1° Maggio: lavoro e libertà
Precarietà del lavoro e precarietà della vita: è il binomio che riassume il senso dei processi economici che tendenzialmente stanno modificando i modelli lavorativi e lo stesso concetto di lavoro, oggi in Europa, specialmente riguardo alle giovani generazioni e alle donne.
di Ada Donno
Lavori frammentati, più
precari e peggio retribuiti: è questa l’immagine del mondo del lavoro che i
rapporti dell’ILO degli ultimi anni forniscono su scala mondiale, dai quali s’intravede
il tendenziale abbandono del modello di lavoro salariato, che è stato prevalente
fino alla fine del ‘900, con lavoratori e lavoratrici dipendenti che
percepiscono un compenso garantito in cambio della prestazione d’opera a tempo
pieno e per tutto l’arco della vita lavorativa.
Il lavoro dipendente, dicono
i dati dell’ILO, mediamente ha rappresentato finora il 50% del totale della
manodopera occupata. Con le seguenti differenziazioni: al di sopra della media
sono Europa e Paesi capitalistici più sviluppati con circa l’80%; America Latina e Nord Africa con il 60%. Al di sotto
della media mondiale, il Sud est asiatico (35%), l’Asia meridionale e l’Africa
sub-sahariana (meno del 25%). Ma nella regione europea si va evidenziando una
tendenza negativa per il lavoro dipendente: l’incidenza di questo va da qualche
decennio diminuendo a favore di nuove forme di lavoro di tipo autonomo, spesso nelle
condizioni di una precaria auto-imprenditorialità.
Guardando poi dentro i
dati relativi al lavoro salariato, si vede che meno del 40% di lavoratori e
lavoratrici hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato; il restante 60%
ha contratti a tempo determinato (fra i quali crescono quelli a tempo breve, o brevissimo,
della durata di pochi mesi o addirittura di poche settimane), o contratti a part-time. Nel part-time, ci sono
in larga misura le donne. A scanso di equivoci, i dati confermano che circa il
30% del lavoro part-time nella regione europea rappresenta una scelta forzata,
in mancanza di opportunità lavorative a tempo pieno: lavoratrici e lavoratori,
cioè, tendono ad accettare qualunque lavoro e qualunque condizione di lavoro, pur
di non restare disoccupati.
La ristrutturazione del
modello occupazionale nell’era della globalizzazione capitalistica, insomma, viaggia
verso una crescente precarietà in termini contrattuali e di orario di lavoro, dato
che convive con quello di una disoccupazione crescente. Mentre i contratti
collettivi delle varie categorie subiscono il pesante attacco delle
organizzazioni imprenditoriali, che mirano a rendere il rapporto tra lavoratore
e imprenditore sempre più atomizzato e individualizzato, la dottrina
neoliberista dominante in economia impone una disciplina del lavoro deprivata
delle garanzie sociali compensative
del modello fordista - conquistate in gran parte con le lotte operaie degli
anni ’70 - sostituendola con la “precarietà
disperata” del modello post-fordista del terzo millennio.
Attraverso modifiche
legislative successive dei contratti e delle contribuzioni, i governi dei paesi
europei hanno preteso di imporre a lavoratrici e lavoratori una "riforma
del ciclo di vita" che – aggiungendosi al massacro del welfare state - subordina in maniera totalizzante le vite
delle persone alle esigenze del massimo profitto capitalistico e del mercato
globalizzato.
Si possono riassumere in tre punti essenziali gli elementi che hanno caratterizzato negli ultimi decenni la presenza delle donne nel mercato del lavoro, in maniera generalizzata nella regione europea, sia pure in misura diversa e con modalità differenti nei diversi paesi che ne fanno parte:
- È
sicuramente cambiato il posto che il lavoro ha nel progetto di vita delle
donne: le donne considerano il “lavoro produttivo” o “lavoro per il
mercato” (usiamo questa definizione, anche se essa è discutibile, per
distinguerlo dall’altro di cui le donne si fanno carico da sempre quotidianamente,
cioè il “lavoro riproduttivo” o lavoro di cura) come una componente irrinunciabile
e imprescindibile, non più aggiuntiva, della loro vita. In Europa come nel
resto del mondo, c’è stata una enorme crescita di donne lavoratrici,
professioniste, imprenditrici, operaie. Molte occupazioni, che in passato
erano prevalentemente maschili, si sono femminilizzate. Ciò dice molto di
questa volontà diffusa delle donne di incorporare definitivamente il
lavoro nel loro progetto di vita.
