Donne ed economia, un matrimonio di interesse (generale)
Si è detto molto, e si dirà ancora molto, sulla pandemia che ci ha
colpito un anno fa e che sta cambiando in modo inesorabile la vita degli esseri
umani sul pianeta. Ha scardinato certezze, pianificazioni, a volte anche l’idea
di un futuro. Una certezza però si è delineata: le disuguaglianze stanno
aumentando, tra paesi ricchi e paesi poveri, tra garantiti e precari, tra donne
e uomini.
La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito tutti, e
questo ha spinto la UE a mettere sul piatto ingenti risorse per la ripresa.
È difficilmente credibile una sincera inversione di tendenza rispetto alle politiche liberiste fin qui perseguite, ma ha agito piuttosto la consapevolezza che stavolta non si tratta di lasciar affondare la piccola Grecia da sola, in questa crisi nessun paese membro si sarebbe potuto salvare da solo. Da qui nasce quindi l’ambizioso Next Generation UE, un piano che dovrebbe portarci, alla fine della pandemia, verso un’Europa che cresce in modo ecologico e sostenibile, con meno disuguaglianze, più solidale, che guarda ai giovani e alle donne. Le condizioni affinché ci si avvii lungo questa transizione socio-ecologica, verso un Rinascimento europeo, sono però tutte da costruire. Siamo ai blocchi di partenza e l’Italia ha molti svantaggi da recuperare.
Veniamo a noi donne ed iniziamo facendo due conti, molto realisticamente.
Le trattative del precedente governo avevano portato ad ottenere dalla UE la somma di 223,91 miliardi di euro per l’Italia. Non sappiamo ancora cosa ne farà il governo Draghi, e probabilmente lo sapremo all’ultimo momento, ma possiamo partire dal PNRR del governo Conte per capire cosa fosse previsto per il riequilibrio di genere. Draghi dovrà sbrigarsi perché la scadenza per presentare il piano è il 30 aprile.
Transizione ecologica, digitalizzazione, donne e giovani sono i
pilastri indicati per la ripresa europea.
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) definisce
il piano di riforme ed investimenti del triennio 2021-2023, piano che ogni
stato membro deve presentare per accedere ai fondi. Si deve rispettare il
vincolo che almeno il 37% deve essere destinato alla transizione ecologica e
almeno il 20% a quella digitale.
L’attuale PNRR destina il 40,8% (80 mld) alla transizione green ed
il 23% (45 mld) alla transizione digitale. Tutto il piano si articola in sei
missioni, all’interno delle quali sono definiti i progetti da sviluppare e gli
impegni di spesa.
La missione 5 (inclusione e coesione sociale) include anche
la parità di genere, ad essa va l’8,7% (17,1 mld), e riguarda le misure sulle
politiche del lavoro, infrastrutture sociali, coesione territoriale e giovani. Alla
parità di genere sono destinati 4,2 mld di euro. Come si vede, non è molto,
anche se si dichiara che il sostegno all’empowerment
femminile e il contrasto alle discriminazioni di genere deve essere
trasversale in tutto il piano. I 4,2 mld sarebbero destinati, tra l’altro, a
favorire l’imprenditoria e l’indipendenza economica delle donne vittime di
violenza.
In attesa della ristesura non “farisaica” di Draghi, abbiamo un
problema: le donne hanno perso moltissimi posti di lavoro, in questa
pandemia. Fino a dicembre su 101mila posti persi, 99mila erano di donne. Questa
crisi pandemica, diversamente da quelle industriali e finanziarie, colpisce i
settori a maggior occupazione femminile: commercio, ristorazione, turismo.
L’occupazione femminile (e giovanile) è una vera emergenza su cui
non si può pensare di intervenire con le solite ricette della decontribuzione e
degli sgravi acritici alle imprese.
Con questo sistema si perpetua il precariato, il lavoro povero, e
non si crea sviluppo vero e duraturo. C’è il rischio, già sperimentato, di immettere
soldi che daranno un’altra spinta alla giostra fino alla prossima crisi, perché
c’è sempre una crisi nel capitalismo.
