30/04/19

Il lavoro delle donne al tempo del neoliberismo


1° Maggio: lavoro e libertà 



Precarietà del lavoro e precarietà della vita: è il binomio che riassume il senso dei processi economici che tendenzialmente stanno modificando i modelli lavorativi e lo stesso concetto di lavoro, oggi in Europa, specialmente riguardo alle giovani generazioni e alle donne.

di Ada Donno

Lavori frammentati, più precari e peggio retribuiti: è questa l’immagine del mondo del lavoro che i rapporti dell’ILO degli ultimi anni forniscono su scala mondiale, dai quali s’intravede il tendenziale abbandono del modello di lavoro salariato, che è stato prevalente fino alla fine del ‘900, con lavoratori e lavoratrici dipendenti che percepiscono un compenso garantito in cambio della prestazione d’opera a tempo pieno e per tutto l’arco della vita lavorativa.
Il lavoro dipendente, dicono i dati dell’ILO, mediamente ha rappresentato finora il 50% del totale della manodopera occupata. Con le seguenti differenziazioni: al di sopra della media sono Europa e Paesi capitalistici più sviluppati con circa l’80%; America Latina e Nord Africa con il 60%. Al di sotto della media mondiale, il Sud est asiatico (35%), l’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana (meno del 25%). Ma nella regione europea si va evidenziando una tendenza negativa per il lavoro dipendente: l’incidenza di questo va da qualche decennio diminuendo a favore di nuove forme di lavoro di tipo autonomo, spesso nelle condizioni di una precaria auto-imprenditorialità.

Guardando poi dentro i dati relativi al lavoro salariato, si vede che meno del 40% di lavoratori e lavoratrici hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato; il restante 60% ha contratti a tempo determinato (fra i quali crescono quelli a tempo breve, o brevissimo, della durata di pochi mesi o addirittura di poche settimane), o contratti a part-time. Nel part-time, ci sono in larga misura le donne. A scanso di equivoci, i dati confermano che circa il 30% del lavoro part-time nella regione europea rappresenta una scelta forzata, in mancanza di opportunità lavorative a tempo pieno: lavoratrici e lavoratori, cioè, tendono ad accettare qualunque lavoro e qualunque condizione di lavoro, pur di non restare disoccupati.

La ristrutturazione del modello occupazionale nell’era della globalizzazione capitalistica, insomma, viaggia verso una crescente precarietà in termini contrattuali e di orario di lavoro, dato che convive con quello di una disoccupazione crescente. Mentre i contratti collettivi delle varie categorie subiscono il pesante attacco delle organizzazioni imprenditoriali, che mirano a rendere il rapporto tra lavoratore e imprenditore sempre più atomizzato e individualizzato, la dottrina neoliberista dominante in economia impone una disciplina del lavoro deprivata delle garanzie sociali compensative del modello fordista - conquistate in gran parte con le lotte operaie degli anni ’70 -  sostituendola con la “precarietà disperata” del modello post-fordista del terzo millennio.
Attraverso modifiche legislative successive dei contratti e delle contribuzioni, i governi dei paesi europei hanno preteso di imporre a lavoratrici e lavoratori una "riforma del ciclo di vita" che – aggiungendosi al massacro del welfare state -  subordina in maniera totalizzante le vite delle persone alle esigenze del massimo profitto capitalistico e del mercato globalizzato.

Il lavoro delle donne, le donne al lavoro


Si possono riassumere in tre punti essenziali gli elementi che hanno caratterizzato negli ultimi decenni la presenza delle donne nel mercato del lavoro, in maniera generalizzata nella regione europea, sia pure in misura diversa e con modalità differenti nei diversi paesi che ne fanno parte:

  1. È sicuramente cambiato il posto che il lavoro ha nel progetto di vita delle donne: le donne considerano il “lavoro produttivo” o “lavoro per il mercato” (usiamo questa definizione, anche se essa è discutibile, per distinguerlo dall’altro di cui le donne si fanno carico da sempre quotidianamente, cioè il “lavoro riproduttivo” o lavoro di cura) come una componente irrinunciabile e imprescindibile, non più aggiuntiva, della loro vita. In Europa come nel resto del mondo, c’è stata una enorme crescita di donne lavoratrici, professioniste, imprenditrici, operaie. Molte occupazioni, che in passato erano prevalentemente maschili, si sono femminilizzate. Ciò dice molto di questa volontà diffusa delle donne di incorporare definitivamente il lavoro nel loro progetto di vita.
  2. La crescita di presenza femminile sul mercato del lavoro, che avviene nel contesto dei processi di globalizzazione capitalistica, coincide con la diffusione del lavoro cosiddetto flessibile o precario: infatti, per le fasce giovanili, e specialmente femminili, si aprono spazi lavorativi per lo più a tempo parziale, con bassa qualifica e bassa remunerazione (mentre per il modello di lavoro continuativo, stabile, con previsione di carriera, restano favoriti gli uomini, per ragioni economiche, sociali, culturali facilmente intuibili). Per una buona parte, le donne continuano ad essere più disponibili ad accettare un lavoro flessibile perché possono così conciliare le esigenze del lavoro per il mercato con il lavoro di cura non pagato. Per la restante parte, la precarietà è il prezzo che tante donne accettano di pagare per entrare nel mercato del lavoro e avere la possibilità di esprimersi anche nella vita sociale e professionale.
  3. Sembra essersi determinata una “oggettiva” convergenza tra le nuove esigenze di flessibilità del mercato del lavoro e la disponibilità femminile al lavoro flessibile, anche se i dati confermano che per le donne flessibilità significa lavoro meno qualificato, meno garantito, per lo più occasionale o a domicilio, sottopagato se non addirittura in nero, precario. Secondo calcoli econometrici complicati, ma che evidentemente è possibile fare, il lavoro riproduttivo nelle nostre società incide per oltre il 40% sulla produzione di reddito globale. Poiché la quota svolta dalle donne di questo lavoro non pagato è il doppio di quella degli uomini, all’aumento di presenza femminile sul mercato del lavoro non corrisponde una re-distribuzione del carico di lavoro di cura non pagato. 