- La
crescita di presenza femminile sul mercato del lavoro, che avviene nel
contesto dei processi di globalizzazione capitalistica, coincide con la
diffusione del lavoro cosiddetto flessibile o precario: infatti, per le
fasce giovanili, e specialmente femminili, si aprono spazi lavorativi per
lo più a tempo parziale, con bassa qualifica e bassa remunerazione (mentre
per il modello di lavoro continuativo, stabile, con previsione di
carriera, restano favoriti gli uomini, per ragioni economiche, sociali,
culturali facilmente intuibili). Per una buona parte, le donne continuano
ad essere più disponibili ad accettare un lavoro flessibile perché possono
così conciliare le esigenze del lavoro per il mercato con il lavoro di
cura non pagato. Per la restante parte, la precarietà è il prezzo che
tante donne accettano di pagare per entrare nel mercato del lavoro e avere
la possibilità di esprimersi anche nella vita sociale e professionale.
- Sembra
essersi determinata una “oggettiva” convergenza tra le nuove esigenze di
flessibilità del mercato del lavoro e la disponibilità femminile al lavoro
flessibile, anche se i dati confermano che per le donne flessibilità
significa lavoro meno qualificato, meno garantito, per lo più occasionale
o a domicilio, sottopagato se non addirittura in nero, precario. Secondo calcoli
econometrici complicati, ma che evidentemente è possibile fare, il lavoro
riproduttivo nelle nostre società incide per oltre il 40% sulla produzione
di reddito globale. Poiché la quota svolta dalle donne di questo lavoro
non pagato è il doppio di quella degli uomini, all’aumento di presenza
femminile sul mercato del lavoro non corrisponde una re-distribuzione del
carico di lavoro di cura non pagato.
Nonostante tutto, il
lavoro continua ad essere percepito dalle donne come la chiave di volta della
propria emancipazione dalla condizione di subordinazione e marginalità nella
società patriarcale. Ma, perché tale emancipazione avvenga effettivamente,
perché il lavoro acquisti una funzione effettivamente liberatoria nella
realizzazione del progetto di vita delle donne, occorre cambiare la cultura del
lavoro, occorre liberare il lavoro dalle gabbie dello sfruttamento economico,
liberare lo sviluppo umano dalla subordinazione alle leggi del profitto.
Già la Conferenza di Pechino del '95 ribadì
che «il lavoro delle donne concorre in
misura maggiore di quello degli uomini alla sicurezza della sopravvivenza umana
e della vita sociale: eppure è retribuito molto meno, o addirittura neppure
valutato». E che «l'inadeguato
riconoscimento di quel complesso di attività produttive, riproduttive e di cura
in cui si articola il lavoro delle donne nel privato e nel sociale, costituisce
un aspetto fondamentale dello "svantaggio" femminile».
Con la globalizzazione
dell'economia capitalistica, tale svantaggio non è diminuito. Anzi esso tende
ad aggravarsi. Ricordiamo che in occasione della successiva conferenza di “controllo” Pechino 2000,
la questione dell’impatto della globalizzazione sulla vita delle donne fu fra le
più controverse. Mentre i rappresentanti governativi dei paesi ricchi del nord
del mondo insistevano sulle “maggiori opportunità” di emancipazione che il
processo di globalizzazione capitalistica avrebbe offerto alle donne, quelli delle
Ong, soprattutto le donne dei paesi in via di sviluppo, insistevano a
descrivere come la globalizzazione, con la liberalizzazione dei mercati, le
privatizzazioni e gli aggiustamenti strutturali “suggeriti” dalla BM, il FMI e
il WTO, avesse effetti contrari, generando i fenomeni di impoverimento generale e femminilizzazione della povertà.
È un dato di fatto che,
nei vent’anni seguenti, quanto più le economie si sono integrate nel mercato
capitalistico globale, tanto più nei singoli paesi si sono verificate riduzioni
dei programmi sociali, fino al loro smantellamento. Il carico economico è tornato
a pesare sulle famiglie, cioè soprattutto sulle donne.
