazioni; 3°) Rivendicare tutti i diritti della donna come madre, come lavoratrice e come cittadina. Rappresentava l’Italia Ada Marchesini Gobetti, vice-sindaco di Torino e membro del Consiglio nazionale dell’UDI. Nella seconda riunione, il 5 settembre scorso, il Comitato d’Iniziativa stabiliva di fissare il 1° Congresso a Parigi per il 26 novembre 1945 con il seguente ordine del giorno: 1°) Partecipazione della donna alla lotta per la distruzione del fascismo; 2°) Partecipazione della donna all’opera di ristabilimento della democrazia e di consolidamento della pace; 3°) Situazione economica, giuridica e sociale delle donne e mezzi da applicare per migliorare senza indugio questa situazione; 4°) Problemi dell’infanzia e dell’educazione; 5°) Statuto della Lega Internazionale, 6°) Elezione della Direzione della Lega. Hanno dato fino ad oggi la loro adesione al Comitato d’Iniziativa venti paesi. l’URSS, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, il Belgio, la Cina, la Francia, l’Inghilterra, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Svezia, la Grecia, la Romania, la Bulgaria, l’Ungheria, il Brasile, gli Stati Uniti e l’Australia. L’Italia avrà diritto a 24 voti deliberativi, ma è stata invitata a inviare una numerosa delegazione veramente rappresentativa di tutte le donne italiane…la nuova Lega dovrà essere una grande organizzazione di massa internazionale capace di mobilitare le grandi masse femminili di tutti i paesi a quest’unico scopo e capace, come ha detto Madame Cotton del Comitato, di pesare veramente sulle decisioni dei vari governi». (Sta in: Noi Donne 1944-1945, ristampa, Editrice Cooperativa Libera Stampa, Roma 1978)

[iii] Cfr. La preparazione del Congresso, articolo di Ada Gobetti in Il Congresso di Parigi, numero unico a cura del Comitato italiano per la Federazione democratica internazionale delle donne, marzo 1946. (Archivio UDI, presso la Casa internazionale delle donne di Roma): «L’ultimo giorno del congresso dell’UFF, Madame Cotton, nobile e serena figura di scienziata e di madre, lanciò una proposta: Perché le donne di tutto il mondo, ammaestrate dal dolore e dalle lagrime, non si univano tutte insieme perché questo dolore e queste lagrime non fossero state vane, per lottare contro il pericolo di nuove guerre e nuove rovine, per stabilire nel mondo la democrazia, la libertà e la pace? La proposta fu accolta subito entusiasticamente; e il giorno stesso le delegate degli otto paesi presenti (Belgio, Cina, Francia, Gran Bretagna, Italia, Jugoslavia, Spagna, Unione Sovietica ndr) stabilirono di costituire un Comitato d’iniziativa internazionale delle Donne...». L’appello del Comitato Internazionale (provvisorio), lanciato a Parigi il 28 giugno 1945, recava le firme di Elyzabeth Allen (Gran Bretagna), Madame Dubrau (Belgio), Lee Hsien Ming (Cina), Victoria Kent (Spagna), Eugenie Cotton (Francia), Ada Marchesini Gobetti (Italia), Nina Popova (Urss), Olga Miloshevic  (Yugoslavia).

[iv] Cfr. Il Congresso di Parigi, numero unico,1946 cit.

[v] Marie-Claude Vaillant-Couturier, entrata nella Resistenza francese nel 1940. fu arrestata nel febbraio 1942 e deportata ad Auschwitz con  un convoglio di 230 donne francesi non ebree. Da lì fu trasferita a  Ravensbrück insieme alle altre sopravvissute. Furono liberate dall’Armata Rossa nell’aprile 1945.  Marie-Claude, che per molti anni sarebbe stata parlamentare in Francia, nel gennaio 1946 fu una testimone importante al primo processo di Norimberga contro i crimini nazisti.

[vi] Cfr. Il Congresso di Parigi, numero unico, 1946, cit.

