"Quando il confronto con la guerra, la morte, la distruzione, le sofferenze, passa attraverso le macchine elettroniche e il loro automatismo, le tematiche relative alle convenienze strategiche di “sicurezza” e di “supremazia” prendono il posto di considerazioni e priorità legate al senso della reciproca tutela, sostituendosi alla legislazione internazionale umanitaria, alla ricerca di mediazioni diplomatiche di pace fra i contendenti…"
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di Letizia Oddo – pubblicato su CRS Centro per la Riforma dello Stato
La frase che
segue è tratta da un testo scritto nel 1973 da un gruppo di giovani scienziati
impegnati nel movimento per la pace che, venuti a conoscenza delle ricerche sui
droni armati svolte dall’esercito americano dopo la guerra del Vietnam,
scrissero un articolo per denunciarne i pericoli:
«Per i corpi
umani, con le loro capacità necessariamente limitate anche se armati, ogni
difesa è inutile contro questi strumenti, che non conoscono limiti se non
quelli meccanici. La guerra a distanza è una guerra fatta da macchine umane
contro il corpo umano. È come se lo spirito umano fosse migrato dalle macchine
con l’obiettivo di distruggere il corpo umano»[1]1.
Uccidere il
nemico nella guerra a distanza, avvalendosi di sistemi pilotati
dall’intelligenza artificiale, può significare – riprendendo le parole
dell’articolo – migrare dalle macchine lo spirito umano (la nostra ragione,
sensibilità, affettività, senso di responsabilità) fino a concepire i
dispositivi tecnologici, i sistemi d’arma, come entità completamente
automatiche, tese a emanciparsi da qualsiasi forma di gestione e di controllo da
parte degli esseri umani che dovrebbero governarli.
I sistemi d’arma ‘intelligenti’ diventano feticci divinizzati delle proiezioni di onnipotenza, nuovo idolo in cui racchiudere attese salvifiche. Da sempre la retorica della guerra si è avvalsa dell’introiezione, a livello dell’inconscio collettivo, della dinamica onnipotenza-impotenza, fomentando il senso di persecuzione evocato dai nemici e, al tempo stesso, il senso di supremazia proiettato su armi che rendono imbattibili.
Negli attuali contesti di guerra,
la crescente implementazione delle potenzialità operative di armi letali
pilotate dall’intelligenza artificiale, permette ai comandi militari di
attribuire a tali strumenti una valenza simbolica onnipotente, tale da renderli
capaci di esteriorizzare gran parte dell’esperienza tattica, trasferita dalla
soggettività umana a un’intelligenza “altra”, inorganica, meccanica,
computazionale, capace di risultare invincibile secondo l’amplificazione
fantasmatica, la volontà di potenza espressa dalla contemporanea retorica
militare. La definizione di ‘intelligenza artificiale’ vista come “la capacità
delle macchine di eseguire compiti che normalmente richiedono l’intelligenza
umana” data dal Dipartimento della Difesa USA, conferma questa linea
interpretativa.
Nelle guerre dell’AI il processo di artificializzazione dell’immaginario tende a intensificarsi nei vissuti, nelle scelte dei comandi militari e dei soldati, che intrattengono con gli strumenti tecnologici un rapporto di stretta identificazione e dipendenza. Una ibridazione, dove la potenza tecnologica dei sistemi d’arma, la loro esattezza e velocità, sono valorizzati perché capaci di incrementare in maniera esponenziale le tattiche di attacco e difesa. Che questo slittamento verso l’automatismo della efficacia bellica avvenga a spese del senso di libertà e padronanza soggettive, può essere vissuto non come una perdita, ma anche come una liberazione, come un processo deresponsabilizzante rispetto alla propria presa di coscienza, alla consapevolezza delle sofferenze e delle morti inflitte e subite.
Un esempio può essere visto nel programma di
intelligenza artificiale Lavender, un sistema utilizzato dall’esercito
israeliano che, da un enorme database di informazioni, estrae liste di
individui i quali, per determinati comportamenti e frequentazioni, potrebbero
essere miliziani di Hamas. Sottopone quindi a sorveglianza continua, ancora più
stretta, centinaia di persone sospette. Una volta che il programma Lavender
decide secondo i propri algoritmi che determinate persone potrebbero
effettivamente essere miliziani di Hamas, li qualifica come obbiettivi: vengono
prese di mira per essere uccise, con bombardamenti che coinvolgono le loro
famiglie e qualsiasi altro civile presente nello stesso edificio, tramite
ordini di attacco e procedure messe in atto senza verificare i criteri e le
informazioni in base ai quali la macchina opera le proprie scelte.
