03/03/21

WOMENOMICS e PNRR

Donne ed economia, un matrimonio di interesse (generale)


di Agnese Palma*

Si è detto molto, e si dirà ancora molto, sulla pandemia che ci ha colpito un anno fa e che sta cambiando in modo inesorabile la vita degli esseri umani sul pianeta. Ha scardinato certezze, pianificazioni, a volte anche l’idea di un futuro. Una certezza però si è delineata: le disuguaglianze stanno aumentando, tra paesi ricchi e paesi poveri, tra garantiti e precari, tra donne e uomini.

La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito tutti, e questo ha spinto la UE a mettere sul piatto ingenti risorse per la ripresa.

È difficilmente credibile una sincera inversione di tendenza rispetto alle politiche liberiste fin qui perseguite, ma ha agito piuttosto la consapevolezza che stavolta non si tratta di lasciar affondare la piccola Grecia da sola, in questa crisi nessun paese membro si sarebbe potuto salvare da solo. Da qui nasce quindi l’ambizioso Next Generation UE, un piano che dovrebbe portarci, alla fine della pandemia, verso un’Europa che cresce in modo ecologico e sostenibile, con meno disuguaglianze, più solidale, che guarda ai giovani e alle donne. Le condizioni affinché ci si avvii lungo questa transizione socio-ecologica, verso un Rinascimento europeo, sono però tutte da costruire. Siamo ai blocchi di partenza e l’Italia ha molti svantaggi da recuperare.

Veniamo a noi donne ed iniziamo facendo due conti, molto realisticamente.

Le trattative del precedente governo avevano portato ad ottenere dalla UE la somma di 223,91 miliardi di euro per l’Italia. Non sappiamo ancora cosa ne farà il governo Draghi, e probabilmente lo sapremo all’ultimo momento, ma possiamo partire dal PNRR del governo Conte per capire cosa fosse previsto per il riequilibrio di genere. Draghi dovrà sbrigarsi perché la scadenza per presentare il piano è il 30 aprile.

Transizione ecologica, digitalizzazione, donne e giovani sono i pilastri indicati per la ripresa europea.

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) definisce il piano di riforme ed investimenti del triennio 2021-2023, piano che ogni stato membro deve presentare per accedere ai fondi. Si deve rispettare il vincolo che almeno il 37% deve essere destinato alla transizione ecologica e almeno il 20% a quella digitale.

L’attuale PNRR destina il 40,8% (80 mld) alla transizione green ed il 23% (45 mld) alla transizione digitale. Tutto il piano si articola in sei missioni, all’interno delle quali sono definiti i progetti da sviluppare e gli impegni di spesa.

La missione 5 (inclusione e coesione sociale) include anche la parità di genere, ad essa va l’8,7% (17,1 mld), e riguarda le misure sulle politiche del lavoro, infrastrutture sociali, coesione territoriale e giovani. Alla parità di genere sono destinati 4,2 mld di euro. Come si vede, non è molto, anche se si dichiara che il sostegno all’empowerment femminile e il contrasto alle discriminazioni di genere deve essere trasversale in tutto il piano. I 4,2 mld sarebbero destinati, tra l’altro, a favorire l’imprenditoria e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenza.

In attesa della ristesura non “farisaica” di Draghi, abbiamo un problema: le donne hanno perso moltissimi posti di lavoro, in questa pandemia. Fino a dicembre su 101mila posti persi, 99mila erano di donne. Questa crisi pandemica, diversamente da quelle industriali e finanziarie, colpisce i settori a maggior occupazione femminile: commercio, ristorazione, turismo.

L’occupazione femminile (e giovanile) è una vera emergenza su cui non si può pensare di intervenire con le solite ricette della decontribuzione e degli sgravi acritici alle imprese.

Con questo sistema si perpetua il precariato, il lavoro povero, e non si crea sviluppo vero e duraturo. C’è il rischio, già sperimentato, di immettere soldi che daranno un’altra spinta alla giostra fino alla prossima crisi, perché c’è sempre una crisi nel capitalismo.