[vii] Cfr. Noi Donne, foglio d’informazione dell’Unione Donne Italiane, N.8, 30 novembre 1945, art. “La nostra volontà di pace espressa dalla delegazione italiana”: «Sabato mattina 24 c.m. dall’aeroporto di Centocelle è partita per Parigi la delegazione italiana al I Congresso Internazionale delle Donne. La delegazione era così composta: per l’AFID, Sandeschi Scelba; per il CIF, Jervolino (osservatrice); per la Commissione Consultiva femminile presso la CGIL, Secco, Pascetti e Mari; per la FIDAPA, Cortini; per la FILDIS, Garibaldi; per l’UDI,: Ravera, Gobetti, Rodano, Dreher, Della Porta, Pavignano, Lorenzetto, Monsani, Bartolotti, Donnini, Longo, Romita, Maffioli; per l’URI, Beltrami; per il partito comunista, Pisoni, per il partito d’azione, Calogero; per il partito dem.crist. Giambruno (come osservatrice); per il partito democratico del lavoro Friggeri; per il partito liberale, Lupinacci, per il partito repubblicano, Guarnirei; per il partito della sinistra cristiana, Corti; per il partito socialista, Merlin, per l’ANPI, Berrini; per il Movimento Federalista Europeo, Spinelli; Angela Zucconi come giornalista. Le ultime notizie telegrafiche giunte da Parigi ci apprendono che 40 paesi parteciperanno al Congresso. L’Italia è inclusa nel Comitato Esecutivo. La delegazione italiana, una delle più rappresentative, ha destato viva simpatia. Le delegate italiane sono state invitate a far parte di quasi tutte le commissioni costituite per i lavori del congresso. Così Ada Gobetti è nella commissione per il consolidamento della democrazia; Camilla Ravera nella commissione per lo statuto che servirà di base alla Lega Internazionale delle Donne; la dott.ssa Corti fa parte della commissione incaricata di studiare la posizione giuridica e economica della donna. Nella seconda giornata del congresso Camilla Ravera ha parlato del contributo della donna italiana nella lotta antifascista. L’intervento è stato ricco di dati concreti e di spunti politici che hanno riscosso gli applausi dell’assemblea. Il giorno seguente ha preso la parola Maria Romita per parlare del grave problema dell’infanzia italiana». (Sta in: Noi Donne 1944-1945, ristampa, Editrice Cooperativa Libera Stampa, Roma 1978).

[viii] Cfr. “Hanno giurato di difendere la pace”, art. Noi Donne, N.9, 15 dicembre 1945: «A nome di 81 milioni di donne che rappresentano al Congresso le delegate di 39 nazioni, unite dalla stessa fede e dallo stesso entusiasmo, affermiamo il nostro fervido attaccamento alla Federazione Democratica Internazionale delle Donne, nata dalla comune volontà e dagli sforzi perseveranti delle donne di tutto il mondo. Prima di tornare alle nostre patrie, alle nostre case, facciamo solenne giuramento di aderire allo sviluppo di questa grande organizzazione femminile, nata dopo la seconda guerra mondiale. Facciamo solenne giuramento di lottare perché siano create le condizioni indispensabili allo sviluppo armonioso e felice dei nostri fanciulli e delle generazioni future. Facciamo solenne giuramento di lottare instancabilmente perché sia annientato il fascismo sotto tutte le sue forme e perché venga stabilita nel mondo intero una vera democrazia. Facciamo solenne giuramento di lottare senza tregua per assicurare al mondo una pace durevole, sola garanzia della felicità delle nostre case e dei nostri figli».  Sta in: Noi Donne 1944-1945, cit.

[ix] Cfr. “Messaggere di pace venute d’ogni paese” art. Noi Donne, N.9, 15 dicembre 1945. Sta in: Noi Donne 1944-1945, cit.

[x] I nomi delle presidenti elette nei successivi congressi sono riportati nel cap.5 del presente volume.

[xi] Cfr. “Dal discorso di apertura di Madame Cotton” in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946, cit., pag. 4

[xii] Femmes du monde entier, Revue éditée par la FDIF, n. 1, 1985, pag.15 (Archivio AWMR Italia)

[xiii] Cfr Statuto della FDIF, in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946 cit. pag.10