Il modello della "flessibilità lavorativa" e delle privatizzazioni ha accresciuto la dilatazione della forbice sociale: a ristrette fasce di popolazione garantite corrispondono larghe fasce non garantite, prevalentemente femminili, giovanili, migranti. Le ripercussioni delle politiche economiche decise a livello europeo non sono state omogenee sugli uomini e sulle donne. Uno sguardo d’insieme al mercato del lavoro nella regione europea ci mostra un dato comune: marginalità e precarietà sono in larga parte attributi del lavoro femminile, in vari settori persistono forme di divisione sessuale del lavoro e, soprattutto, oggi più di ieri sono le donne proletarie, particolarmente le migranti, a raffigurare la spietatezza delle leggi del mercato.
Se in generale la
logica del "libero mercato" non si accorda con il diritto al lavoro,
ancor meno essa si accorda con i progetti di libertà delle donne, in questa
fase di globalizzazione dei mercati e di neo liberismo imperante. Gran parte
degli sforzi di analisi ed elaborazione politica più recente della rete
internazionale di Non Una Di Meno sono indirizzati a dimostrare:
- che
globalizzazione e liberalizzazione capitalistica non significano migliore
qualità della vita per la grande maggioranza delle donne;
- che
il “libero mercato” non è quell’entità suprema alle cui esigenze bisogna
piegare le nostre vite.
La riflessione avviata dalla
rete si può riassumere in pochi termini, forse un po’ semplici, ma che rendono
bene l’idea: se il mercato è quel luogo di scambio di merci e prestazioni, nel
quale donne e uomini operano in reciprocità per accrescere il benessere comune,
esso non può prescindere dai bisogni di tutte le persone che compongono la
collettività.
Ma se, al contrario, il
mercato è un luogo di deprivazione per molti e di accaparramento e
sopraffazione per pochi, come di fatto è il mercato capitalistico globalizzato,
allora esso non è un luogo ben governato e va cambiato.
Nella società capitalistico-patriarcale,
compresa quella più moderna e ben inserita nei meccanismi del sistema capitalistico-imperialista,
com’è quella della regione europea, i livelli decisionali dell’economia sono
generalmente luoghi interdetti alle donne. Beninteso, non a tutte. Ci sono anche
donne cooptate al governo dell’economia patriarcale. Alcune di esse sono perfino
ai vertici (Christine Lagarde, giusto per fare un nome) e, dal punto di vista
del sistema capitalistico-patriarcale, svolgono egregiamente il loro compito.
Ma dal punto di vista
del progetto di liberazione sociale delle donne?
Fin dall’antichità le
donne hanno avuto a che fare con quella che gli antichi greci chiamavano l’oiconomìa, cioè l’amministrazione della
casa. Possono esse oggi raccogliere la sfida e provare a rispondere alle
domande: che cosa, come e per chi lavorare e produrre? Chi decide? Si può
progettare un governo pubblico del mercato, capace di garantire il diritto al
lavoro e la sicurezza sociale? Si possono formulare altre regole dell’economia
che corrispondano ai bisogni effettivi della collettività? Si può mettere in
campo la voglia delle donne lavoratrici di contare, di decidere, di definire le
priorità, di migliorare le relazioni, di valorizzare le proprie capacità e aspirazioni
contribuendo – nello stesso tempo - al benessere collettivo?
- contro
le politiche neoliberiste, contro il mito del mercato che si autoregola,
contro gli squilibri e le ingiustizie del sistema capitalistico;
- per
una diversa, più giusta ed egualitaria organizzazione dell’economia e
della società;
- contro le discriminazioni, le differenze
retributive a parità di qualifica e di mansioni;
- contro la
difficoltà di accedere ai livelli decisionali e apicali (il “tetto di
cristallo”);
- contro i fattori
di rischio per la salute e ambientali nei processi lavorativi;
- contro le molestie
sessuali sui luoghi di lavoro.
- per l’estensione
della tutela giuridica ed economica della maternità a tutte le
lavoratrici, dipendenti, precarie, autonome e migranti, poiché per esse è
irrinunciabile la libertà di scegliere se e quando essere madri;
- per una ridefinizione collettiva e complessiva del senso del lavoro umano.
English:
The women’s work in the time of neoliberalism
"Precariousness of work and
precariousness of life" is the binomial that summarizes the meaning of the
economic processes that tend to change working models and the concept of work
itself, today in Europe , especially with regard to young people and women.
Fragmented, more precarious and poorly paid jobs: this is the image of the
world of work that ILO reports have provided in recent years on a global scale.
In them the tendency to abandon the model of wage labor is glimpsed, which was
prevalent in the capitalist countries until the end of '900 - employees and workers who receive guaranteed
remuneration in exchange for full-time work and for the entire working life.
