09/08/22

La guerra, la cura e l’incuria


 Parliamo di questa guerra, anche se ve ne sono in corso altre decine in altrettanti angoli del mondo, di cui non ci accorgiamo perché avvengono a sufficiente distanza di sicurezza dai nostri confini geografici e dalla nostra mappa mentale.



di ADA DONNO

Parlare della guerra è parlare di questa guerra, anche se ve ne sono in corso altre decine in altrettanti angoli del mondo, di cui non ci accorgiamo perché avvengono a sufficiente distanza di sicurezza dai nostri confini geografici e dalla nostra mappa mentale. Ma forse anche per via di un difetto della vista legato a una visione pervicacemente eurocentrica della storia. 

Una forma di miopia che c’impedisce di vedere come il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest del pianeta siano interdipendenti; come l’economia dello spreco su cui si regge il Nord del pianeta sia resa possibile dal sistematico saccheggio delle risorse del Sud; come esista un nesso causale tra la predazione e lo spreco di risorse, le politiche di riarmo e l’aggravarsi della fame che miete vittime ogni giorno alle altre latitudini. Ma quando anche lo vedessimo, temo che l’ignavia forse inibirebbe l’impulso a rinunciare all’agio che ci procurano le nostre piccole o grandi, ignobili, quote di complicità.

«Una guerra in atto è già una sconfitta», ha scritto la Women’s International Democratic Federation nel suo appello a sostegno della mobilitazione del 5 marzo per la pace in Ucraina, pochi giorni dopo l’avvio della “operazione speciale” della Russia, che ai russi è vietato chiamare guerra.

«Lo è per le donne che creano la vita e se ne prendono cura, per ogni persona impegnata nella costruzione della pace, per i popoli che ne subiscono le peggiori conseguenze, per le istituzioni statali e internazionali che non hanno saputo o voluto né prevenirla né fermarla, facendo agire le costituzioni, le Carte, le convenzioni e i trattati che richiamano a relazioni pacifiche fra gli Stati, alla soluzione negoziata delle controversie, alla cooperazione. Lo è per i suoi terribili effetti immediati e quelli che restano nel tempo, per le morti, le distruzioni, le ferite inferte ai corpi e alle cose, i bambini traumatizzati, le separazioni dolorose e gli esodi forzati. Per i diritti negati». (Fermare la guerra in Ucraina, fermare tutte le guerre! Appello della WIDF, 2 marzo 2022).  

Ma lo è anche, aggiungo, per i risvolti più miserabili che l’eccitazione bellica riverbera nelle comunità che ne sono in misura diversa investite o coinvolte – direttamente o indirettamente, più o meno vicine o lontane dai teatri di guerra – e portano con sé un deterioramento delle relazioni umane che è altrettanto difficile e lungo da risanare.

Uno di questi risvolti è il clima di sospetto e intimidazione che ricade su chi fra noi non si mostri abbastanza solerte nel rispondere alla chiamata alla cobelligeranza. Dai media irreggimentati ci viene ripetuto incessantemente che questo accade in Russia, ma non si racconta con altrettanta diligenza il sospetto di connivenza col nemico, perfino lo zelo delatorio che colpiscono chi non si allinea con la guerra, anche da questa parte della frontiera (Il coraggio di volere la pace, 6 marzo 2022).

Per tutto questo, in tante, abbiamo rifiutato di schierarci con l’una o con l’altra delle parti che si fronteggiano in questa guerra, abbiamo detto che essa va fermata subito, prima che si espanda e risucchi nel suo vortice il resto dell’Europa e altre regioni del mondo. Ciò non vuol dire però che siamo rimaste in silenzio, né che ci siamo astenute dall’esprimere un giudizio e una condanna di chi questa guerra l’ha premeditata e voluta, cioè gli Stati Uniti e la NATO, o se ne è reso complice, o non ha fatto nulla per fermarla.  

Non ci schieriamo perché «non esistono guerre umanitarie, non esistono guerre giuste, non esistono guerre per portare la pace», come abbiamo detto nell’appello Fermiamo la guerra in Ucraina! dell’Assemblea della Magnolia del 5 marzo 2022. Ma anche perché le cause di questa guerra sono troppo complicate per cedere alla retorica facile della “piccola coraggiosa democrazia che combatte contro il grande despota” e al gioco di chi vorrebbe ribaltare il giudizio che inchiodò i nazisti nei banchi del tribunale di Norimberga e riscrivere la storia del Novecento. Il male che ritorna nella sua banalità.  Grande abbaglio delle parlamentari che hanno votato per l’invio di armi al governo dell’Ucraina.