[xiv] Ibidem

[xv] Ibidem

[xvi] Cf. “Discorso di Dolores Ibarruri”, in “Il congresso di Parigi”, numero unico,1946, cit. pag. 10: «Il fascismo è stato vinto moralmente, militarmente e politicamente in Europa e in Asia, ma non è stato distrutto. Le forze che hanno nutrito e incoraggiato l’instaurazione di questo regime di barbarie e di tirannide sono ancora in piedi, pronte a cogliere il momento propizio per scatenarsi con nuova violenza sull’arena nazionale e internazionale. E oggi, noi ci urtiamo a questo pericolo come ogni giorno ci urtiamo al sabotaggio che subiscono tutti i tentativi delle Nazioni Unite per creare un vero sistema di pace e di sicurezza collettiva. L’inspiegabile ritardo nel punire i criminali di guerra, i colpevoli della guerra, gli ostacoli che si frappongono alla ricostruzione in ogni paese, sono opera delle forze sconfitte le quali tentano di creare un’atmosfera di sfiducia e di disperazione per ricominciare il sinistro lavoro di propaganda e disgregazione morale e politica dei popoli. Soltanto rinsaldando la democrazia, soltanto difendendo accanitamente la democrazia e la giustizia e fondando in ogni paese regimi veramente democratici, il pericolo che ancora sovrasta i popoli potrà essere scongiurato. Noi donne non vogliamo e non possiamo disinteressarci dei problemi gravissimi che la creazione di una pace solida e durevole impone ai popoli. Vogliamo partecipare attivamente agli sforzi per la ricostruzione, vogliamo partecipare ai lavori per rendere più leggeri i fardelli che gravano sui popoli mettendo a disposizione le nostre energie e la nostra volontà incrollabile: siamo pronte a tutti i sacrifici, a tutti i lavori e a tutte le dedizioni per far sorgere di nuovo tra le rovine e le ceneri che la guerra si è lasciata alle spalle, popoli lieti e città fiorenti. Tale spirito, e non uno diverso, anima questo congresso internazionale di donne».

[xvii] Ibidem

[xviii] Cf Statuto della Federazione Democratica Internazionale delle Donne in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946, cit. pag. 16: «Compiti. La FDIF dichiara che cercherà con tutte le sue forze di ottenere la realizzazione delle seguenti rivendicazioni: 1) Completa uguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini in tutti i campi della vita sociale, politica, economica e giuridica, compreso il campo della magistratura. Attribuzione alle donne del diritto di eleggere e di essere elette sulla stessa base degli uomini in tutti i gradi dell’amministrazione e nel parlamento, partecipazione a tutte le organizzazioni nazionali e internazionali. 2) Soppressione dell’ineguaglianza nella retribuzione del lavoro delle donne e degli uomini, e applicazione completa del principio: a lavoro uguale, salario uguale; diritto di lavorare in tutte le sfere dell’attività umana sulla stessa base degli uomini; garanzia di lavoro per tutte; proibizione dei licenziamenti delle donne sposate; uguaglianza di diritti in tutte le organizzazioni sindacali e professionali. 3) Attribuzione alle donne di uguali diritti degli uomini nel campo dell’istruzione e della formazione professionale; 4) Miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici, basate su un compenso adeguato; valorizzazione del lavoro femminile; assicurazioni sociali contro le malattie, gli scioperi, gli infortuni e la vecchiaia. Estensioni dei benefici delle leggi sociali alle contadine. Organizzazione o miglioramento degli assegni famigliari, sopprimendo ogni diseguaglianza tra i figli legittimi o no. 5) Protezione della madre, sposata o no, per mezzo dell’organizzazione dell’assistenza sociale nelle officine, nei laboratori e negli uffici; misure speciali per le donne incinte e le madri che allattano; concessione di un congedo di sei settimane prima e di sei settimane dopo il parto con salario uguale al salario medio; organizzazione di periodi di riposo durante la giornata di lavoro per le madri che allattano, senza diminuzione del salario, e fondazione di nidi.»

[xix] Dal discorso di apertura di Madame Cotton” in “Il congresso di Parigi”, numero unico, 1946 cit.

[xx] Ibidem

[xxi] Francisca De Haan è docente di Gender Studies e Storia presso la Central European University di Budapest. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni nei campi della storia europea moderna, dell’attivismo politico delle donne, della storia transnazionale, Guerra Fredda e gender. E’ fondatrice di Aspasia: The International Yearbook of Central, Eastern and South-eastern European Women’s and Gender History ed è stata vice-presidente della International Federation for Research in Women’s History (IFRWH) (2005-2010).