ILO data say that the average employee has so far represented 50% of the
total workforce. With the following differentiations : above the average there
are European countries and other more developed capitalist countries with 80%.;
Latin America and North Africa with 60% . Below the world average there are the countries of South East Asia
(35%), South Asia and sub-Saharan Africa ( less than 25% ).
But in the European region a negative trend for dependent employment is
being highlighted : its incidence has been decreasing for some decades in favor
of new forms of autonomous work, often in the conditions of a precarious
self-entrepreneurship.
If you look inside the data relating to wage labor, you see that less than
40% of workers have a full-time permanent contract; the remaining 60% have fixed-term
contracts (among these, short-term, or very short contracts, lasting a few
months or even a few weeks, are increasing), or part-time contracts. Women are
widely represented in part-time contracts. For the avoidance of doubt, the data
confirm that about 30% of part-time work in the European region is a forced
choice, in the absence of full-time
employment opportunities. This means that workers – men and women - tend to
accept any job and any condition, so as not to be unemployed.
In short, the restructuring of the employment model in the era of
capitalist globalization is traveling towards a growing precariousness in terms
of contracts and working hours. This data coexists with that of growing
unemployment.
While the collective contracts of the various categories of workers suffer
the heavy attack of business organizations, which aim to make the relationship
between worker and entrepreneur increasingly atomized and individualized, the
dominant neoliberal doctrine in economics imposes a labor discipline deprived
of compensatory social guarantees that in the Fordist model there were -
largely conquered with the workers 'struggles of the' 70s – and is replacing it
with the "desperate precariousness" of the post-Fordist model of the
third millennium.
Through subsequent legislative changes to contracts and contributions, the
governments of European countries claim to impose on working men and women a
"life cycle reform" which - adding to the massacre of the welfare
state - makes the people’s lives totally dependent on the laws of maximum
capitalist profit and globalized market.
Women's work, women at work
We can summarize in three essential points the elements that have
characterized the presence of women in the labor market in the last decades, in
a generalized way in the European region, although to different degrees and
with different modalities in each country.
The place that work has in the life
project of women has certainly changed: women consider the « productive
work » or « work for the market » as an indispensable and
unavoidable, no longer additional, component of their life (we use this
definition, even if it is questionable, to distinguish it from the other work,
of which women take charge every day, that is the «reproductive work »
or « care work »). In Europe, as in the rest of the world, there has
been enormous growth in working women – professional women, entrepreneurs and
workers. Many jobs that were predominantly male in the past, they are
feminized. This says a lot about this widespread desire of women to definitely
incorporate work into their life project.
2. The
growth of the female presence on the labor market , which takes place in the
context of capitalist globalization processes , coincides with the spread of
the so-called flexible or precarious work. In fact, for young female social
groups, mostly part-time work spaces are offered, with low qualifications and
low remuneration. Instead, men are favored for the model of continuous, stable
work, with career forecasts (for economic, social, cultural reasons that can be
easily understood). On the one hand, women continue to be more willing to
accept flexible work because they can thus reconcile work for the market with
unpaid care work. On the other hand, precariousness is the price that too many
women accept to pay to enter the labor market and have the opportunity to
express themselves also in social and professional life.
3.
An
"objective" convergence seems to have been established between the
new demands of flexibility of the labor market and the female availability for
flexible work, even if the data confirm that, for too many women, flexibility
means less qualified work, less guaranteed, for the more casual or at home,
underpaid (or even black) and precarious.There seems to have been an
"objective" convergence between the new labor market flexibility
requirements and the female availability for flexible work, even if the data
confirm that for women flexibility means less qualified work, less guaranteed,
mostly occasional or domicile, underpaid if not even in black, precarious.
According to complicated econometric calculations,
but which it is obviously possible to do, reproductive work in our societies
affects the total income production by more than 40%. Since women perform twice
as much unpaid work than men, the increase in female presence on the labor
market does not correspond to a re-distribution of unpaid care workload.
Nevertheless, work continues to be perceived by women as the keystone of
their emancipation from the condition of subordination and marginality in the
patriarchal society. But, in order for
this emancipation to actually take place, in order for the work to acquire an
effectively liberating function in the realization of the life project of
women, the culture of work must be changed, work must be freed from the cages
of private economic exploitation, human development must be freed from
subordination to the laws of maximum profit.