Nonostante tutto, il lavoro continua ad essere percepito dalle donne come la chiave di volta della propria emancipazione dalla condizione di subordinazione e marginalità nella società patriarcale. Ma, perché tale emancipazione avvenga effettivamente, perché il lavoro acquisti una funzione effettivamente liberatoria nella realizzazione del progetto di vita delle donne, occorre cambiare la cultura del lavoro, occorre liberare il lavoro dalle gabbie dello sfruttamento economico, liberare lo sviluppo umano dalla subordinazione alle leggi del profitto.

Già la Conferenza di Pechino del '95 ribadì che «il lavoro delle donne concorre in misura maggiore di quello degli uomini alla sicurezza della sopravvivenza umana e della vita sociale: eppure è retribuito molto meno, o addirittura neppure valutato». E che «l'inadeguato riconoscimento di quel complesso di attività produttive, riproduttive e di cura in cui si articola il lavoro delle donne nel privato e nel sociale, costituisce un aspetto fondamentale dello "svantaggio" femminile».
Con la globalizzazione dell'economia capitalistica, tale svantaggio non è diminuito. Anzi esso tende ad aggravarsi. Ricordiamo che in occasione della successiva conferenza di “controllo” Pechino 2000, la questione dell’impatto della globalizzazione sulla vita delle donne fu fra le più controverse. Mentre i rappresentanti governativi dei paesi ricchi del nord del mondo insistevano sulle “maggiori opportunità” di emancipazione che il processo di globalizzazione capitalistica avrebbe offerto alle donne, quelli delle Ong, soprattutto le donne dei paesi in via di sviluppo, insistevano a descrivere come la globalizzazione, con la liberalizzazione dei mercati, le privatizzazioni e gli aggiustamenti strutturali “suggeriti” dalla BM, il FMI e il WTO, avesse effetti contrari, generando i fenomeni di impoverimento generale e femminilizzazione della povertà.
È un dato di fatto che, nei vent’anni seguenti, quanto più le economie si sono integrate nel mercato capitalistico globale, tanto più nei singoli paesi si sono verificate riduzioni dei programmi sociali, fino al loro smantellamento. Il carico economico è tornato a pesare sulle famiglie, cioè soprattutto sulle donne.

Il lavoro resta la chiave di volta della liberazione delle donne


Il modello della "flessibilità lavorativa" e delle privatizzazioni ha accresciuto la dilatazione della forbice sociale: a ristrette fasce di popolazione garantite corrispondono larghe fasce non garantite, prevalentemente femminili, giovanili, migranti. Le ripercussioni delle politiche economiche decise a livello europeo non sono state omogenee sugli uomini e sulle donne. Uno sguardo d’insieme al mercato del lavoro nella regione europea ci mostra un dato comune: marginalità e precarietà sono in larga parte attributi del lavoro femminile, in vari settori persistono forme di divisione sessuale del lavoro e, soprattutto, oggi più di ieri sono le donne proletarie, particolarmente le migranti, a raffigurare la spietatezza delle leggi del mercato.
Se in generale la logica del "libero mercato" non si accorda con il diritto al lavoro, ancor meno essa si accorda con i progetti di libertà delle donne, in questa fase di globalizzazione dei mercati e di neo liberismo imperante. Gran parte degli sforzi di analisi ed elaborazione politica più recente della rete internazionale di Non Una Di Meno sono indirizzati a dimostrare:
  • che globalizzazione e liberalizzazione capitalistica non significano migliore qualità della vita per la grande maggioranza delle donne;
  • che il “libero mercato” non è quell’entità suprema alle cui esigenze bisogna piegare le nostre vite.
La riflessione avviata dalla rete si può riassumere in pochi termini, forse un po’ semplici, ma che rendono bene l’idea: se il mercato è quel luogo di scambio di merci e prestazioni, nel quale donne e uomini operano in reciprocità per accrescere il benessere comune, esso non può prescindere dai bisogni di tutte le persone che compongono la collettività.
Ma se, al contrario, il mercato è un luogo di deprivazione per molti e di accaparramento e sopraffazione per pochi, come di fatto è il mercato capitalistico globalizzato, allora esso non è un luogo ben governato e va cambiato.
Nella società capitalistico-patriarcale, compresa quella più moderna e ben inserita nei meccanismi del sistema capitalistico-imperialista, com’è quella della regione europea, i livelli decisionali dell’economia sono generalmente luoghi interdetti alle donne. Beninteso, non a tutte. Ci sono anche donne cooptate al governo dell’economia patriarcale. Alcune di esse sono perfino ai vertici (Christine Lagarde, giusto per fare un nome) e, dal punto di vista del sistema capitalistico-patriarcale, svolgono egregiamente il loro compito.
Ma dal punto di vista del progetto di liberazione sociale delle donne? 
Fin dall’antichità le donne hanno avuto a che fare con quella che gli antichi greci chiamavano l’oiconomìa, cioè l’amministrazione della casa. Possono esse oggi raccogliere la sfida e provare a rispondere alle domande: che cosa, come e per chi lavorare e produrre? Chi decide? Si può progettare un governo pubblico del mercato, capace di garantire il diritto al lavoro e la sicurezza sociale? Si possono formulare altre regole dell’economia che corrispondano ai bisogni effettivi della collettività? Si può mettere in campo la voglia delle donne lavoratrici di contare, di decidere, di definire le priorità, di migliorare le relazioni, di valorizzare le proprie capacità e aspirazioni contribuendo – nello stesso tempo - al benessere collettivo?

