Giuliana Gadola - Foto ANPI |
*Giuliana Gadola (Milano, gennaio 1915/luglio 2005), partigiana, scrittrice e poeta. Entra nella Resistenza insieme al marito Filippo Beltrami subito dopo l’8 settembre ‘43. Rimane ferita in uno scontro a fuoco con le forze tedesche di occupazione presso il lago d’Orta. Quando, nel febbraio del 1944, la formazione partigiana in cui milita Beltrami è accerchiata ed egli viene ucciso, Giuliana si rifugia in Val d’Aosta con i figli. Il giorno della Liberazione, 25 aprile ’45, sfila a Milano con la Divisione alpina intitolata al marito caduto. Nel dopoguerra entra a far parte della Presidenza onoraria dell’ANPI, svolgendo un’intensa e continuativa azione divulgativa sulla partecipazione delle donne alla Resistenza con articoli e recensioni su Anpi oggi, Patria indipendente e Resistenza unita Fra le sue pubblicazioni, Il Capitano, 1946 (Milano, Gentile). Nel novembre 1977 è una delle promotrici e organizzatrici del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza a Milano, dove tiene la relazione introduttiva, nella quale indaga, fra le altre cose, come e perché le donne partigiane non ricevettero subito il dovuto riconoscimento.
Quante erano? Chi erano? Perché c’erano?**
Occorre partire da questi interrogativi se si vuole seriamente affrontare quell’analisi della partecipazione femminile alla Resistenza che in più di trent’anni non è mai stata neppure tentata e che ci proponiamo finalmente oggi di affrontare, se pure in maniera sommaria e approssimata.
Le giovani che in questi anni con
tanto impeto si battono per la loro liberazione ne sentono il bisogno e hanno
ragione; certamente qui troveranno radici affondate nel tempo. Noi peraltro,
che quei momenti li abbiamo vissuti, sentiamo il dovere di offrir loro
strumenti per approfondire l’argomento e avvertiamo l’urgenza di far presto,
prima che i fatti siano dimenticati e le persone tutte scomparse.
Certo la risposta alle domande che
abbiamo formulato non è facile. Nessuno lo sa meglio di me, che da un paio
d’anni indago in questa direzione, leggendo libri vecchi, nuovi e articoli
d’ogni genere, analizzando documenti, scrivendo lettere nei più sperduti paesi
e soprattutto interrogando direttamente un gran numero di testimoni. Si tratta
di un lavoro lungo e paziente, ma in compenso assai gratificante: l’incontro
con tante donne, parecchie delle quali notevolissime, mi stimola e mi rivela di
giorno in giorno una realtà storica del tutto sconosciuta, di dimensioni
impensate e di straordinaria qualità.
La maggior difficoltà della ricerca sta nel fatto che le protagoniste di allora, anche quando sono ancora in vita, sono in gran parte sparite, risucchiate nella sfera del privato, dimenticate e dimentiche esse stesse dei loro giorni di gloria.
Anche questo sarebbe da analizzare:
come mai donne che avevano compiuto un passo così grande, superando d’un balzo
il loro ruolo tradizionale e secolare, donne che oggi dichiarano unanimi che
quello è stato il momento più alto e intenso della loro esistenza, hanno potuto
– per quanto profondamente mutate – rientrare al loro posto di prima, a fare le
cose di prima?
Naturalmente non è accaduto a tutte:
molte hanno continuato a da attività in associazioni e partiti; ma si tratta,
direi esclusivamente, di partiti della sinistra e si tratta in maggioranza di
donne che già nella Resistenza avevano avuto mansioni politiche e
organizzative. Per le altre, per la grande massa anonima, il costume ha
prevalso: la famiglia – nella quale, date le particolari difficoltà
dell’immediato dopoguerra, si sentivano più necessarie che mai – se le è
mangiate come una gigantesca piovra. E nessuno ci ha fatto caso.
Queste, ritrovarle oggi è spesso
impossibile.
La seconda grossa difficoltà della
ricerca sta nel fatto che mancano quasi del tutto i testi. Nei numerosi libri
di storia e di memorie che pure sono stati scritti, delle donne si parla
soltanto per rapidi cenni, quando occorre strappare una lacrima o un sorriso, o
quando è sentito il dovere di assolvere a un debito di riconoscenza. «Guarda,
io devo la vita a una donna», dice ogni tanto un capo o un qualunque partigiano.
«Non ricordo neppure come si chiamasse, ma sai cos’ha fatto?». E qui inizia un
racconto straordinario.
Questo non può destare meraviglia se
si considera il contesto socio-culturale del tempo, che non è neppur molto
cambiato. Quando si esaminano i fatti in una certa ottica, la censura è
inevitabile: è addirittura inconscia. La nostra società è maschile. La presenza
della donna in una guerra o in una lotta politica è accettata, addirittura
richiesta, magari anche glorificata, solo quando è indispensabile. Ma non
appena sembra si possa farne a meno, la si emargina persino dal ricordo.