A few decades ago, in 1995, the Beijing Conference affirmed that «women's
work contributes to a greater degree than men to the safety of human survival
and social life: yet it is paid much less, or even not even evaluated ». And
that « the under-recognition of the complex of productive, reproductive and
care activities in which women's work in the private and social sectors is
articulated, is a fundamental aspect of the socalled " feminine
disadvantage ".»
At the time of the globalization of the capitalist economy , this
disadvantage has not diminished. Indeed it tends to worsen. Let’s remember that
at the subsequent Beijing 2000 "control" conference, the question of
the impact of globalization on women's lives was rather controversial. While
the government representatives of the rich countries of the northern hemisphere
insisted on the "greater opportunities" for emancipation that the
process of capitalist globalization would offer to women, the NGOs of women in
developing countries insisted on describing how capitalist globalization, with the
liberalization of the markets, the privatizations and the structural
adjustments "suggested" by WB, IMF and WTO, had opposite effects and generated
the phenomena of general impoverishment and feminization of poverty.
The fact is that in the following twenty years, the more economies have
integrated into the global capitalist market, the more reductions in social
programs have been imposed in each country, up to their dismantling. The
economic burden of the care has returned to weigh on the families, that is
above all on women.
Why work remains the key to
women's liberation
The model of "work flexibility" and privatization has further
widened the social gap : narrow segments of the population guaranteed, very
wide segments are not guaranteed, mainly of women, youth, migrants. The effects
of economic policies decided at European level have not been homogeneous on men
and women. An overall look at the labor market in the European region shows us
a common fact: marginality and precariousness are largely attributes of women's
work, in various sectors forms of sexual division of labor persist and, above
all, today more than yesterday are the proletarian women, particularly migrant
women, to depict the ruthlessness of the laws of the capitalist market.
If, in general, the logic of the "free market" does not accord
with the right to work, even less does it accord with women's liberation projects,
specially in this phase of globalization of markets and reigning
neo-liberalism. Much of the most recent analysis and policy elaboration efforts
of the Ni Una Menos international
network are aimed at demonstrating that : first, globalization and
capitalist liberalization do not mean better quality of life for the large majority
of women; second, the "free market " is not the supreme entity to
whose needs our lives must be bent.
The reflection initiated by this women’s network can be summarized in a few
terms, perhaps a little simple, but which give a good idea: if the market is
that place of exchange of goods and services, in which women and men work in
reciprocity to increase the common well-being, it cannot disregard the needs of
all the people.
But if the free market is for most people a place of deprivation and for
very few people the occasion for hoarding and thieving, as the globalized
capitalist market really is, then it is not a well governed place and must be
changed.
In the capitalist-patriarchal society, including the most modern and
well-integrated in the mechanisms of the capitalist-imperialist system, like
that of the European region, the decision-making levels of the economy are
generally places forbidden to women. Of course, not to all women. There are
also women co-opted to the government of the patriarchal economy. Some of them
are even at the top (Christine Lagarde, just to name one) and, from the point
of view of the capitalist-patriarchal system, they perform their task very
well.
But from the point of view of the women's social liberation project?
Since ancient times women have had to deal with what the ancient Greeks
called the oiconomía, that is the administration of the house. Can women today
take up the challenge and try to answer the questions ?: what, how and for whom
to work and produce? Who decides? Can we imagine a public market government,
capable of guaranteeing the right to work and social security? Can we formulate
other rules of the economy that correspond to the actual needs of the community
of men and women? Can we assert the desire of working women to count, to
decide, to define priorities, to improve relationships, to enhance their
abilities and aspirations, contributing - at the same time - to the collective
well-being?
Women with women can, a slogan from a few decades ago said. On condition
that they return to organize themselves locally, nationally, regionally and
internationally, to coordinate their action with that of the organized labor
movement as a whole, to fight together:
· against
neoliberal policies and the false myth of the self-regulating market, against
the injust capitalist system; for a
different, more just and egalitarian organization of the economy and society ; against
discrimination, pay differences with the same qualifications and duties; against
the difficulty of accessing decision-making and top management levels (the
"crystal roof"); against
health and environmental risk factors in work processes; against
sexual harassment and violence in the workplace; for
the extension of legal and economic protection of motherhood to all working
women, employees, temporary workers, autonomous and migrant workers, since for
all women the freedom to choose if and when to be mothers is indispensable; for a
collective and overall redefinition of the sense of human work.
Trad. A.D.