Le donne con le donne possono, diceva uno slogan di qualche decennio fa. A condizione che tornino a organizzarsi sul piano locale, nazionale, regionale e internazionale, a coordinare la loro azione con quella del movimento operaio organizzato nel suo complesso, a lottare unite:

  • contro le politiche neoliberiste, contro il mito del mercato che si autoregola, contro gli squilibri e le ingiustizie del sistema capitalistico;
  • per una diversa, più giusta ed egualitaria organizzazione dell’economia e della società;
  •  contro le discriminazioni, le differenze retributive a parità di qualifica e di mansioni;
  • contro la difficoltà di accedere ai livelli decisionali e apicali (il “tetto di cristallo”);
  • contro i fattori di rischio per la salute e ambientali nei processi lavorativi;
  • contro le molestie sessuali sui luoghi di lavoro.
  • per l’estensione della tutela giuridica ed economica della maternità a tutte le lavoratrici, dipendenti, precarie, autonome e migranti, poiché per esse è irrinunciabile la libertà di scegliere se e quando essere madri;
  • per una ridefinizione collettiva e complessiva del senso del lavoro umano. 

English:
The women’s work in the time of neoliberalism
"Precariousness of work and precariousness of life" is the binomial that summarizes the meaning of the economic processes that tend to change working models and the concept of work itself, today in Europe , especially with regard to young people and women.
Fragmented, more precarious and poorly paid jobs: this is the image of the world of work that ILO reports have provided in recent years on a global scale. In them the tendency to abandon the model of wage labor is glimpsed, which was prevalent in the capitalist countries until the end of '900 -   employees and workers who receive guaranteed remuneration in exchange for full-time work and for the entire working life.

ILO data say that the average employee has so far represented 50% of the total workforce. With the following differentiations : above the average there are European countries and other more developed capitalist countries with 80%.; Latin America and North Africa with 60% . Below the world average  there are the countries of South East Asia (35%), South Asia and sub-Saharan Africa ( less than 25% ).
But in the European region a negative trend for dependent employment is being highlighted : its incidence has been decreasing for some decades in favor of new forms of autonomous work, often in the conditions of a precarious self-entrepreneurship.
If you look inside the data relating to wage labor, you see that less than 40% of workers have a full-time permanent contract; the remaining 60% have fixed-term contracts (among these, short-term, or very short contracts, lasting a few months or even a few weeks, are increasing), or part-time contracts. Women are widely represented in part-time contracts. For the avoidance of doubt, the data confirm that about 30% of part-time work in the European region is a forced choice,  in the absence of full-time employment opportunities. This means that workers – men and women - tend to accept any job and any condition, so as not to be unemployed.
In short, the restructuring of the employment model in the era of capitalist globalization is traveling towards a growing precariousness in terms of contracts and working hours. This data coexists with that of growing unemployment.
While the collective contracts of the various categories of workers suffer the heavy attack of business organizations, which aim to make the relationship between worker and entrepreneur increasingly atomized and individualized, the dominant neoliberal doctrine in economics imposes a labor discipline deprived of compensatory social guarantees that in the Fordist model there were - largely conquered with the workers 'struggles of the' 70s – and is replacing it with the "desperate precariousness" of the post-Fordist model of the third millennium.
Through subsequent legislative changes to contracts and contributions, the governments of European countries claim to impose on working men and women a "life cycle reform" which - adding to the massacre of the welfare state - makes the people’s lives totally dependent on the laws of maximum capitalist profit and globalized market.

Women's work, women at work

We can summarize in three essential points the elements that have characterized the presence of women in the labor market in the last decades, in a generalized way in the European region, although to different degrees and with different modalities in each country.
 The place that work has in the life project of women has certainly changed: women consider the « productive work » or « work for the market » as an indispensable and unavoidable, no longer additional, component of their life (we use this definition, even if it is questionable, to distinguish it from the other work, of which women take charge every day, that is the  «reproductive work » or « care work »). In Europe, as in the rest of the world, there has been enormous growth in working women – professional women, entrepreneurs and workers. Many jobs that were predominantly male in the past, they are feminized. This says a lot about this widespread desire of women to definitely incorporate work into their life project.
2.       The growth of the female presence on the labor market , which takes place in the context of capitalist globalization processes , coincides with the spread of the so-called flexible or precarious work. In fact, for young female social groups, mostly part-time work spaces are offered, with low qualifications and low remuneration. Instead, men are favored for the model of continuous, stable work, with career forecasts (for economic, social, cultural reasons that can be easily understood). On the one hand, women continue to be more willing to accept flexible work because they can thus reconcile work for the market with unpaid care work. On the other hand, precariousness is the price that too many women accept to pay to enter the labor market and have the opportunity to express themselves also in social and professional life. 
3.       An "objective" convergence seems to have been established between the new demands of flexibility of the labor market and the female availability for flexible work, even if the data confirm that, for too many women, flexibility means less qualified work, less guaranteed, for the more casual or at home, underpaid (or even black) and precarious.There seems to have been an "objective" convergence between the new labor market flexibility requirements and the female availability for flexible work, even if the data confirm that for women flexibility means less qualified work, less guaranteed, mostly occasional or domicile, underpaid if not even in black, precarious.
According to complicated econometric calculations, but which it is obviously possible to do, reproductive work in our societies affects the total income production by more than 40%. Since women perform twice as much unpaid work than men, the increase in female presence on the labor market does not correspond to a re-distribution of unpaid care workload. 