Gli storici e i memorialisti della
guerra di liberazione sono quasi tutti uomini. I capi della Resistenza erano
uomini e questo allora pareva naturale
anche alle donne. Nessuno di loro si è accorto che l’esercito della liberazione
era un esercito composto in maggioranza
da donne.
S’intende che parlo della Resistenza
nel suo insieme: forze combattenti e forze d’appoggio. Ma perché non farlo, dal
momento che dovunque si era in prima
linea? E che si rischiava la fucilazione anche solo, come sta scritto in un
famoso editto repubblichino, a dare un bicchier d’acqua a un partigiano?
In appoggio alla mia tesi che nella
Resistenza ci fossero più donne che uomini, citerò Arrigo Boldrini, esperto di
questioni militari, oltre che famoso comandante della guerra di liberazione:
«Se in un esercito normale il rapporto tra combattenti e addetti ai servizi è
di uno a sette, nella guerra partigiana è di uno a quindici; intorno a ogni
patriota ci sono quindici persone che in grande maggioranza sono donne».[1] Di
fronte a tale affermazione, le cifre ufficiali (35mila partigiane combattenti,
20mila patriote, 70mila iscritte ai Gruppi di difesa della donna) diventano
risibili. Se facciamo un conto induttivo, sulla base fornitaci da Boldrini
arriveremmo almeno a due milioni di donne anziché a 125mila.
L’enorme divario fra le due cifre è
facilmente spiegabile se si pensa che solo una piccola minoranza di esse andò,
alla Liberazione, a farsi dare il riconoscimento ufficiale, mentre gli uomini
ci andarono tutti; ci andò anche, come qualche volta si è detto, qualcuno in
più. Del resto si capisce, a loro poteva anche giovare, non fosse che per
ragioni di servizio militare; ma le donne, per tornare a casa, di quel pezzo di
carta che se ne facevano? Senza contare che nella maggior parte di loro aveva
il sopravvento una invincibile modestia che le portava a ritenere di non aver
fatto “niente di speciale”.
Comunque non stiamo a disquisire sulle
cifre. Si tratta in ogni caso di un numero grandissimo di donne, certamente
molte volte superiore a quello degli uomini.
Come si spiega questo fenomeno?
Dobbiamo innanzitutto ricordare ciò
che il fascismo per le donne aveva significato. Esso aveva segnato il momento
della massima oppressione femminile, la negazione di ogni istanza
emancipatoria; anzi, addirittura un regresso se si considera che la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento avevano visto la nascita del
femminismo, il formarsi di leghe di donne socialiste e una diffusa, anche se
contrastata, presa di coscienza dei problemi femminili.
Il fatto è che dal fascismo le donne furono ancor più oppresse degli uomini.
Il regime che, malgrado certa demagogia del sansepolcrismo, si era sempre
dimostrato profondamente avverso a ogni spinta di emancipazione, colpì le donne
con gravi discriminazioni. Si potrebbero riempire pagine e pagine di citazioni
con le affermazioni di principio fasciste sulla “fisiologica” inferiorità della
donna, sulla sua insanabile “irrazionalità”, sulla sua natura “amorale” e via
dicendo – tanto assurde da raggiungere oggi come già allora il più puro
grottesco – ma ci limiteremo invece a citare alcuni fatti salienti.
Con regio decreto del 20 gennaio 1927
il fascismo emanò le prime leggi contro le donne, escludendole
dall’insegnamento delle lettere e della filosofia nei licei, poiché non le
riteneva idonee alla formazione ideologica della nuova gioventù littoria; in
seguito le escluse dalla possibilità di essere nominate presidi negli istituti
medi, mentre veniva raddoppiata per le studentesse la tassa d’iscrizione
all’università. Nel campo del lavoro la crisi economica del 1921 servì da
pretesto per dimezzare il salario alle operaie, che venivano così invogliate a
lasciare il posto agli uomini risolvendo in qualche misura il grave problema
della disoccupazione. Dalle amministrazioni statali e private le donne vennero
praticamente emarginate, poiché la loro presenza non doveva superare il 10% del
totale degli impiegati. Anche le lavoratrici agricole subirono decurtazioni:
per esempio le mondine nel 1931 si videro dimezzare il salario mentre al tempo
stesso si chiedeva loro di aumentare la produzione. Quelle stesse mondine nei
primi anni di guerra vennero addirittura chiamate al lavoro con cartolina precetto,
con lo stesso obbligo dei militari. Non fa meraviglia che siano state le prime
a scendere in lotta, organizzando scioperi massicci fin dal 1927, dal 1931 e
dal 1932 in Emilia e in Piemonte, e che siano state poi in primissima linea
nella Resistenza.
