Parliamo di questa
guerra, anche se ve ne sono in corso altre decine in altrettanti angoli del
mondo, di cui non ci accorgiamo perché avvengono a sufficiente distanza di
sicurezza dai nostri confini geografici e dalla nostra mappa mentale.
«Una guerra
in atto è già una sconfitta», ha scritto la Women’s International Democratic Federation
nel suo appello a sostegno della mobilitazione del 5 marzo per la pace in
Ucraina, pochi giorni dopo l’avvio della “operazione speciale” della Russia,
che ai russi è vietato chiamare guerra.
«Lo è per le
donne che creano la vita e se ne prendono cura, per ogni persona impegnata
nella costruzione della pace, per i popoli che ne subiscono le peggiori
conseguenze, per le istituzioni statali e internazionali che non hanno saputo o
voluto né prevenirla né fermarla, facendo agire le costituzioni, le Carte, le
convenzioni e i trattati che richiamano a relazioni pacifiche fra gli Stati,
alla soluzione negoziata delle controversie, alla cooperazione. Lo è per i suoi
terribili effetti immediati e quelli che restano nel tempo, per le morti, le
distruzioni, le ferite inferte ai corpi e alle cose, i bambini traumatizzati,
le separazioni dolorose e gli esodi forzati. Per i diritti negati». (Fermare la guerra in Ucraina, fermare tutte
le guerre! Appello della WIDF, 2 marzo 2022).
Ma lo è
anche, aggiungo, per i risvolti più miserabili che l’eccitazione bellica
riverbera nelle comunità che ne sono in misura diversa investite o coinvolte –
direttamente o indirettamente, più o meno vicine o lontane dai teatri di guerra
– e portano con sé un deterioramento delle relazioni umane che è altrettanto
difficile e lungo da risanare.
Uno di
questi risvolti è il clima di sospetto e intimidazione che ricade su chi fra
noi non si mostri abbastanza solerte nel rispondere alla chiamata alla
cobelligeranza. Dai media irreggimentati ci viene ripetuto incessantemente che questo
accade in Russia, ma non si racconta con altrettanta diligenza il sospetto di
connivenza col nemico, perfino lo zelo delatorio che colpiscono chi non si
allinea con la guerra, anche da questa parte della frontiera (Il coraggio di volere la pace, 6
marzo 2022).
Per tutto
questo, in tante, abbiamo rifiutato di schierarci con l’una o con l’altra delle
parti che si fronteggiano in questa guerra, abbiamo detto che essa va fermata
subito, prima che si espanda e risucchi nel suo vortice il resto dell’Europa e
altre regioni del mondo. Ciò non vuol dire però che siamo rimaste in silenzio,
né che ci siamo astenute dall’esprimere un giudizio e una condanna di chi
questa guerra l’ha premeditata e voluta, cioè gli Stati Uniti e la NATO, o se
ne è reso complice, o non ha fatto nulla per fermarla.
Non ci
schieriamo perché «non esistono guerre umanitarie, non esistono guerre giuste,
non esistono guerre per portare la pace», come abbiamo detto nell’appello Fermiamo la guerra in Ucraina! dell’Assemblea
della Magnolia del 5 marzo 2022. Ma anche perché le cause di questa guerra sono
troppo complicate per cedere alla retorica facile della “piccola coraggiosa
democrazia che combatte contro il grande despota” e al gioco di chi vorrebbe
ribaltare il giudizio che inchiodò i nazisti nei banchi del tribunale di Norimberga
e riscrivere la storia del Novecento. Il male che ritorna nella sua
banalità. Grande abbaglio delle
parlamentari che hanno votato per l’invio di armi al governo dell’Ucraina.
Un’altra idea di sicurezza
E avevamo
aggiunto che, proprio per questa convinzione che avevamo, ci allarmava e ci
preoccupava profondamente la “professione di atlantismo” rilanciata dal governo
italiano proprio nel momento in cui la pandemia di COVID 19 aveva messo in luce
la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella “sicurezza
militarizzata” a scapito della sicurezza umana, della salute del pianeta, della
capacità di prevenzione dei conflitti.
“Fuori la guerra dalla storia” – fortunato epigramma che Bertha von
Suttner, premio Nobel per la Pace 2005, formulò alla fine dell’800 in “Die Waffennieder” (Abbasso le
armi), 1889 e che divenne parola
di donna nel corso del ‘900 – ritorna
se possibile con più convinzione nel terzo millennio, non solo come imperativo
morale retto da nobile tensione utopistica. Nell’era nucleare, quando il mondo
non è mai stato così vicino all'olocausto nucleare, è stato detto
autorevolmente, esso finisce col coincidere con l’istinto di conservazione
dell’essere umano.
Non schierarsi
con la guerra – che fino ad ora, ma non sappiamo ancora per quanto, si sta
conducendo con gli arnesi ideologici e tecnologici dell’ultima guerra mondiale
– dovrebbe perlomeno risvegliare questo istinto. Ma il punto è se siamo in
grado di tradurre l’opzione morale e l’istinto di conservazione – utilizzando
gli strumenti associativi, culturali, politici che ci siamo date – in termini
di costruzione giuridica e legislativa. Se si riuscirà a far diventare la pace
un diritto universale.