Dobbiamo intervenire per rimuovere le cause che tengono le donne lontane dal mondo del lavoro, e che ne determinano la precarietà e i bassi salari.

Per anni ci hanno detto che le donne erano poco occupate, e occupate nei posti meno qualificati, perché non erano abbastanza istruite, non avevano il titolo di studio.

Lo svantaggio è stato recuperato da trent’anni; in Italia risale ai primi anni novanta del 900 il sorpasso delle donne sugli uomini per numero di diplomate e laureate. Non neghiamo i progressi, ma il divario occupazionale ed il divario salariale è ancora pesante.

Da qualche tempo a questa parte sono partite le campagne per spingere le ragazze verso le lauree STEM. Prima non avevamo l’istruzione, ora non abbiamo l’istruzione giusta. Pare che ci manchi sempre qualcosa, e trovo queste campagne promozionali anche vagamente irritanti.

Premesso che ad una figlia, come ad un figlio, direi studia quello che più ti piace, quello per cui hai più inclinazione, ho difficoltà a credere che sia questo il motivo per cui oggi le donne sono più precarie e meno pagate. Senza risalire al quarto secolo con Ippazia, o a tutte le scienziate a cui fu negato il riconoscimento del proprio lavoro, condannate all’invisibilità, oggi è un fatto la fuga di cervelli, molti dei quali albergano in teste femminili. Ragazze, prendetevi una bella laurea STEM e poi andate a lavorare all’estero. Piuttosto aiutiamole a restare, queste ragazze, favorendo le pari opportunità nell’ambito dell’istruzione e della ricerca (missione 4 del PNRR, 19.2 mld). Un esempio di intervento di genere trasversale.

A distanza di un anno la pandemia ci ha fatto capire cosa conta veramente per avere una buona qualità della vita. La cura delle persone è importante sotto tutti gli aspetti: la salute fisica e mentale, l’assistenza ai bambini e agli anziani, la scuola, la socialità, il decoro urbano, persino l’accesso alla rete internet.

Nel memorandum 2021 dell’Eurogruppo c’è un capitolo dedicato all’approccio femminista al Green Deal e al Care Deal Europeo, che mette al centro la cosiddetta economia della cura. Vuol dire restituire dignità ai lavori di cura perché contribuiscono al benessere delle persone. Sono settori in cui è alta l’occupazione femminile, chiediamo per essi riconoscimento sociale, giusto salario e pari diritti. Non è l’unico settore su cui concentrarci, ma è cruciale per la riduzione del gap di genere. Investire in questi settori vuol dire investire in qualità della vita.

Si avrebbe inoltre il doppio beneficio di liberare le donne dal lavoro di cura, che come sappiamo è uno dei principali ostacoli sia all’occupazione che alla carriera.

Cambiare il modello di sviluppo non può essere uno slogan, un refrain a cui non dare seguito. Per noi donne è una necessità. Il sistema oggi si basa sul welfare gratuito delle donne, questo welfare invece deve generare buona occupazione ed entrare nell’economia.

È ormai provato che una maggiore occupazione e coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro fa bene all’economia nel suo complesso, ha un effetto di crescita del PIL. Riferiamoci ancora al PIL, per ora, anche se è tempo di cambiare questa misura e dovremmo iniziare a dirlo come sindacato. Dovremmo aprire una vertenza su questo. Da anni il PIL è stato messo in discussione perché non misura il benessere reale ma solo tutto ciò che viene monetizzato, disgrazie comprese (definizione di Zygmund Bauman).

Disgrazie ne abbiamo avute abbastanza, mettiamoci al lavoro tutte e tutti perché combattere le disuguaglianze è uno dei pilastri della CGIL.

* Relazione al Coordinamento Donne FISAC CGIL (Federazione italiana sindacati assicurazioni credito) del 3 marzo 2021

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