Dobbiamo intervenire per rimuovere le cause che tengono le donne
lontane dal mondo del lavoro, e che ne determinano la precarietà e i bassi
salari.
Per anni ci hanno detto che le donne erano poco occupate, e occupate nei posti meno qualificati, perché non erano abbastanza istruite, non avevano il titolo di studio.
Lo svantaggio è stato recuperato da trent’anni; in Italia risale ai
primi anni novanta del 900 il sorpasso delle donne sugli uomini per numero di
diplomate e laureate. Non neghiamo i progressi, ma il divario occupazionale ed
il divario salariale è ancora pesante.
Da qualche tempo a questa parte sono partite le campagne per
spingere le ragazze verso le lauree STEM. Prima non avevamo l’istruzione,
ora non abbiamo l’istruzione giusta. Pare che ci manchi sempre
qualcosa, e trovo queste campagne promozionali anche vagamente irritanti.
Premesso che ad una figlia, come ad un figlio, direi studia quello
che più ti piace, quello per cui hai più inclinazione, ho difficoltà a credere
che sia questo il motivo per cui oggi le donne sono più precarie e meno pagate.
Senza risalire al quarto secolo con Ippazia, o a tutte le scienziate a cui fu
negato il riconoscimento del proprio lavoro, condannate all’invisibilità, oggi
è un fatto la fuga di cervelli, molti dei quali albergano in teste femminili. Ragazze,
prendetevi una bella laurea STEM e poi andate a lavorare all’estero. Piuttosto
aiutiamole a restare, queste ragazze, favorendo le pari opportunità nell’ambito
dell’istruzione e della ricerca (missione 4 del PNRR, 19.2 mld). Un esempio di intervento
di genere trasversale.
A distanza di un anno la pandemia ci ha fatto capire cosa conta veramente per avere una buona qualità della vita. La cura delle persone è importante sotto tutti gli aspetti: la salute fisica e mentale, l’assistenza ai bambini e agli anziani, la scuola, la socialità, il decoro urbano, persino l’accesso alla rete internet.
Nel memorandum 2021 dell’Eurogruppo c’è un capitolo dedicato
all’approccio femminista al Green Deal e al Care Deal Europeo, che mette al
centro la cosiddetta economia della cura. Vuol dire restituire dignità ai
lavori di cura perché contribuiscono al benessere delle persone. Sono settori
in cui è alta l’occupazione femminile, chiediamo per essi riconoscimento
sociale, giusto salario e pari diritti. Non è l’unico settore su cui concentrarci,
ma è cruciale per la riduzione del gap di genere. Investire in questi settori
vuol dire investire in qualità della vita.
Si avrebbe inoltre il doppio beneficio di liberare le donne dal
lavoro di cura, che come sappiamo è uno dei principali ostacoli sia
all’occupazione che alla carriera.
Cambiare il modello di sviluppo non può essere uno slogan, un refrain a cui non dare seguito. Per noi donne è una necessità. Il sistema oggi si basa sul welfare gratuito delle donne, questo welfare invece deve generare buona occupazione ed entrare nell’economia.
È ormai provato che una maggiore occupazione e coinvolgimento
delle donne nel mondo del lavoro fa bene all’economia nel suo complesso, ha un effetto
di crescita del PIL. Riferiamoci ancora al PIL, per ora, anche se è
tempo di cambiare questa misura e dovremmo iniziare a dirlo come sindacato.
Dovremmo aprire una vertenza su questo. Da anni il PIL è stato messo in
discussione perché non misura il benessere reale ma solo tutto ciò che viene
monetizzato, disgrazie comprese (definizione di Zygmund Bauman).
Disgrazie ne abbiamo avute abbastanza, mettiamoci al lavoro tutte e tutti perché combattere le disuguaglianze è uno dei pilastri della CGIL.
* Relazione al Coordinamento Donne FISAC
CGIL (Federazione italiana sindacati assicurazioni credito) del 3 marzo 2021
Nessun commento:
Posta un commento