Nelle reti femministe tessute soprattutto online nei due anni di pandemia ci siamo interrogate su come continuare ad elaborare quel “paradigma della cura” che ci pare un’ineludibile opzione di cambiamento, poiché «le armi non sono servite contro la pandemia, ed è invece la necessità della rivoluzione della cura la lezione più importante che il Covid ha insegnato al mondo, per un’idea di interdipendenza e convivenza, per ribaltare il paradigma del profitto, che distrugge il pianeta, alimenta le disuguaglianze e fomenta le guerre». E abbiamo anche molto ragionato su «l’insostenibile sistema patriarcale coniugato con le politiche liberiste che da anni insanguina il mondo e distrugge umanità e natura, con guerre e occupazioni: le chiamano ipocritamente umanitarie o esportatrici di libertà per le donne o veicoli di valori democratici e sicurezza... Afghanistan, Iraq, Siria, Sudan, Libia, Yemen, Palestina...», (Siamo realiste, rifiutiamo la guerra! Appello del Gruppo Femminista della Società della Cura, 5 marzo 2022). 

Un’altra idea di sicurezza

Già nel seminario internazionale femminista Cura e incuria, del 23-24 ottobre 2021, avevamo cercato di fare il punto su un’altra idea di sicurezza, demilitarizzata, sostenendo che «sicurezza è accesso all'assistenza sanitaria, all'approvvigionamento alimentare, all'istruzione, a redditi dignitosi; sicurezza è prendersi cura degli esseri umani e di tutti gli esseri viventi, salvaguardare il futuro del pianeta: la proliferazione delle armi non può fornire tutto ciò all’intera umanità».

E avevamo aggiunto che, proprio per questa convinzione che avevamo, ci allarmava e ci preoccupava profondamente la “professione di atlantismo” rilanciata dal governo italiano proprio nel momento in cui la pandemia di COVID 19 aveva messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella “sicurezza militarizzata” a scapito della sicurezza umana, della salute del pianeta, della capacità di prevenzione dei conflitti. 

Fuori la guerra dalla storia – fortunato epigramma che Bertha von Suttner, premio Nobel per la Pace 2005, formulò alla fine dell’800 in “Die Waffennieder” (Abbasso le armi), 1889 e che divenne parola di donna nel corso del ‘900  – ritorna se possibile con più convinzione nel terzo millennio, non solo come imperativo morale retto da nobile tensione utopistica. Nell’era nucleare, quando il mondo non è mai stato così vicino all'olocausto nucleare, è stato detto autorevolmente, esso finisce col coincidere con l’istinto di conservazione dell’essere umano.

Non schierarsi con la guerra – che fino ad ora, ma non sappiamo ancora per quanto, si sta conducendo con gli arnesi ideologici e tecnologici dell’ultima guerra mondiale – dovrebbe perlomeno risvegliare questo istinto. Ma il punto è se siamo in grado di tradurre l’opzione morale e l’istinto di conservazione – utilizzando gli strumenti associativi, culturali, politici che ci siamo date – in termini di costruzione giuridica e legislativa. Se si riuscirà a far diventare la pace un diritto universale.

Infatti, « la questione centrale non è la pace in Europa, quanto piuttosto la pace sulla Terra e la pace con la Terra», è stato detto in un recente convegno internazionale in cui si è proposto di aprire la strada ad un Nuovo Accordo di Helsinki e di prendere in seria considerazione l’alternativa «giustizia economica o suicidio dell'umanità» (World BEYOND War, “Secure Finland without NATO and nuclear weapons”, Helsinki, 7 maggio 2022).

Come ha scritto Samanta Picciaiola, dell’Associazione Orlando di Bologna, in occasione del seminario Cura e Incuria di cui dicevo prima, «una delle prime parole che la pandemia ci ha consegnato è “cura”. Il paradigma della cura emerge già al termine del periodo del primo “confinamento” ed è carico di istanze ed echi diversi. Cura non solo come rimedio alla malattia ma da subito cura come nuova postura dell’abitare il mondo (la cura e il mondo di Elena Pulcini); cura come paradigma relazionale (prendersi cura di sé e delle altre, le nuove forme di sorellanza) e infine la cura come modello sociale da realizzare attraverso nuove pratiche di partecipazione diretta alla gestione delle risorse e dei beni comuni».