Del resto il concetto fascista delle
donne, anche a prescindere dalle punte estreme cui abbiamo accennato, e che
potevano non essere condivise da tutti, era in sé reazionario e offensivo,
poiché essa veniva considerata esclusivamente nella sua funzione riproduttrice,
in veste di madre – possibilmente di eroi e alla peggio di carne da cannone –
oppure di “riposo del guerriero”, cioè di sollazzo e sollievo per il gran
maschio fascista.
Malgrado questo, sia chiaro, masse di
donne furono vittime della propaganda fascista e paghe del ruolo che veniva
loro così riduttivamente assegnato. Nel 1937 le cosiddette “massaie rurali”
erano quasi 900mila, le donne iscritte ai Fasci 700mila, le “giovani fasciste”
250mila. Nel 1936 la quasi totalità delle donne offrì la fede alla patria, privandosi così, per la conquista del famoso
Impero, di quel poco d’oro che avevano e che si ritrovò poi – il fatto è
provato – nelle tasche dei gerarchi fascisti in fuga. Anche in questo caso ci
furono però delle resistenze: in Emilia solo circa la metà delle donne sposate
risultò aver consegnato la vera nuziale: anzi una donna[2] subì due
mesi di carcere per essersi rifiutata «con vivacissime parole» di dare la sua
fede, mentre un’altra [3] preferì
mandarla in Francia quale offerta per le Brigate internazionali che
combattevano in Spagna.
In compenso il fascismo dava premi
alle madri prolifiche, privilegi alle famiglie numerose e ubriacava il popolo
italiano di retorica. Con la guerra però lo stato d’animo cominciò a mutare: si
accentuò fra le proletarie quell’avversione al fascismo che non si era mai del
tutto spenta e che aveva dato luogo anche a manifestazioni e scioperi, mentre
dal canto loro le donne della piccola borghesia, che al fascismo erano state
largamente favorevoli, immesse improvvisamente nella produzione per sostituire
gli uomini al fronte, misurarono sulle loro spalle il peso dello sfruttamento e
lo addebitarono al regime.
Si giunse così, in un clima di estrema
miseria e di tensione, nonché di delusione da parte di chi in esso aveva
creduto, alla caduta del fascismo, seguita dalla confusione dei quarantacinque
giorni del governo Badoglio e dall’invitabile crollo dell’8 settembre 1943, che
vide con l’armistizio lo sfascio dell’esercito italiano battuto su tutti i
fronti.
Fu allora che le donne si mossero in
massa, assumendo un ruolo del quale si è finora sottovalutata la portata
storica. E subito operarono in quel modo “silenzioso, anonimo e collettivo” –
sono partole di Ada Gobetti – che ebbe poi a caratterizzare la partecipazione femminile
alla Resistenza.
Tutti quelli che hanno descritto
l’angoscia e lo smarrimento delle giornate che seguirono l’8 settembre, hanno
parlato delle donne che di casa in casa, spesso all’insaputa o contro il volere
dei loro uomini, ancor più spesso in loro assenza, diedero cibo, riparo e vesti
borghesi ai militari sbandati; di quelle che nelle stazioni sotto i vagoni in
partenza o fuori dalle caserme li incitarono a scappare, a nascondersi. Come,
più tardi, li incitarono e li aiutarono a prendere le armi. Questo avvenne da
Salerno in su, contemporaneamente in tutta la penisola, in un moto spontaneo e
corale che a me pare meraviglioso. Dai cascinali delle Marche, dalla Toscana e
dall’Emilia – dove le donne, rimaste sole con vecchi e bambini poiché gli uomini
validi erano in guerra, avevano spesso assunto la funzione di capo famiglia e
si erano abituate a svolgere lavori maschili come pure a prendere autonome
decisioni – su su fino al Piemonte e al Veneto, dove passavano i treni carichi
non solo di deportati politici nei loro vagoni piombati, ma anche di forza
lavoro italiana diretta in Germania.
Tutto questo risulta sia dagli scritti
e ricordi maschili cui ho fatto cenno che, con ben maggior peso e drammatica
concretezza, dalle testimonianze dirette di tante e tante protagoniste. Ce ne
sono di pubblicate nei libri di Rachele Farina, Annamaria Bruzzone e Bianca
Guidetti Serra[4],
nei discorsi di Gina Borellini, nelle varie opere sulla Resistenza femminile in
Emilia e altrove; e ce ne sono moltissime inedite. Vorrei avere spazio, ad
esempio, per riferire i racconti ascoltati dalla viva voce delle donne friulane
sui sabotaggi e sulle fughe dai treni.
Ma perché questi e non altri?
