Ci ha lasciate Nawal Al-Saadawi, scrittrice, saggista, psichiatra e attivista egiziana che in 89 anni di vita e scrittura ha raccontanto al mondo le "verità selvagge e pericolose" sulla condizione delle donne che il patriarcato e l'integralismo islamico volevano occultare
di Ada Donno
Se n’è
andata il 21 marzo a primavera, Nawal Al-Saadawi, scrittrice, psichiatra e femminista
egiziana. Nel dare la notizia della sua morte, che l’ha raggiunta a 89 anni
mentre era ricoverata per malattia in un ospedale del Cairo, agenzie e testate
giornalistiche internazionali hanno scritto che è stata un “faro” per le donne
progressiste in tutto il mondo arabo e hanno messo l’accento sulla sua figura
di donna “ribelle” che ha sfidato con coraggio i tabù, ha divorziato tre volte
perché non ha voluto sottomettersi all’autorità maritale prescritta dalle leggi
del suo paese; ha sostenuto campagne contro il velo, lottato contro la
disuguaglianza di diritti, la poligamia e la circoncisione femminile e tutte le
mostruosità misogine perpetrate dal patriarcalismo islamico; ha affrontato
anche il carcere a più riprese e subito la proscrizione da parte delle più alte
autorità religiose.
Nawal era nata
in un villaggio nei pressi del Cairo nel 1931, in una famiglia osservante delle
tradizioni che aveva deciso di farla sposare appena compiuti i dieci anni. Ma
lei si era ribellata e aveva rifiutato quel matrimonio combinato dai genitori
per darle “sicurezza e stabilità”. Più tardi avrebbe raccontato nella sua
autobiografia “Una figlia di Iside” (pubblicata
in Italia nel 2002) di quanto le fosse costato quel rifiuto, della riprovazione
e il ripudio che a lungo l’aveva circondata tra familiari e parenti, ma anche
della solidarietà che leggeva nello sguardo di sua madre, che la confortò e la
sostenne nella sua volontà di studiare e poi di laurearsi in medicina.
Dopo la
salita al potere di Nasser nel ‘52, le cose sembrarono a cambiare in Egitto,
nuove opportunità si aprirono anche per le donne. Nawal si specializzò in
psichiatria e ottenne incarichi di rilievo, come direttrice generale del
Dipartimento di educazione sanitaria presso il Ministero della Salute e
segretaria generale dell’Associazione Medica del Cairo. Ma nel 1972 fu estromessa
dai suoi incarichi per avere pubblicato “Donne
e sesso”, un’aperta denuncia dell’oppressione sessuale delle donne egiziane,
che le attirò la condanna e l’ostracismo da parte delle massime autorità
religiose e politiche.
Nel 1975
pubblicò il romanzo Firdaus (Una donna al
punto zero), racconto terribilmente asciutto e realistico della vita di una
donna nell’Egitto del suo tempo. Il libro sollevò di nuovo grande scalpore, il
potere patriarcale arcaico e misogino vi si riconobbe e perciò lo mise al
bando. Ma fu tradotto in decine di altre lingue e fece conoscere Nawal ad ogni
latitudine.
Alle
autorità religiose egiziane che l’accusarono di essere ′′selvaggia e
pericolosa" perché si ribellava alle leggi e ai costumi che sottomettono e
schiavizzano le donne, Nawal rispose: «Dico la verità, la verità è selvaggia e
pericolosa». E di quelle pericolose verità che la società patriarcale islamica voleva
occultare lei si è fatta portavoce, raccontandole nei suoi libri: oltre
cinquanta, fra narrativa e saggistica (senza contare la sua attività di
giornalista che ha svolto fino all’ultimo), per molti dei quali ha tratto ispirazione
dalla sua attività professionale di medica psichiatra.