Nevertheless, work continues to be perceived by women as the keystone of their emancipation from the condition of subordination and marginality in the patriarchal society.  But, in order for this emancipation to actually take place, in order for the work to acquire an effectively liberating function in the realization of the life project of women, the culture of work must be changed, work must be freed from the cages of private economic exploitation, human development must be freed from subordination to the laws of maximum profit.
A few decades ago, in 1995, the Beijing Conference affirmed that «women's work contributes to a greater degree than men to the safety of human survival and social life: yet it is paid much less, or even not even evaluated ». And that « the under-recognition of the complex of productive, reproductive and care activities in which women's work in the private and social sectors is articulated, is a fundamental aspect of the socalled " feminine disadvantage ".»

At the time of the globalization of the capitalist economy , this disadvantage has not diminished. Indeed it tends to worsen. Let’s remember that at the subsequent Beijing 2000 "control" conference, the question of the impact of globalization on women's lives was rather controversial. While the government representatives of the rich countries of the northern hemisphere insisted on the "greater opportunities" for emancipation that the process of capitalist globalization would offer to women, the NGOs of women in developing countries insisted on describing how capitalist globalization, with the liberalization of the markets, the privatizations and the structural adjustments "suggested" by WB, IMF and WTO, had opposite effects and generated the phenomena of general impoverishment and feminization of poverty.
The fact is that in the following twenty years, the more economies have integrated into the global capitalist market, the more reductions in social programs have been imposed in each country, up to their dismantling. The economic burden of the care has returned to weigh on the families, that is above all on women.

Why work remains the key to women's liberation

The model of "work flexibility" and privatization has further widened the social gap : narrow segments of the population guaranteed, very wide segments are not guaranteed, mainly of women, youth, migrants. The effects of economic policies decided at European level have not been homogeneous on men and women. An overall look at the labor market in the European region shows us a common fact: marginality and precariousness are largely attributes of women's work, in various sectors forms of sexual division of labor persist and, above all, today more than yesterday are the proletarian women, particularly migrant women, to depict the ruthlessness of the laws of the capitalist market.
If, in general, the logic of the "free market" does not accord with the right to work, even less does it accord with women's liberation projects, specially in this phase of globalization of markets and reigning neo-liberalism. Much of the most recent analysis and policy elaboration efforts of the Ni Una Menos international network are aimed at demonstrating that : first, globalization and capitalist liberalization do not mean better quality of life for the large majority of women; second, the "free market " is not the supreme entity to whose needs our lives must be bent.
The reflection initiated by this women’s network can be summarized in a few terms, perhaps a little simple, but which give a good idea: if the market is that place of exchange of goods and services, in which women and men work in reciprocity to increase the common well-being, it cannot disregard the needs of all the people.
But if the free market is for most people a place of deprivation and for very few people the occasion for hoarding and thieving, as the globalized capitalist market really is, then it is not a well governed place and must be changed.
In the capitalist-patriarchal society, including the most modern and well-integrated in the mechanisms of the capitalist-imperialist system, like that of the European region, the decision-making levels of the economy are generally places forbidden to women. Of course, not to all women. There are also women co-opted to the government of the patriarchal economy. Some of them are even at the top (Christine Lagarde, just to name one) and, from the point of view of the capitalist-patriarchal system, they perform their task very well.
But from the point of view of the women's social liberation project?
Since ancient times women have had to deal with what the ancient Greeks called the oiconomía, that is the administration of the house. Can women today take up the challenge and try to answer the questions ?: what, how and for whom to work and produce? Who decides? Can we imagine a public market government, capable of guaranteeing the right to work and social security? Can we formulate other rules of the economy that correspond to the actual needs of the community of men and women? Can we assert the desire of working women to count, to decide, to define priorities, to improve relationships, to enhance their abilities and aspirations, contributing - at the same time - to the collective well-being?
Women with women can, a slogan from a few decades ago said. On condition that they return to organize themselves locally, nationally, regionally and internationally, to coordinate their action with that of the organized labor movement as a whole, to fight together:
·      against neoliberal policies and the false myth of the self-regulating market, against the injust capitalist system; for a different, more just and egalitarian organization of the economy and society ; against discrimination, pay differences with the same qualifications and duties; against the difficulty of accessing decision-making and top management levels (the "crystal roof"); against health and environmental risk factors in work processes; against sexual harassment and violence in the workplace; for the extension of legal and economic protection of motherhood to all working women, employees, temporary workers, autonomous and migrant workers, since for all women the freedom to choose if and when to be mothers is indispensable; for a collective and overall redefinition of the sense of human work.
Trad. A.D.