Sarebbero migliaia. La maggior parte delle donne che hanno poi svolto attività politica
o militare nella guerra di liberazione hanno cominciato da qui: dall’aiuto agli
sbandati subito dopo l’8 settembre. Alcune, in luoghi poi tagliati fuori dagli
avvenimenti, magari non hanno fatto altro. Ma non è poco.
Infatti, se le donne non avessero
agito così, la Resistenza non sarebbe stata quella che è stata, perché il
grosso delle formazioni di montagna fu costituito proprio da quegli sbandati,
organizzati in seguito da elementi antifascisti preesistenti, più consapevoli e
politicizzati. Si può tranquillamente affermare che la Resistenza è divenuta
fenomeno di massa appunto in quei giorni, grazie alla partecipazione prima
indiretta poi diretta di moltissime donne.
Ma, queste donne, chi erano? Operaie e
contadine, studentesse, impiegate, intellettuali, infermiere e levatrici di
paese, maestre, portiere, sarte, parrucchiere e casalinghe in grandissimo
numero: tutte unite a tessere quella invisibile tela di ragno che collegava
donna a donna e che funzionò tanto efficacemente fino alla fine.
Abbiamo detto che erano tante: notiamo
per inciso che in Italia la partecipazione delle donne ai movimenti clandestini
fu assai più numerosa che negli altri paesi europei. Come mai? Si può avanzare
l’ipotesi che, poiché qui le leggi fasciste si erano sommate a una arretratezza
culturale, a una borghesia più reazionaria e a una Chiesa più potente – che
nella sottomissione della donna trovavano ciascuna il suo tornaconto – proprio
il maggior peso dell’oppressione abbia provocato la maggiore ribellione. Si può
anche pensare – ipotesi affascinante – che in un ambiente più arcaico il mondo
delle donne, avendo conservato una sua separatezza, fosse perciò stesso più
pronto ad azioni di tipo collettivo e sotterraneo. Certamente le donne più che
altrove erano abituate a usare le doti che la società patriarcale aveva loro
attribuito e che avevano esercitato da sempre: intuito, astuzia, sentimenti
materni e protettivi, insieme a una certa tendenza alla complicità femminile e
all’abitudine a trasmettersi da donna a donna opinioni e atteggiamenti.
Queste sono supposizioni, ovviamente,
ma ci aiutano a capire perché le donne abbiano preso posizione con tanta
fermezza e chiarezza proprio quando gli uomini, nella massa, parevano più
disorientati. Esse avevano motivi loro
propri per agire.
È indubbio, a mio parere, che le donne
furono spinte all’azione non solo da ciò che sentivano in comune con gli
uomini, come la lotta di classe, l’odio al fascismo e l’insofferenza per
l’occupazione straniera, ma anche da motivazioni loro particolari: innanzi
tutto dall’orrore per la guerra, di cui erano più portate a misurare
l’inutilità e la miseria, e secondariamente da un profondo – e talvolta quasi
inconscio – impulso alla liberazione personale, al superamento di un ruolo
mortificante, alla riconquista di una dignità offesa.
Tutti questi motivi si trovano nella
stampa clandestina femminile, ad esempio, dove spesso affiorano attraverso lo
stile un po’ deamicisiano del tempo. Certo bisogna esaminarli con attenzione,
perché ci sono notevoli differenze da un manifestino all’altro, da un giornale
all’altro. Dal punto di vista dei problemi femminili i più avanzati erano i
fogli di Giustizia e Libertà: il
primo numero di “La nuova realtà” è
veramente esemplare in questo senso. Ma anche negli altri si parla di parità
salariale, di emancipazione, di diritto al voto, di libero accesso a tutte le
carriere, persino di divorzio.
La donna non è inferiore all’uomo è il
titolo di un articolo dell’ottobre 1944 su “La
compagna”, organo delle donne socialiste, che poi il 15 marzo del 1945
stamperà sul suo ultimo numero prima della liberazione e diffonderà sotto forma
di volantino un appello in cui si parla esplicitamente di «parità coll’uomo
nella famiglia, parità coll’uomo sul lavoro, parità coll’uomo nella vita sociale».
Su “Noi
donne”, che fu allora fondato dai Gruppi di difesa della donna e che ebbe
ben più larga diffusione in diverse edizioni regionali, il discorso era più
articolato, ma non più avanzato dal punto di vista femminile: si tendeva
infatti a sottolineare l’aiuto agli
uomini in lotta e la difesa della
donna piuttosto che non la sua diretta partecipazione al combattimento.