[xxii]  «La storia della lotta globale per i diritti delle donne dal 1945 sta cominciando a essere raccontata. Per una corretta comprensione delle continuità e dei cambiamenti nella lotta per i diritti delle donne durante questo periodo, dobbiamo tornare alla Lega delle Nazioni, il predecessore delle Nazioni Unite. Inoltre, dobbiamo considerare più pienamente il ruolo importante di quelle che attualmente sono spesso chiamate "organizzazioni tradizionali di donne" nel promuovere i diritti delle donne a livello internazionale, almeno fino al 1975». Cfr. https://unchronicle.un.org/authors/francisca-de-haan

[xxiii] F. De Haan: «Karen Offen, per esempio, nel suo importante libro European Feminisms 1700-1950: A political History (Stanford CA: Stanford University Press, 2000) scrive che nel 1953 la WIDF “sollevò la bandiera dei diritti delle donne” e che la WIDF nel 1953 “annesse” il “linguaggio dei diritti delle donne” (p.387), come se i diritti delle donne non fossero stati centrali nel programma e nelle attività della WIDF fin dal primo giorno; ella aggiunge che ciò accadde “in osservanza di un …programma politico capeggiato dall’Unione Sovietica” (p.387)». Rip. in http://wasi.alexanderstreet.com/help/view/the_womens_international_democratic_federation_widf_history_main_agenda_and_contributions_19451991

[xxiv] F. De Haan: «La WIDF non è menzionata, per esempio, in: "Worlds of Feminism" di Susan Kent, ed. Bonnie G. Smith, Women's History in Global Perspective, vol. 1 (Urbana and Chicago: University of Illinois Press), pp. 275-312; "Feminist Movements: Gender and Sexual Equality," di Barbara Winslow, edizioni Teresa A. Meade and Merry E. Wiesner-Hanks, A Companion to Gender History (Malden: Blackwell Publishing, 2004), pp. 186-205; o ed. Bonnie G. Smith, Oxford Encyclopedia of Women in World History (Oxford: Oxford University Press, 2008). E’ inoltre notevole che, per esempio,  Christine Bolt, Sisterhood Questioned? Race, Class and Internationalism in the American and British Women's Movements, c. 1880s-1970s (London and New York: Routledge, 2004), non includa la WIDF, o che Karen Garner non faccia cenno al fatto che fu la WIDF a proporre l’Anno Internazionale delle Donne (AID); vedi il suo Shaping a Global Women's Agenda: Women's NGOs and Global Governance, 1925-85 (Manchester: Manchester University Press, 2010), 215». Ibidem

[xxv] F. De Haan: «Secondo Emmanuelle Carle, Duchêne et la recherche d'une autre route: entre le pacifisme féministe et l'antifascisme (Ph.D. Thesis, McGill University, Montreal, 2005), 435, gli obiettivi della WIDF erano la lotta contro il fascismo e per la democrazia e la pace. I diritti delle donne non venivano menzionati. Tuttavia è importante sottolineare che i lavori di Offen e Carle sono solo esempi di un più esteso atteggiamento nella storiografia occidentale di sottovalutazione o sottorappresentazione della WIDF». Ibidem.

«Questo accade mentre generalmente si accettano le organizzazioni di donne occidentali che si autoproclamano “politicamente neutrali”. Esempi influenti sono Leila J. Rupp, Worlds of Women: The Making of an International Women's Movement (Princeton N.J.: Princeton University Press, 1997) e Offen, European Feminisms. Per i movimenti di donne “terzomondiali” con un programma più ampio rispetto alla sola eguaglianza di genere, vedi Third World Women and the Politics of Feminism, Chandra Talpade Mohanty, Ann Russo e Lourdes Torres editori, (Bloomington: Indiana University Press, 1991)». Ibidem 

[xxvi] Francisca de Haan, Continuing Cold War Paradigms in Western Historiography of Transnational Women's Organizations: The Case of the Women's International Democratic Federation (WIDF), Women's History Review 19:4, (September 2010): 547-73. Ibidem