22/04/19

SUDAN / LE DONNE IN TESTA

Le donne sono la risposta alla domanda di pace. In Sudan e ovunque nel mondo




di Lina Abirafeh *

«Si dice che nei movimenti arabi contemporanei per i diritti e la giustizia le donne siano in prima linea. Ciò non è inusuale, dal momento che le donne in tutto il mondo sono da molto tempo leader nel difendere la pace»


http://www.altmuslimah.com/2019/04/women-are-the-answer-to-peace-in-sudan-and-everywhere

Alaa Salah chiede un futuro per il Sudan
«Nei giorni scorsi, non possono essere sfuggite le immagini contagiose del coraggio in Sudan. Nello specifico, l'immagine di Alaa Salah, in piedi su un'auto, con il dito puntato verso il cielo, che sfida decenni di dominio oppressivo e chiede un futuro migliore per il Sudan, ha affascinato la gente di tutto il mondo. "Non mi sarei mai aspettata che la mia foto si sarebbe diffusa così tanto", ha recentemente twittato Alaa, "ma sono contenta che il mondo abbia visto che c'è una rivoluzione in Sudan." Alaa ha contribuito a mettere il Sudan sulla mappa geopolitica. Cosa che arriva in ritardo. Il Sudan ha subito decenni di violenze - dal conflitto nel Darfur, noto come il primo genocidio del 21° secolo, allo spargimento di sangue in corso con il vicino Sud Sudan, il paese più giovane del mondo. È raro sentire buone notizie provenienti dal Sudan. Fino ad oggi.


Dimostrazioni di donne in Sudan
Secondo una ricerca condotta da The Arab Institute for Women (AiW), dove svolgo il ruolo di direttore esecutivo, le donne sudanesi subiscono il peso di abusi di genere per mano del regime di Al Bashir. Sotto l'attuale codice penale sudanese, le donne possono essere frustate e arrestate per il loro abbigliamento. Ragazze di dieci anni possono essere legalmente sposate. Lo stupro è stato parte integrante della violenza sistemica inflitta ai cittadini sudanesi, in particolare nel Darfur. Il Sudan è uno dei sei paesi che non hanno ratificato la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Nonostante queste sfide, e contrariamente alla narrativa occidentale dominante sulle donne arabe, le donne in Sudan e in tutta la regione sono sempre state attive nei movimenti per la libertà.

Alaa Salah ha dichiarato che "le donne sudanesi hanno sempre partecipato alle rivoluzioni ... vedi la storia del Sudan, tutte le nostre regine hanno guidato lo stato. Fa parte del nostro patrimonio. "Si stima che i due terzi dei manifestanti in Sudan siano donne. Ciò non è dovuto a una maggiore fibra morale delle donne, piuttosto, le donne sudanesi sono disposte a mettersi in prima linea perché hanno subito il maggior numero di abusi sotto l'attuale regime. Il primo obiettivo della rivoluzione era chiedere le dimissioni di Al Bashir, che era stato incriminato dalla Corte penale internazionale per atti di genocidio e crimini contro l'umanità nel Darfur. Le donne sudanesi hanno ispirato e guidato un movimento pacifico che ha messo fine a 30 anni di brutalità. Oggi Alaa è un'icona. Ma lei non è l'unica. Proprio come il mondo ha visto la giovane Malala affrontare i talebani, anche Alaa è vista come un'eccezione. Un'anomalia, addirittura. Ma questo è lontano dalla verità; le giovani donne continueranno a produrre leadership e ad essere il volto del cambiamento in tutto il mondo.

"La linea di fondo è che non c'è pace sostenibile senza donne" 


La linea di fondo è che non c'è pace sostenibile senza donne. Partecipare alla protesta pacifica non è un lusso per le donne. È una necessità perché le donne sopportano il peso delle politiche repressive di uno stato - dalla perdita dei diritti riproduttivi negli Stati Uniti, ai matrimoni forzati in Sudan. Le donne protestano perché hanno ci rimettono di più. E hanno più da perdere. La risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riconosce che le donne sono fondamentali per porre fine alle guerre e per sostenere la pace. Molte altre risoluzioni si sono aggiunte a questa, costruendo un movimento globale noto come l'Agenda per le donne, la pace e la sicurezza.

Ho trascorso 15 anni lavorando all'ONU con donne in contesti di conflitto, dall'Afghanistan alla Repubblica Centrafricana al Sudan. In ogni paese in cui ho vissuto e lavorato, giovani donne come Alaa e Malala sono sempre presenti, puntando il dito della sfida all'oppressione. Queste giovani donne esistono ovunque e hanno ispirato molte altre giovani donne, che cambieranno il volto dei paesi etichettati come "arretrati". Queste donne sono il volto della libertà. Sono la faccia del futuro.