Ben diverso il tono dei giornali della
destra, da quelli democristiani a quelli liberali. Su uno di questi ultimi, ad
esempio, si legge la seguente considerazione sul «carattere fondamentale della
donna italiana», che «s’identifica con quanto nella donna è di più intimo e
sincero, nella funzione cioè della maternità e della famiglia». Le viene quindi
consigliato, se proprio deve occuparsi di politica, «di operare solo in quel
campo ristretto, e pur tanto vasto, che dalla natura è stato assegnato». Se si
considera che il Partito liberale clandestino era sinceramente antifascista e
non aveva fatto ancora la svolta in senso conservatore che ebbe poi a compiere
gradualmente dopo la Liberazione, è facile capire quale fosse la mentalità
corrente. E quanto fossero rivoluzionarie, anche per le masse femminili in
senso lato, le richieste avanzate dalle donne in lotta.
A proposito di donne in lotta, dobbiamo subito chiarire un equivoco sul quale si è
molto giocato. S’è detto che esse non sono quasi mai entrate nella Resistenza
di loro iniziativa, ma sempre al seguito di un uomo, marito o padre, fratello o
fidanzato. Per amore, insomma, più che per fede politica. È ovvio che spesso è
stato così: in tempi in cui le donne erano del tutto estranee alla vita
pubblica, come sarebbe potuto accadere diversamente? Gli uomini portavano le
idee in casa: le loro e quelle degli altri. Ma proprio qui qualche volta è
avvenuta la scelta: per le idee degli altri. E si sono viste mogli di fascisti
collaborare nascostamente e assai utilmente alla Resistenza. Sarà avvenuto
anche il contrario, non dico di no: ma mi risulta sia stato assai più raro,
mentre è assolutamente provato che le donne, mogli, madri, fidanzate o sorelle
dei combattenti antifascisti hanno in genere abbracciato la causa dei loro
uomini con tale entusiasmo da superarli qualche volta in coraggio e
abnegazione.
È facile capire perché, come s’è già
detto prima. Perché il fascismo, alle donne, non aveva proprio nulla da
offrire, mentre c’era da temere che gli restasse sempre ancora qualcosa da
togliere.
Non poche donne però arrivarono a
compiere la scelta per conto loro, come molte operaie delle fabbriche, che si
passavano parola l’una l’altra per creare quei nuclei antifascisti spontanei
che sorsero un po’ dappertutto e che poi furono inquadrati nei Gruppi di difesa
della donna. Lo stesso avvenne nelle campagne. Non parliamo soltanto
dell’Emilia, dove la tradizione era forte ed era possibile riferirsi a
strutture prefasciste come le Leghe, ma anche, per esempio, nel Friuli dove,
quando si cominciò a parlare dei Gruppi di difesa già s’erano formati dei
nuclei femminili abbastanza numerosi e attivi, in grado di dare valido aiuto ai
partigiani delle valli, come di organizzare azioni per conto proprio.
Numerose donne furono esse stesse a
trascinarsi dietro l’uomo o addirittura molti uomini. Farò due soli nomi:
quello famoso di Virgilia Tonelli, medaglia d’oro alla memoria, catturata dai
tedeschi alla fine del settembre 1944 e arsa viva nella tragica risiera di San
Saba, e quello, assai meno noto, di Lucia Sarzi, morta invece pochi anni fa.
Chi ha visto il film sui fratelli Cervi ricorderà la figura di un’attrice di una
compagnia filodrammatica girovaga che tiene i collegamenti con il centro e
convince a entrare nella cospirazione il maggiore dei Cervi e poi tanti altri;
non si tratta di un personaggio più o meno romanzato, come sembrerebbe, ma di
una donna vera, che fece quest’opera di propaganda in tutta l’Emilia. Leggendo
il libro di Paterlini sulle partigiane di Reggio[5] ci si
stupisce nel constatare quante di esse dichiarino: «A convincermi a entrare è
stata la Lucia, detta anche Olga, o Margherita, sai quella che recitava nel
teatro ambulante di suo padre e girava per i paesi…».
Un altro luogo comune da sfatare è
quello di chi afferma che la scelta delle donne non è stata una precisa scelta
politica, tant’è vero che la loro partecipazione in uno o in un altro gruppo era
generalmente casuale, determinata dalle circostanze. È vero, ma è altrettanto
vero che ciò avveniva anche per la maggior parte degli uomini, soprattutto
giovani. Uno aderiva alla formazione che aderiva nella sua zona, a quella di
cui veniva a conoscenza per caso, di cui facevano parte amici o parenti.
Ricordiamoci che tutto avveniva in modo clandestino e molto confuso.
Soprattutto all’inizio c’erano comunisti nelle brigate “autonome” come c’erano
apolitici nelle brigate Garibaldi, per non parlare delle brigate di Giustizia e Libertà, che ebbero grande
peso e importanza soprattutto in Piemonte, nelle quali c’era di tutto.
Per le donne, come per tanti uomini
d’allora – e non solo giovani – la maturazione politica avvenne durante la Resistenza e la scelta di un
partito spesso anche dopo.