Raccontando
ha denunciato le rigide clausure imposte alle donne, l’esposizione a castighi
pubblici, le condanne a morte per adulterio, i matrimoni precoci forzati. Ha
parlato apertamente di sessualità femminile, di prostituzione, aborto, violenza
fisica e psicologica. si è battuta strenuamente contro il crimine della circoncisione
femminile, ricordando di averla subita lei stessa a sei anni e incitando le
donne arabe a ribellarsi perché, con il loro corpo, anche l'anima e il pensiero
vengono circoncisi.
Nel 1985
fondò la Arab Women’s Solidarity
Association, la prima organizzazione femminista indipendente riconosciuta in
Egitto, a cui in breve aderirono centinaia di donne di diversi paesi arabi (la
figlia Mona Helmy, anche lei scrittrice e attivista femminista, ne è stata a
lungo segretaria generale).
Nel maggio 1987
venne in Italia per partecipare al seminario Non ci basta dire basta, a Torino, dove la Casa delle donne mise in
movimento la diplomazia femminista di «Visitare luoghi difficili» e lanciò la
proposta di un campo internazionale di donne nel Libano scorticato e fatto a
brandelli dalla guerra. In quella occasione Nawal si presentò come «donna
egiziana, araba, africana» e spiazzò più di qualcuna con la sua energica requisitoria
nei confronti delle «femministe che separano i problemi delle donne da quelli politici».
Andando
dritta a quello che per lei era il cuore del problema, sosteneva che le lotte
delle donne non possono essere separate dalla lotta politica, che il femminismo
è politica e deve confrontarsi col potere politico. «In ogni occasione internazionale
di incontri di donne – disse - c'è sempre qualcuna che ci chiede: perché dovete
parlare per forza di imperialismo e di sionismo, che c'entrano con le donne? Ma
noi rispondiamo che il sionismo è parte del nostro problema di donne e c’è un
nesso tra oppressione sessuale, psicologica, sociale ed economica delle donne».
Negli anni
’90 dovette allontanarsi dall’Egitto perché subiva quotidiane minacce di morte
da gruppi fondamentalisti. Accettò un incarico nell’Università del North
Carolina, ma questo non le impedì di accusare Bush di «usare i diritti delle
donne e la democrazia come scusa per invadere l’Iraq, rubare il petrolio e
dominare l’intero Medio Oriente». E di «appoggiare i dittatori più reazionari
del mondo arabo, il re in Arabia saudita, Sadat in Egitto, Hussein prima della
guerra, e tutto il resto».
Nel 2005 gettò
lo scompiglio in Egitto annunciando di volersi candidare alle elezioni presidenziali.
Sorse una disputa pubblica sulla legittimità della sua candidatura e scesero in
campo le più alte autorità religiose. Nawal stessa, più tardi, spiegò
pubblicamente le ragioni della sua sfida: «Quando ho annunciato la mia
candidatura non pensavo certo di contendere il posto di presidente a Mubarak.
Non sono pazza. Non ho mai pensato di poter essere eletta. Io volevo solo
aprire un dibattito e sotto questo aspetto credo di esserci riuscita, perché
tutti hanno parlato della mia candidatura. Non era mai accaduto prima che si
parlasse di una donna alla presidenza dell’Egitto».
Con sua
grande soddisfazione, il Grande Imam di Al Azhar dovette ammettere che sì, le
donne potevano partecipare alla competizione politica, che niente nell’Islam
impedisce ad una donna di farlo. Invece il gran Muftì della Repubblica, che
aveva lo stesso livello di autorità, disse che no, l’Islam lo vietava. E alla
domanda «perché?», rispose che una donna è impura perché ha il mestruo.
«Ridicolo!» commentò Nawal sarcastica. «Anche Condoleeza Rice ha il mestruo,
eppure le massime autorità politiche dei paesi islamici non esitano a
stringerle la mano».