Quando si è diffusa la prima ondata della pandemia di Covid – sembra tanto tempo fa – desiderio comune era “tornare alla normalità”, ma in molti hanno avvertito: niente sarà più come prima. E noi femministe abbiamo aggiunto: “Il ritorno alla normalità non ci basta, perché la normalità era il problema”.

Oggi possiamo specificare meglio che del problema fa parte l’atlantismo, compresa la sua specificazione euro-atlantica, un vecchio arnese ideologico-militare che gli Stati Uniti e l’UE pretendono di rilanciare. Del problema fa parte la pretesa di supremazia dell’Occidente transatlantico che non vuole accettare la realtà di un mondo multipolare, decolonizzato, in cui prevalgano relazioni paritarie e decisioni negoziate e condivise.

Del “paradigma della cura” – la soluzione che vogliamo – fa parte, viceversa, spezzare il triangolo micidiale patriarcato-militarismo-capitalismo; affermare un concetto di sicurezza umana non militarizzata, non fondata su alleanze militari contrapposte, bensì sui valori della cooperazione e delle scelte condivise per la salute dei viventi e del pianeta.

Purtroppo, come dice Samanta, «a fronte del rinnovato protagonismo delle donne abbiamo riscontrato una risposta debole e tardiva da parte delle politiche istituzionali a livello internazionale: una sorta di inerzia a recepire questo necessario salto di paradigma. I movimenti delle donne su scala mondiale chiedono una riconversione produttiva che punti a economie della cura che rigettano l’approccio neocolonialista, che cassano le spese per gli armamenti e ripropongono come strumenti della democrazia le diplomazie, l’ascolto, la partecipazione e la condivisione delle responsabilità».

Ciò di cui abbiamo bisogno è «una diplomazia efficace per ottenere una riduzione immediata dell'escalation, fermare la guerra e iniziare la ricerca di una soluzione politica duratura, nel rispetto della sicurezza e dei diritti di tutti i popoli. Ciò di cui abbiamo bisogno è intensificare i nostri sforzi affinché un nuovo concetto di mutua sicurezza non militarizzata si affermi nelle relazioni internazionali e la parola guerra scompaia finalmente dal vocabolario delle relazioni umane» (POR LA PAZ, NO A LA OTAN! Risoluzione adottata al XVII congresso internazionale WIDF, Caracas, aprile 2022).

Scriveva Nora Garcia della Asamblea Internacional de los Pueblos, parte convocante di una Cumbre de la Paz tenutasi a Madrid nel giugno scorso , in coincidenza con il Summit della guerra riunito nella sua città dalla NATO, che «il femminismo è un grido globale che ci offre una mappa in cui "noi" significa tutte e a "tutte" offre delle risposte. In questo "tutte", non dimentichiamo nessuna. Le donne sanno che ora, proprio ora, quando tutto è frammentato, diviso, polarizzato, semplificato e dimenticato, dobbiamo fermarci, riflettere e dare una risposta collettiva: un'agenda femminista per la pace. Dobbiamo posizionare il nostro sguardo sul mondo, che è quello che allarga l'analisi, tesse alleanze e genera processi di cooperazione, solidarietà e sostegno reciproco, guardando sempre a chi soffre, chi è sfruttata, oppressa, resa invisibile. Questo è anche il motivo per cui, mentre “loro” organizzano un Vertice per la guerra nella mia città, Madrid, “noi” convochiamo un Vertice per la Pace.  Tutta questa storia di lotta femminista per una pace duratura ci ha insegnato che la pace è fatta di coraggio e di lotta. Avanti sorelle, lottiamo per una pace che non sia solo un cessate il fuoco, ma una transizione da questo mondo violento alla solidarietà, al rispetto reciproco, all’uguaglianza, i diritti, la cooperazione e la sostenibilità del pianeta! Le armi non ci salveranno. Lo faremo noi». (Feminismo es un grito global contra la guerra, maggio 2022).




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