È stata comunque, subito, una precisa
scelta di campo. Una scelta volontaria perché, non dimentichiamolo, le
donne avrebbero sempre potuto – a differenza degli uomini, soggetti a obblighi
militari – starsene tranquillamente a casa. Ed è stata una scelta di rottura, perché comportava a livello personale una
vera rivoluzione, che stravolgeva valori e consuetudini e che, oltre al resto,
era spesso mal giudicata. Quante ragazze sono state considerate sgualdrine
perché si erano «messe coi partigiani»! I genitori, le famiglie protestavano,
anche quando fasciste non erano. C’è in proposito un episodio divertente in un
recente libro della Cesani[6], dove
l’autrice racconta che, appena rientrata in famiglia dopo la Liberazione, una
sera in cui voleva andare la cinematografo con le amiche, suo padre non solo
glielo proibì, ma le diede pure due ceffoni dichiarando perentoriamente: «Tu di
qui la sera adesso non esci più, capito?».
Qualcuno arrivò ad accusare le donne
di voler andare in montagna per soddisfare, fuori dalla sorveglianza della
famiglia, le loro “più basse voglie”. Ma è pensabile che per queste voglie
incontenibili le ragazze potessero affrontare tante fatiche e soprattutto
rischiare la vita, quando l’Italia era piena di giovanotti in camicia nera che
sarebbero stati ben felici di soddisfarle, magari anche regalando loro
preziosissime cose come zucchero e caffè, farina o carbone?
A determinare questa scelta, oltre
alle motivazioni di classe, ce ne sono state altre e diverse, di tipo morale o
sentimentale. Per dirne una, il delitto fascista che suscitò la maggiore
indignazione fra le donne fu la persecuzione contro gli ebrei, tanto che molte
iniziarono la loro attività clandestina proprio aiutando gli ebrei a fuggire o
a restare nascosti.
Certo il movente di base, il più
generalmente sentito in maniera anche elementare, era la lotta contro la guerra
e la miseria, la vera fame che ne
derivava: non per nulla ebbe tanto successo lo slogan «guerra alla guerra!».
Era pure diffuso fra le donne un certo
patriottismo di tipo risorgimentale: e non pensiamo solo alle maestre di scuola
o a certi ambienti della piccola borghesia, ma anche a intere popolazioni.
Nelle zone montane del Veneto l’odio al tedesco fu una molla che fece scattare
moltissime valligiane, che poi costituirono un aiuto prezioso.
Ricordo il racconto di una donna della
Carnia[7] che alla
domanda: «Ma tu perché ti ci sei messa?», mi rispose decisa: «A mi i tedeschi no me piaseva. Era una cosa fortissima di
dentro. I partigiani sì, che bravi ragassi,
taliani, contra quei maledeti. Io per loro lavorava
volentieri. Ero contenta. Ero così contenta in quel tempo che cantavo sempre.
Andando con la gerla sulle spalle a portarci la roba cantavo e cantavo. E loro i
me sentiva e diseva: ecco la Bionda.
Una festa quando rivavo». Questa
donna si faceva ogni giorno più di venti chilometri a piedi portando carichi
fino a ottanta chili di armi, viveri, medicinali, dal suo paese di montagna
fino a Tolmezzo, guadando scalza il fiume anche d’inverno per evitare i punti
custoditi dai tedeschi o dalla milizia fascista. «E tuo marito?», le ho
chiesto. «Era in Germania a lavorare». «Figli non ne avevi?». «Tre bambine, sì,
pore creature. Fin le coperte dal
letto ci ho levato, per darle ai partigiani che certe sere si fermavano a
dormire a casa mia. Poi, quando son venuti a arrestarmi ho dovuto lasciarle lì
sulla piazza che piangevano e se le son prese i parenti».
Questa donna è solo una. L’ho citata
perché può essere esemplare di una certa ottica, e anche di altre cose che
riguardano tutte: dell’entusiasmo con cui le donne partecipavano, per dirne
una. «Ero così contenta in quel tempo, che cantavo e cantavo». Si può dirlo
meglio?
Molte erano mosse non dall’odio, ma
dalla pietà, dalla solidarietà umana, dal desiderio di aiutare quei ragazzi
braccati, sperando magari che altre facessero altrettanto con i loro.
Motivazioni di classe, dunque,
motivazioni pacifiste, motivazioni umanitarie, motivazioni religiose o
patriottiche. Ma soprattutto, più o meno consapevoli, assieme a tutte le altre
come un comune sottofondo, motivazioni di
libertà.