[xxvii] F. De Haan: «Il furioso anticomunismo degli ultimi anni ’40 e ‘50 negli Stati Uniti portarono alla persecuzione di persone di sinistra e di altri “dissidenti”, alla distorsione degli obiettivi “comunisti” (quella che Natalie Zemon Davis nel 1951 apertamente chiamò la “Operation Mind”) e la stigmatizzazione di (sospetti) comunisti che, secondo le parole di Gerda Lerner, erano “considerati…traditori e spie al fine di colpire il dissenso”. In questo contesto, dunque, una vasta componente di donne (sospette) “comuniste” o “pro-comuniste” come il Congress of American Women (CAW) divenne intollerabile per il governo degli Usa. Il CAW e la FDIF divennero oggetto di indagini da parte dell’HUAC. L’HUAC, oltre a distruggere il CAW – l’organizzazione fu costretta a sciogliersi nel 1950 in conseguenza di varie forme di pressione esercitate dal governo Usa – manovrò per creare un’immagine distorta della FDIF, soprattutto usando l’accusa contenuta nel report del 1949, secondo cui la FDIF non era ciò che pretendeva di essere. L’HUAC accusava la FDIF di essere una “organizzazione del fronte sovietico”, invece che un’organizzazione progressista internazionale di donne. Perciò la WIDF, secondo l’HUAC, era “non realmente” interessata ai “problemi delle donne, in quanto tali”, ma fingeva di esserlo, usando tale finzione come mezzo per attirare “donne deboli” nella sfera comunista sovietica. Il reale obiettivo della Federazione, affermava il report dell’HUAC, era “fungere da braccio specializzato della politica bellicista sovietica all’interno del movimento pacifista, per disarmare e smobilitare gli Stati Uniti e in generale le nazioni democratiche, al fine di renderli deboli di fronte alle mire comuniste di conquista del mondo”». Ibidem 

[xxviii] F. De Haan: «Quando scoppiò la Guerra Fredda, la WIDF solitamente sostenne l’Unione Sovietica. Questo sostegno, comunque, non significava che la WIDF era stata fondata dal “movimento comunista internazionale” o che era una organizzazione del “fronte sovietico” con obiettivi diversi da quelli dichiarati. Ancor meno significa che la WIDF “non era realmente” interessata ai diritti delle donne. Queste cose furono dichiarate dalla House Un-American Activities Committee degli Stati Uniti d’America (HUAC), in un rapporto del 1949 sulla FDIF e la sua organizzazione affiliate americana, il Congresso delle Donne Americane (CAW). Tuttavia le accuse dell’HUAC influenzarono molto l’opinione pubblica. Sospetti e rigetti della WIDF come “strumento sovietico” da allora si diffusero largamente in occidente. La campagna denigratoria dell’UAC è una delle ragioni per cui la WIDF è scomparsa dalla mappa mentale delle storiche femministe occidentali (relegata in un luogo oscuro “oltre la Cortina di ferro”)». Ibidem

[xxix] F. De Haan: «Inoltre, laddove la WIDF compare, è accompagnata dall’eco delle accuse dell’HUAC; da allora la FDIF è trattata con sospetto e non si fa menzione del suo impegno in difesa dei diritti delle donne, questo non viene preso sul serio, o sospettato di essere subalterno ad altri scopi.» Ibidem

[xxx] F. De Haan: «Una caratteristica importante della WIDF era quella di essere più inclusiva delle altre organizzazioni internazionali di donne già esistenti, non solo perché la leadership e il corpo della FDIF comprendeva donne della classe operaia, ma anche perché vi erano coinvolte donne di ogni parte del mondo. Fin dal 1945 la WIDF riservò un posto ad una vice-presidente cinese, che fu occupato nel 1948 dalla signora Tsai Chang. Nel 1953 il numero delle vice-presidenti fu esteso da quattro a dieci: Nina Popova (Unione sovietica), Dolores Ibarruri (Spagna), Andrea Andreen (Svezia), Tsai Chang (Cina), Céza Nabaraoui (Egitto), Monica Felton (UK), Funmilayo Ransome Kuti (Nigeria), Rita Montagnana (Italia), Erzsébel Andics (Ungheria), e Lilly Wachter (RDT), (con posti riservati a India, Giappone, Brasile e Usa)». Ibidem