Infatti, «
la questione centrale non è la pace in Europa, quanto piuttosto la pace sulla
Terra e la pace con la Terra», è stato detto in un recente convegno internazionale
in cui si è proposto di aprire la strada ad un Nuovo Accordo di Helsinki e di
prendere in seria considerazione l’alternativa «giustizia economica o suicidio
dell'umanità» (World BEYOND War, “Secure Finland without NATO
and nuclear weapons”, Helsinki, 7 maggio 2022).
Come ha
scritto Samanta
Picciaiola, dell’Associazione Orlando di Bologna, in occasione del
seminario Cura e Incuria di cui dicevo prima, «una
delle prime parole che la pandemia ci ha consegnato è “cura”. Il paradigma
della cura emerge già al termine del periodo del primo “confinamento” ed è
carico di istanze ed echi diversi. Cura
non solo come rimedio alla malattia ma da subito cura come nuova postura
dell’abitare il mondo (la cura e il mondo di Elena Pulcini); cura come paradigma relazionale
(prendersi cura di sé e delle altre, le nuove forme di sorellanza) e infine la
cura come modello sociale da realizzare attraverso nuove pratiche di
partecipazione diretta alla gestione delle risorse e dei beni comuni».
Quando si è
diffusa la prima ondata della pandemia di Covid – sembra tanto tempo fa –
desiderio comune era “tornare alla normalità”, ma in molti hanno avvertito:
niente sarà più come prima. E noi femministe abbiamo aggiunto: “Il ritorno alla
normalità non ci basta, perché la normalità era il problema”.
Oggi
possiamo specificare meglio che del problema fa parte l’atlantismo, compresa la
sua specificazione euro-atlantica, un vecchio arnese ideologico-militare che
gli Stati Uniti e l’UE pretendono di rilanciare. Del problema fa parte la
pretesa di supremazia dell’Occidente transatlantico che non vuole accettare la
realtà di un mondo multipolare, decolonizzato, in cui prevalgano relazioni
paritarie e decisioni negoziate e condivise.
Del
“paradigma della cura” – la soluzione che vogliamo – fa parte, viceversa,
spezzare il triangolo micidiale patriarcato-militarismo-capitalismo; affermare
un concetto di sicurezza umana non militarizzata, non fondata su alleanze
militari contrapposte, bensì sui valori della cooperazione e delle scelte
condivise per la salute dei viventi e del pianeta.
Purtroppo,
come dice Samanta, «a fronte del rinnovato protagonismo delle donne abbiamo
riscontrato una risposta debole e tardiva da parte delle politiche
istituzionali a livello internazionale: una sorta di inerzia a recepire questo
necessario salto di paradigma. I movimenti delle donne su scala mondiale
chiedono una riconversione produttiva che punti a economie della cura che
rigettano l’approccio neocolonialista, che cassano le spese per gli armamenti e
ripropongono come strumenti della democrazia le diplomazie, l’ascolto, la
partecipazione e la condivisione delle responsabilità».
Ciò di cui abbiamo bisogno è «una diplomazia efficace per
ottenere una riduzione immediata dell'escalation, fermare la guerra e iniziare
la ricerca di una soluzione politica duratura, nel rispetto della sicurezza e
dei diritti di tutti i popoli. Ciò di cui abbiamo bisogno è intensificare i
nostri sforzi affinché un nuovo concetto di mutua sicurezza non militarizzata
si affermi nelle relazioni internazionali e la parola guerra scompaia
finalmente dal vocabolario delle relazioni umane» (POR LA PAZ, NO A LA
OTAN! Risoluzione adottata al XVII
congresso internazionale WIDF, Caracas, aprile 2022).
Scriveva Nora Garcia
della Asamblea Internacional de los
Pueblos, parte convocante di una Cumbre de la Paz
tenutasi a Madrid nel giugno scorso , in coincidenza con il Summit della guerra riunito nella sua città dalla NATO, che «il femminismo è un grido globale che ci offre una
mappa in cui "noi" significa tutte e a "tutte" offre delle
risposte. In questo "tutte", non dimentichiamo nessuna. Le donne
sanno che ora, proprio ora, quando tutto è frammentato, diviso, polarizzato,
semplificato e dimenticato, dobbiamo fermarci, riflettere e dare una risposta
collettiva: un'agenda femminista per la pace. Dobbiamo posizionare il nostro
sguardo sul mondo, che è quello che allarga l'analisi, tesse alleanze e genera
processi di cooperazione, solidarietà e sostegno reciproco, guardando sempre a
chi soffre, chi è sfruttata, oppressa, resa invisibile. Questo è anche il
motivo per cui, mentre “loro” organizzano un Vertice per la guerra nella mia città, Madrid, “noi” convochiamo un
Vertice
per la Pace. Tutta questa storia
di lotta femminista per una pace duratura ci ha insegnato che la pace è fatta
di coraggio e di lotta. Avanti sorelle, lottiamo per una pace che non sia solo
un cessate il fuoco, ma una transizione da questo mondo violento alla solidarietà,
al rispetto reciproco, all’uguaglianza, i diritti, la cooperazione e la sostenibilità
del pianeta! Le armi non ci salveranno. Lo faremo noi». (Feminismo es un grito global
contra la guerra, maggio 2022).
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