Questo era ciò che univa tutte le
donne al di là degli altri obiettivi di lotta e questo spiega pure che fossero
meno politicamente motivate, in senso
ristretto e settario, e che potessero effettivamente passare da un gruppo a un
altro e soprattutto lavorare
unitariamente meglio degli uomini. Avevano un obiettivo comune: quello
della loro liberazione, quello di una vita migliore e diversa anche in quanto
donne. E non è da credere che anche le più semplici non lo sentissero. Ne
citerò una per tutte, di famiglia contadina, che mi ha raccontato come, ancora
bambina, quando nei giorni di mercato scendeva con tutta la famiglia in città,
la indignasse vedere il padre e i fratelli che andavano a mangiare all’osteria,
mentre lei e la madre, insieme alle altre donne, tutte chiuse nei loro scialli
neri, li aspettavano sedute sui gradini della chiesa sbocconcellando un pezzo
di pane.
Le donne, a mio parere, hanno partecipato
con tanto entusiasmo alla Resistenza perché, più o meno coscientemente, erano
tutte direttamente motivate sul piano personale.
C’erano tra di loro ragazze assetate
di libertà e di giustizia, le inquiete e le curiose, le amanti dell’avventura,
le ribelli, quelle cioè che approfittavano dell’occasione per uscire dalla
famiglia e dal ruolo femminile come allora si configurava. C’erano quelle che
volevano, per una volta, vivere da uomini.
Dobbiamo tener presente che in quel tempo l’ambizione di ogni donna evoluta non
era tanto quella di realizzare pienamente se stessa, quanto quella di essere
simile a un uomo. Derivava anche da questo, piuttosto che da violenza, il
desiderio espresso da molte di voler usare le armi.
Questo lo ricordo personalmente: quando
in montagna m’insegnarono a sparare, io dapprima m’ero rifiutata, dichiarando
ch’ero pronta a far di tutto fuorché uccidere – c’era in me come in moltissime
altre un rifiuto profondo all’idea di ammazzare un essere umano, magari
guardandolo in faccia, a pochi metri di distanza – poi m’ero lasciata
convincere pensando a casi di necessità o di difesa personale: avevo tre figli
e per loro mi sembrava di dover ad ogni costo sopravvivere. Ebbene, quando ebbi
fatto centro col moschetto e girato il mitra in qualche sventagliata, sentii
una certa fierezza: «Sono come un uomo» - pensai - «non c’è nessuna
differenza».
In realtà, oltre a usare le armi, le
donne fecero di tutto. E lo fecero quasi sempre con un coraggio, una forza
d’animo straordinaria. Gli uomini stessi sono concordi nell’affermare che le
donne erano generalmente più coraggiose; che a loro si potevano affidare con
maggior fiducia mansioni pericolose e delicate. Sarebbe interessante analizzare
psicologicamente le cause di questo coraggio, di questa ostinata sopportazione
di qualunque rischio o fatica. Ci porterebbe ora troppo lontano, ma sarà un
discorso da fare. Certo è che quando una donna si mette sul piano dell’uomo
vuole (o deve?) dimostrargli che vale quanto lui e quindi tende ad
oltrepassarlo.
Cero superare l’orrore della violenza
per le donne non è stato facile e ne ho avuto spesso la prova durante le
interviste, perché quelle che hanno dovuto esercitarla rifiutano il ricordo,
tendono a scivolare dal discorso, qualche volta hanno davvero dimenticato. E
alcune dopo il racconto entrano in crisi, tremano, bisogna rianimarle con un
bicchierino. Oppure mi telefonano: «Lo sai che dopo aver parlato con te non ho
dormito per tante notti?».
Prima di terminare, torniamo ai dati e
alle cifre ufficiali. Ci furono tra le resistenti 2.750 fucilate o cadute in
combattimento, 3mila deportate nei campi di sterminio, 4.500 arrestate e
torturate. A questo proposito bisogna osservare che le donne venivano torturate
ancor più spesso degli uomini, sia perché la cosa dava maggior soddisfazione al
sadismo dei carnefici, sia perché era risaputo che per le mansioni che svolgevano
erano sempre in possesso di informazioni preziose: gli ufficiali di
collegamento, cioè le staffette, erano anche per motivi pratici solo donne. E a
loro era riservato, oltre agli altri, un tipo particolare di tortura, la
violenza carnale, che i fascisti esercitavano di regola sulle arrestate. Anche
questo le vittime non amano raccontarlo: alcune non lo hanno detto mai.
C’è un’altra osservazione da fare su
queste cifre: percentualmente le donne sono morte meno degli uomini. Non penso
certo che compissero azioni meno pericolose, anzi. Se mai, la differenza è da
attribuire al fatto che solo poche partecipavano alle grandi battaglie dei
rastrellamenti, perché poche facevano parte della truppa armata; inoltre in
quei casi nascondersi e sfuggire a loro era più facile, se pure alcune si sono
rifiutate di farlo e hanno preferito morire coi compagni. Ma dai racconti mi
sembra anche di capire che nelle azioni individuali fossero più astute degli
uomini, più fredde, più decise: come anche più abili nel far la commedia in
caso di arresto. È raro che perdessero la testa.