L’irrazionalità
nichilistica della guerra, la sua terrificante spinta distruttiva e
autodistruttiva inconscia, sembrano così trovare nei sistemi d’arma abilitati
dall’intelligenza artificiale la loro esatta rappresentazione funzionale,
tradotta in catene di causa-effetto simmetriche, capaci di offrire al conflitto
armato la soluzione ‘ottimale’, quella più rapida possibile.
Tale tipo di
aggiornamento tecnologico è considerato ormai fondamentale per garantire
l’egemonia militare degna di una grande potenza. Riprendendo le parole di
Vladimir Putin, “chiunque diventi leader dell’AI dominerà il mondo”.
È questa
visione che si sta imponendo oggi in Europa, con la velocità tipica del
contagio psichico inconscio, dove da una politica fondata su processi di
negoziazione, di mediazione diplomatica, si deve passare, secondo questa
prospettiva bellicista, a una politica centrata su un livello di riarmo tale da
garantire la difesa dalle mire espansionistiche della Russia che non si fermano
più all’Ucraina, ma minacciano la nostra sicurezza, la nostra stabilità,
stravolgendo gli assetti strategici mondiali. Un’azione di difesa preventiva che
deve bloccare la pressione russa sul fianco orientale della NATO – Lettonia e
Finlandia – rispetto alla quale non contano le trattative diplomatiche
possibili.
Come afferma
la frase più volte ripetuta dal Presidente del Consiglio europeo Charles Michel:
“Bisogna prepararsi alla guerra per avere la pace”. La supposta difesa della
pace, nella rinnovata retorica bellicista europea, deve coincidere con un
addestramento militare tecnologico rivolto ai giovani, anche alle donne, ma
soprattutto con un incremento della spesa militare per i nuovi sistemi d’arma,
visti come investimenti necessari per garantire gli assetti di sicurezza e
stabilità strategica futura.
In questo
scenario storico è importante ribadire i rischi che il soluzionismo tecnologico
può comportare nei processi di interrogazione psichica e politica, sempre, ma
soprattutto nei contesti di guerra, là dove si attua una delega che svuota di
senso le domande di conoscenza e di legittimità, la consapevolezza della
propria responsabilità, la ricerca di alternative di convivenza e di pace.
Prospettive che sono paralizzate dai vissuti di passività, di estraneità
emotiva e cognitiva, che si realizzano quando il confronto con la guerra, la
morte, la distruzione, le sofferenze, passa attraverso le macchine elettroniche
e il loro automatismo: le tematiche relative alle convenienze strategiche di
“sicurezza” e di “supremazia” prendono il posto di considerazioni e priorità
legate al senso della reciproca tutela, sostituendosi alla legislazione
internazionale umanitaria, alla ricerca di mediazioni diplomatiche di pace fra
i contendenti, alla ricerca di confronto con le reciproche istanze di vendetta
– fanatismo, razzismo – rinunciando quindi a cercare di costruire alleanze,
gruppi di dialogo e di azione interculturali e interreligiosi.
Senza un
processo di interrogazione autocritica sull’uso della forza intesa come istanza
sadica di sopraffazione e dominio, senza lo sviluppo di una adeguata
consapevolezza storica dei crimini di guerra compiuti, senza una elaborazione
condivisa a livello comunitario, il trauma epocale legato alle violenze,
umiliazioni, sofferenze, mutilazioni agite o subite, e alla devastazione della
vita quotidiana, rischia di non essere accompagnato dalla trasmissione
consapevole degli avvenimenti e degli stati affettivi originari che li hanno
suscitati: il trauma collettivo viene dimenticato o alterato. Una terrificante
eredità inconscia si trasmette così di generazione in generazione, facendo
sanguinare la storia, perpetuando i vissuti di angoscia e di odio, chiudendo il
divenire delle nuove generazioni in un circolo ricorsivo di ritorsioni e vendette,
di guerre senza fine.
[1] “I droni
armati una nuova minaccia per l’umanità” in Norberto Bobbio, La guerra e la pace, 2001.
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