Ma l’ironia
non la salvò dalla vendetta del fanatismo. La sua candidatura fu considerata comunque
inammissibile perché su di lei pendeva l’accusa – lanciata dall’Università
islamica del Cairo Al Azhar - di apostasia e disprezzo dei principi dell’Islam
per una commedia scritta molti anni prima e ripubblicata, in cui affermava che,
essendo dio puro spirito, non è né uomo né donna. Dovette rinunciare ad
affrontare il processo in patria, come in un primo momento aveva pensato di
fare, perché il suo nome era stato inserito dai fondamentalisti in una “lista
della morte”.
Continuò a
lavorare per lo più all’estero, senza trascurare occasione di far sentire la
sua presenza attiva nel suo paese, dove le sue opere continuavano ad essere censurate,
mentre lei continuava a scrivere e ad essere insignita di premi e
riconoscimenti internazionali.
In “Dissidenza e scrittura” (2008), ha
raccontato il suo complesso «itinerario intellettuale». Era convinta, da
«socialista e femminista», che le donne arabe non dovessero solo lottare contro
gli stereotipi sessisti e la propria immagine distorta nelle società islamiche,
ma anche combattere l’immagine distorta e gli stereotipi occidentali
sull’Islam; che le donne dovessero fare politica e opporsi alle arroganti
ideologie identitarie presenti in ogni cultura ad ogni latitudine, perché «sono
i sistemi politici e i nostri governi a distorcere l’immagine dell’Islam e ad
alimentare il fondamentalismo. Sono le due facce della stessa medaglia. In
Egitto era Sadat a incoraggiare i fondamentalisti, con il benestare del governo
Usa. C’è ovunque una connessione evidente fra potere politico e i gruppi
fanatici, di ogni religione, non solo nei paesi arabi: Vale per i fanatici
cristiani negli Usa, come per il fanatismo ebraico che sostiene la destra in
Israele».
Quando gli
studenti dell’Università di California, al tempo della sua candidatura, le
chiesero cosa pensava che avrebbero fatto gli Stati Uniti se fosse stata eletta
presidente dell’Egitto, rispose: «Forse cercherebbero di uccidermi. Come hanno
fatto con Castro, o con Nasser quando nazionalizzò il canale di Suez. Ogni
volta che sorge un leader un po’ democratico nei paesi arabi, in Africa, in
Asia e in America Latina, lo bloccano o lo fanno fuori».
Nel 2011 partecipò
alle proteste in Piazza Tahrir, pronta a combattere ancora una volta in prima
linea per un Egitto libero e democratico. Ma nel 2013 si attirò le critiche
degli ambienti progressisti per aver sostenuto senza riserve il regime di
Al-Sisi che, dopo il rovesciamento militare di Morsi, si dimostrò non meno
dispotico e conservatore.
E tuttavia
non sono critiche che possano intaccare il suo lascito intellettuale e morale, che
è grande e sarà raccolto dalle generazioni future di donne, non solo egiziane, non
solo del mondo arabo. L’8 marzo del 2012, Nawal aveva detto: «Viviamo in un
mondo dominato dallo stesso sistema oppressivo: il sistema capitalista,
imperialista, religioso, razzista, militare e patriarcale. Prima o poi ci
libereremo. Non perderemo mai la speranza perché la speranza è potere».
Sì, Nawal
Al-Saadawi è stata certamente un “faro” per le donne in tutto il mondo arabo,
come è stato scritto. Ma dobbiamo onestamente dire di più: lo è stata anche per
noi donne occidentali, quando ci ha aiutate a mettere da parte l'abitudine a
certe letture eurocentriche e semplificate del mondo. Ad abbracciarne la complessità,
che implica la rinuncia alla tentazione di ogni forma di «esportazione della
democrazia e dei diritti» e di «protettorato» di stampo neocoloniale nei
confronti delle “povere sorelle” dei paesi arabi e africani. A praticare la
ricerca dell’«incontro faticoso» e a cogliere nella pluralità delle visioni il «comune
sguardo che unisce».
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