Questo futuro che riconosce la presenza e il potere delle donne è atteso da tempo, non solo in Sudan. Abbiamo assistito alla violenta misoginia che ha annullato i conquistati diritti per le donne di tutto il mondo, anche negli Stati Uniti, e siamo stati accolti in azione. Le marce femminili stimolano milioni di persone. Le donne stanno rivendicando il potere a casa, nelle strade e negli uffici pubblici.
In Afghanistan, un giovane afgano mi ha detto: "Il mondo pensava che potessero portare la libertà alle donne afgane, ma la libertà si conquista solo dall'interno". Così anche in Sudan e in tutto il mondo le donne stanno portando la libertà - le loro la propria libertà e quella della nazione - alle loro condizioni.
Lo stiamo vedendo anche qui negli Stati Uniti. Il recente incidente con la parlamentare  Ilhan Omar è un altro esempio di donne di colore che si alzano in piedi e parlano apertamente di fronte all'ingiustizia, nonostante i climi politici restrittivi e le minacce tangibili.

Ihsan Fagiri dopo il suo rilascio

"Notre Dame sarà ricostruita. Ma il Sudan potrebbe non esserlo" 


Il Sudan affronta una sfida significativa nei prossimi anni. Il governo di transizione ha l'opportunità di annullare i torti dei suoi predecessori. Non è sufficiente invitare le donne al tavolo dei negoziati. Il tavolo delle trattative deve essere condotto dalle donne. Questo non è una operazione di  facciata o un'occasione di moda. Il futuro del Sudan è in gioco e le donne sono - e sono sempre state - in prima linea.


Senza donne in posizioni di comando, il Sudan rischia di ripetere la sua tragica storia. La comunità internazionale deve mostrare solidarietà alle donne in Sudan dopo che il momento di moda è passato e l'attenzione del mondo è stata deviata.
Alaa Salah ha avuto il suo momento mediatico. E ora le nostre fuggevoli attenzioni si rivolgono a una chiesa a Parigi, che in 24 ore ha raccolto più finanziamenti e sostegno di quanto il Sudan abbia da decenni.
C'è una nuova generazione di donne leader in Sudan. Sono la fiamma che ha acceso e ispirato il Paese. Otterranno il nostro sostegno? Lo dobbiamo a queste giovani donne per sostenere i cambiamenti che cercano e hanno impiegato decenni per lavorare.


Notre Dame sarà ricostruita. Ma il Sudan potrebbe non esserlo. Alaa Salah ha detto meglio: "Non puoi avere una rivoluzione senza donne. Non puoi avere democrazia senza donne.»

*direttrice esecutiva dell'Istituto arabo per le donne della Lebanese American University, con sede a New York e in Libano

10/04/19

NATO exit / DICHIARAZIONE DI FIRENZE


USCIRE DAL SISTEMA DI GUERRA, ORA!



Mentre il 70° anniversario della Nato veniva celebrato presso il Dipartimento di Stato Usa dai 29 ministri degli Esteri degli stati membri,  a Firenze si teneva la conferenza internazionale «70 ANNI DELLA NATO: QUALE BILANCIO STORICO?» promossa dal Comitato No Guerra No Nato e da Global Research, con l’adesione di numerose associazioni e reti disarmiste e per la pace.


Al termine dei lavori, è stata letta la «Dichiarazione di Firenze», riportata qui di seguito.


«Il rischio di una grande guerra che, con l’uso delle armi nucleari potrebbe segnare la fine dell’Umanità, è reale e sta aumentando, anche se non è percepito dall’opinione pubblica tenuta all’oscuro dell’incombente pericolo.
È di vitale importanza il massimo impegno per uscire dal sistema di guerra. Ciò pone la questione dell’appartenenza dell’Italia e di altri paesi europei alla NATO.

La NATO non è una Alleanza. È una organizzazione sotto comando del Pentagono, il cui scopo è il controllo militare dell’Europa Occidentale e Orientale.
Le basi USA nei paesi membri della NATO servono a occupare tali paesi, mantenendovi una presenza militare permanente che permette a Washington di influenzare e controllare la loro politica e impedire reali scelte democratiche. 

La NATO è una macchina da guerra che opera per gli interessi degli Stati Uniti, con la complicità dei maggiori gruppi europei di potere, macchiandosi di crimini contro l’umanità.
La guerra di aggressione condotta dalla NATO nel 1999 contro la Jugoslavia ha aperto la via alla globalizzazione degli interventi militari, con le guerre contro l’Afghanistan, la Libia, la Siria e altri paesi, in completa violazione del diritto internazionale. 
Tali guerre vengono finanziate dai paesi membri, i cui bilanci militari sono in continua crescita a scapito delle spese sociali, per sostenere colossali programmi militari come quello nucleare statunitense da 1.200 miliardi di dollari.

Gli USA, violando il Trattato di non-proliferazione, schierano armi nucleari in 5 Stati non-nucleari della NATO, con la falsa motivazione della «minaccia russa». Mettono in tal modo in gioco la sicurezza dell’Europa.

Per uscire dal sistema di guerra che ci danneggia sempre più e ci espone al pericolo imminente di una grande guerra, si deve uscire dalla NATO, affermando il diritto di essere Stati sovrani e neutrali.
È possibile in tal modo contribuire allo smantellamento della NATO e di ogni altra alleanza militare, alla riconfigurazione degli assetti dell’intera regione europea, alla formazione di un mondo multipolare in cui si realizzino le aspirazioni dei popoli alla libertà e alla giustizia sociale.

Proponiamo la creazione di un fronte internazionale NATO EXIT in tutti i paesi europei della NATO, costruendo una rete organizzativa a livello di base capace di sostenere la durissima lotta per conseguire tale obiettivo vitale per il nostro futuro

Firenze, 7 Aprile 2019

En: The international conference "70 YEARS OF NATO: WHICH HISTORICAL BUDGET?" was held on 7th of April in Florence (Italy), promoted by the No War No Born Committee and Global Research, with the support of several organizations and networks for peace.