Di queste donne, 18 furono decorate di
medaglia d’oro (solo quattro viventi), numerose di medaglia d’argento o di
bronzo o di croce di guerra; alcune ricevettero su belle pergamene attestati
dagli alleati per le importanti missioni compiute attraverso le linee. A
leggere le motivazioni delle medaglie, innanzi tutto vengono le lacrime agli
occhi, perché si tratta sempre di episodi del più raro eroismo; ma se poi si
rileggono, vien voglia di farci sopra uno studio perché, a saper vedere tra le
righe, in esse c’è tutta la storia e la sociologia della Resistenza femminile.
A una terza lettura poi, superate la commozione e l’interesse, vien voglia di
sorridere, perché la terminologia usata è sintomatica dell’ottica maschile di
chi le ha scritte: il coraggio, così come la fermezza, sono sempre “virili”;
l’intelligenza e lo spirito d’iniziativa vengono lodati quasi con meraviglia,
mentre si sottolineano ogni volta che è possibile lo spirito di sacrificio, la
dedizione ai compagni, la tenerezza degli affetti e via dicendo.
A molte donne, sul certificato di
appartenenza alle forze di liberazione, oltre alla qualifica di partigiana fu
attribuito un grado militare corrispondente alle mansioni svolte: abbiamo così
sergenti e caporali, tenenti, capitani e maggiori dell’esercito italiano. Più
in su non mi risulta che si sia andati. Ma qui ci sarebbe un altro discorso da
aprire: con che criterio venivano attribuiti questi gradi? C’è nel libro di
Bruzzone e Farina l’episodio di una donna [8] che era
stata dal dicembre 1944 in poi responsabile organizzativa del PCI e dei Gruppi
di Difesa delle Donne a Torino e negli ultimi mesi aveva anche avuto il comando
militare di un settore: lei stessa aveva collocato un giovane al comando di un
rione. Ebbene, senza sicuramente neppure farci caso, costui dopo la Liberazione
le diede il riconoscimento come soldato semplice della sua formazione.
E allora? È vero che nella Resistenza
le donne non sono mai arrivate agli alti gradi, però nei comandi c’erano e
come. Ho visto, per esempio, il “ruolino” originale del Comando superiore zona
Piave, che aveva giurisdizione sulle province di Belluno e Treviso: dei 76
componenti il comando, 33 erano donne. Risulta anche, dai dati ufficiali, che
512 donne sono state commissari politici di formazione; ora, il ruolo di
commissario politico, spesso equiparato a quello di vicecomandante, era
importantissimo. Questa assegnazione di gradi mi sembra quindi molto imprecisa
e riduttiva.
Ma non si tratta di cose importanti e
le donne non ci hanno mai dato peso: certo non è per questo che combattevano.
Importante è che conservino della loro partecipazione un ricordo così
esaltante, perché dimostra che è accaduto a loro anche qualcosa in più di
quello che è accaduto agli uomini che hanno partecipato alla Resistenza e che
pure ne parlano tutti come di un periodo indimenticabile di fraternità, di
solidarietà, di speranza, di vita assolutamente pura, libera e intensa. Le
donne, oltre ad aver gustato questo sapore che la vita prende quando è schietta
e pulita come solo può esserlo di fronte alla morte, si sono ubriacate del piacere
di conoscere un altro ruolo, di entrare nel pubblico, nel sociale, nel
collettivo, e finalmente di partecipare
alla storia in prima persona, come soggetti anziché come oggetti.
Importante è che nella Resistenza siano state così numerose; che abbiano avanzato un certo tipo di protesta e di proposta; che abbiano espresso un potenziale rivoluzionario tanto alto, che non si può non domandarsi come mai non sia stato utilizzato negli anni successivi. Ma questa è materia di un altro discorso.
** Sta in: L’altra
metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 104 (atti del
convegno L’Altra Metà della Resistenza,
un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, Milano,
novembre 1977)
[1] Vedi Le donne ravennati nell’antifascismo e nella
Resistenza, a cura di F. Casadio e I. Fenati, Ed. del Girasole, 1977,
pag.81.
[2] Elvira
Scarani, bracciante emiliana
[3] Giovanna
Zaccherini, bolognese
[4] A.M.
Bruzzone e R. Farina, La Resistenza
taciuta, Milano, La Pietra, 1976; B. Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977
[5] A.
Paterlini, Partigiane e patriote nella
provincia di Reggio Emilia, Roma, Libreria Rinascita, 1977
[6] A.
Cesani, Senti Ceda, Milano, La
Pietra1977
[7] Firma
Valle in Del Moro, poi deportata in Germania
[8] Nella
Benissone Costa (Vittoria)
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