[xxxi] F. De Haan: «Al congresso fondativo della WIDF, fu adottata una mozione di sostegno alle Nazioni Unite e fu espresso l’auspicio di una Commissione sullo Status delle donne. Nel febbraio 1947, la WIDF fu una delle organizzazioni femminili internazionali che ricevette lo Status Consultivo categoria B con il Consiglio Economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) e le sue Commissioni, compresa la Commissione sullo Status delle Donne (CSW). Non c’è ancora una ricerca dettagliata ed equilibrata sull’operato della CSW in questo periodo che stabilisca in che misura e come le varie parti ed organizzazioni contribuirono alla sua agenda, sforzi e risultati. Mentre abbiamo bisogno di ulteriori ricerche circa il contributo della WIDF alle NU, è chiaro più in generale che l’incombente Guerra Fredda ebbe un fortissimo impatto sul lavoro e il confronto all’interno della CSW, tanto che essa nei suoi primi anni era stata descritta come un “campo di battaglia della Guerra Fredda”. Inoltre, come già osservato prima, la WIDF divenne un bersaglio diretto delle politiche anticomuniste. Non solo la WIDF fu costretta a trasferire la sua sede centrale dalla Francia nel gennaio 1951, ma l’organizzazione perdette anche il suo status consultivo alle NU nell’aprile 1954. Ciò avvenne su iniziativa degli Stati Uniti, appoggiati dalla Gran Bretagna, in quanto alleata e seguace di una procedura non democratica. La ragione in questo caso sembra essere stato il fatto che la WIDF nel 1951 inviò una propria commissione d’indagine, formata da 21 donne di 17 paesi, in Corea per indagare e documentare i crimini commessi dalle truppe degli Stati Uniti e della Corea del Sud nella guerra di Corea. La commissione pubblicò poi un rapporto sui risultati delle sue indagini, intitolato Noi accusiamo. Pubblicato in oltre venti lingue, il rapporto suscitò considerevole attenzione a livello mondiale e fece infuriare il governo degli Stati Uniti. La WIDF fu riammessa allo Status consultivo alle NU nel giugno 1967 (grazie all’appoggio dei paesi ex coloniali di nuova indipendenza); nel maggio 1969 passò allo status consultivo di grado superiore A. Qualche anno dopo il suo rientro, nel 1972, la WIDF propose di fissare un Anno Internazionale delle Donne (IWY). La proposta fu accolta e l’IWY, celebrato nel 1975, ebbe il risultato di dare l’avvio ad un più vasto processo per rendere le donne e i temi che le riguardavano più centrali nelle NU e la “parità di genere” una parte generalmente accettata dell’agenda internazionale sui diritti umani. Tale processo comprese l’estensione dell’Anno Internazionale delle Donne a Decennio per le Donne (1976-1985), le quattro Conferenze delle NU sulle donne del 1975, 1980, 1985 e 1995, e l’accettazione della Convenzione sull’Eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel 1979, anch’essa proposta dalla WIDF. Sebbene la WIDF sia stata alla base dell’Anno Internazionale delle donne, che incluse la prima Conferenza mondiale delle NU di Città del Messico nel 1975, l’organizzazione sembra aver giocato un ruolo minore nel Forum delle ONG in quella conferenza, a causa di rinnovate politiche da guerra fredda che portarono la WIDF ad essere emarginata dall’organizzazione del Forum. Sicché la WIDF tenne il suo IWY Congresso Mondiale a Berlino nell’ottobre 1975. Le dinamiche e l’impatto di questo Congresso Mondiale, che era stato pianificato molto prima della Conferenza di Città del Messico e fu riconosciuto dalle NU, ancora hanno bisogno di essere indagate attentamente. Il fatto che la storiografia occidentale sull’IWY abbia in grandissima parte taciuto su di esso non significa certamente che  esso fosse insignificante.»  Ibidem

[xxxii] Vedi nota n.31

[xxxiii] Cfr. il IV capitolo del presente volume

[xxxiv] Cfr. pag. 49 del presente volume

[xxxv] Cfr. cap. V del presente volume

[xxxvi] Cfr. cap. IV del presente volume

[xxxvii] La rivista fu stampata fino al 1992

[xxxviii] Cfr. M.Michetti, M.Repetto,L.Viviani Udi laboratorio di politica delle donne, Cooperativa libera stampa, Roma, 1984 pag.317 sgg.

[xxxix] Vedi pag. del presente volume

[xl] Archivio AWMR Italia, Lecce.


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