At the end of the conference, the "Florence Declaration", shown below, was read.

For an international front “NATO exit”

The risk of a great war that with the use of nuclear weapons could determine the end of the mankind is real and is increasing, even if this is not perceived by the public opinion that is kept in the dark from the incumbent danger

It is very important the maximum engagement to get out of the war system. However, this pose a question since the Italy and other countries belong to the NATO.

NATO is not an Alliance. It is and organization under the command of Pentagon, that has the aim of controlling eastern and western Europe.

US bases of member states occupy those states, by maintaining a military presence that allows Washington to influence and control their politics and to prevent real democratic choices.

NATO is a war machine operating in the interest of the US with the complicity of the major European groups of power, getting stained of crimes against mankind.

The NATO war of aggression of 1999 against Yugoslavia has started the globalization of military interventions with the wars against Afghanistan, Libya, Syria and other countries, in complete violation of the international right.

These wars are financed by the member states whose military budgets are continuously growing. As an example the nuclear budget of the USA reaches now 1200 billion of US dollars.

The USA, in violation of the non-proliferation treaty has nuclear weapons in 5 non-nuclear NATO countries, with the false motivation of the “Russian threat”, putting at risk the security of Europe.

To get out of the “war system” that is increasingly damaging us by exposing us to an imminent danger of a war, we have to get out of the NATO, asserting that there is the right to be a neutral and sovereign state.

It is in this way possible to contribute to dismantle the NATO and all other military alliances, to reshape the entire European region, to form a multi-polar world where it is possible to realize the aspirations of all the people to freedom and social justice.

We propose to create a “NATO exit” international front of all the European countries, building an organizational net at the civil society level that can support the very hard fight to obtain this vital result for our future. 



04/04/19

NATO 70 ANNI / QUALE BILANCIO STORICO? Convegno a Firenze



«USCIRE DAL SISTEMA DI GUERRA, ORA!»




«I 70 ANNI DELLA NATO, QUALE BILANCIO STORICO?»: Convegno internazionale a Firenze, il 7 aprile 2019. Perché lo scioglimento della NATO è un passo indispensabile per la sicurezza globale e la sopravvivenza del Pianeta. 






Il 4 aprile la NATO compie 70 anni. Il trattato che la istituì, detto anche Patto Atlantico, fu firmato Il 4 aprile del 1949 a Washington, a soli quattro anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale. Agli occhi del mondo venne giustificata come alleanza militare fra Stati Uniti e paesi dell’Europa occidentale per “difendersi” da presunte mire espansive dell’Unione Sovietica.
Ma la sua fondazione suscitò un vasto movimento di opposizione popolare in Europa, sia ad ovest che ad est, nel quale ebbero parte attiva le organizzazioni delle donne che vedevano in essa una minaccia per la pace. 
Fin dal 1948 in molti paesi si avviò una raccolta di firme contro la NATO, si rivolsero proteste e petizioni ai governi e ai parlamenti perché si astenessero dal ratificare quello che veniva percepito come un nuovo patto di aggressione. La campagna per la pace, condotta in ogni città, quartiere per quartiere, casa per casa, fu sostenuta in larga parte dalle donne. 
Soltanto in Italia, le donne raccolsero quasi otto milioni di firme. Il secondo congresso della Federazione Democratica Internazionale delle Donne (WIDF), nel dicembre di quell’anno, adottò il Manifesto della pace: «Agisci subito! Non attendere la pace, lotta per essa!».

Il 20-24 aprile del 1949 si svolse a Parigi un Congresso Mondiale per la pace, convocato con un appello di numerosi intellettuali europei. Una sessione di esso ebbe luogo simultaneamente a Praga per consentire la partecipazione delle delegazioni alle quali era stato rifiutato il visto d’ingresso in Francia. Ad ambedue partecipò la WIDF con ben 90 delegazioni di organizzazioni affiliate.

Negli anni successivi, altre iniziative memorabili, come la mobilitazione convocata dall’appello di Stoccolma del 1950 contro il riarmo e per la sicurezza globale, non potettero evitare il precipitare della “guerra fredda” e la costituzione, nel 1955, del Patto di Varsavia in contrapposizione al Patto Atlantico. 
Tuttavia il movimento per la pace non si fermò. Un grande potenziale di mobilitazione popolare continuò ad essere dispiegato in una serie di eventi internazionali per promuovere il disarmo, la proibizione delle armi nucleari e la fine della “guerra fredda”.

Nel maggio del 1962, il Congresso mondiale per il disarmo globale e la pace, a Mosca, segnò il passaggio alla distensione. Significativamente, esso fu aperto dalla scienziata francese Eugenie Cotton, presidente della WIDF, che alla pace e alla sicurezza mondiale dedicò l’intera vita.
Quando poi le Nazioni Unite proclamarono gli anni ’70 “Decennio del Disarmo”, ricevettero un potente impulso gli sforzi congiunti di movimenti e governi verso il raggiungimento di diversi accordi multilaterali sul terreno del disarmo, specialmente nucleare.  

Dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia, anche il Patto Atlantico, essendo caduti i presupposti su cui era nato, avrebbe dovuto sciogliersi. Invece, a partire dal 1991, non solo esso ha continuato ad espandersi senza limiti, ma anche ad accrescere pericolosamente la sua capacità aggressiva in ogni parte del mondo.

Oggi la NATO è l’alleanza militare-nucleare più potente del mondo. Gli Stati membri sono attualmente 30, ma essa presenta una vasta e articolata struttura che comprende un migliaio di basi distribuite in 145 paesi – fra stati membri, stati partner e affiliati ai gruppi di partenariato – tutte sotto alto comando USA. Le basi Usa e Nato rappresentano il 95% di tutte le basi militari straniere presenti nel mondo. Quest’insieme rappresenta il maggiore sistema di guerra esistente e, di fatto, il maggiore ostacolo alla costruzione di un mondo pacificato e libero da armi di distruzione di massa, nucleari e non.
L’Italia ha sul proprio territorio il 10% delle Basi Usa e NATO ed è totalmente asservita a questo sistema guerra, con pesantissime rinunce riguardo alla propria sovranità territoriale e politica, e in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali».

Una rete globale di organizzazioni pacifiste e disarmiste, da alcuni anni, è tornata a dispiegare un’azione comune per affermare l'illegittimità della NATO e la necessità del suo scioglimento per la salvaguardia della sicurezza globale e la sopravvivenza del Pianeta.

Il Convegno internazionale «I 70 ANNI DELLA NATO: QUALE BILANCIO STORICO?» che si tiene il 7 aprile a Firenze, presso il Teatro Odeon (Piazza Strozzi, ore 10:15 – 18:00) è convocato dalla Associazione per un mondo senza guerre e dal Comitato No Guerra No NATO / Global Research, in collaborazione con Pax Christi Italia, Commissione Giustizia e Pace dei Missionari Comboniani, Comitato Pace e Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio (Napoli), Rivista/Sito Marx21, WILPF Italia (Lega Internazionale Donne per la Pace e la Libertà) e con numerose adesioni, compresa quella dell'AWMR Italia.

«Consapevoli della crescente pericolosità della situazione mondiale – si legge nella convocazione - della drammaticità dei conflitti in atto, della accelerazione della crisi, riteniamo che sia necessario far comprendere all'opinione pubblica e ai parlamenti il rischio esistente di una grande guerra. Essa non sarebbe in alcun modo simile alle guerre mondiali che l'hanno preceduta e, con l’uso delle armi nucleari e altre armi di distruzione di massa, metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa dell’Umanità e del Pianeta Terra, la Casa Comune in cui viviamo. Il pericolo non è mai stato così grande e così vicino. Non si può rischiare, bisogna moltiplicare gli sforzi per uscire dal sistema di guerra».

En.  70 years of NATO are too many!
GET OUT OF THE WAR SYSTEM, NOW !
AWMR Italia will participate in the International Conference "70 YEARS OF NATO, WHICH HISTORICAL BUDGET?" (Florence, 7 April 2019)

On April 4, 2019, NATO turns 70. The treaty that established it, called Atlantic Pact, was signed in 1949 in Washington, just four years after the end of World War II.
Its foundation aroused a vast movement of popular opposition in Europe, in which women's organizations played a very active role.  Since 1948 in many countries a collection of signatures was launched against NATO, protests and petitions were sent to governments and parliaments to refrain from ratifying what was perceived as a new war pact. A campaign for peace was conducted in every city, neighborhood by neighborhood, house by house, and it was largely supported by women. In Italy alone, women gathered nearly eight million signatures. The second congress of the International Democratic Federation of Women (WIDF), in December of that year, adopted the Peace Manifesto: "Act now! Don't wait for peace, fight for it!».
On April 20, 1949, a World Peace Congress took place in Paris. A session of it took place simultaneously in Prague to allow the participation of delegations which had been refused entry visas to France. The WIDF participated in both with 90 delegations of affiliated organizations.
In the following years there were other memorable initiatives, such as the international mobilization called by the 1950 Stockholm appeal against rearmament and for global security. However, they could not avoid the "cold war" and the Warsaw Pact was established in 1955, as opposed to the Atlantic Pact.
But the peace movement did not stop. Other international events were organized to promote disarmament, prohibition of nuclear weapons and the end of the "cold war".

In May 1962, the World Congress for global disarmament and peace, in Moscow, paved the way for détente. Significantly, it was opened by the French scientist Eugenie Cotton, WIDF’s president, who dedicated her entire life to world peace and security.
When the United Nations proclaimed the 1970s "Decade of Disarmament", the joint efforts of movements and governments received a powerful impulse towards the achievement of different multilateral agreements on nuclear disarmament.
After the fall of the Berlin Wall and the dissolution of the Warsaw Pact, even the Atlantic Pact should have been dissolved. Instead, starting from 1991 it not only continued to expand without limits, but also to dangerously increase its aggressive capacity in every part of the world.
Today NATO is the most powerful military-nuclear alliance in the world, the largest existing system of warfare and the biggest obstacle to building a world free of mass destruction weapons.
A global network of pacifist and disarmist organizations, for some years now, has returned to deploying a common action to affirm the illegitimacy of NATO and demand its dissolution.
The danger of war is closer than anyone thinks. The use of nuclear weapons and other weapons of mass destruction would jeopardize the very existence of Humanity and Planet Earth, the Common House in which we live.

We cannot risk, we must multiply our efforts to get out of the war system!