Joyce Lussu - foto sardegnareporter.it |
Joyce Salvadori Lussu (Firenze 1912 - Roma 1998) partigiana, scrittrice, traduttrice, poeta. Entrò nella Resistenza militando nei gruppi di “Giustizia e Libertà”, accanto al marito Emilio Lussu, in Francia e in Italia. Decorata con medaglia d’argento al valor militare, è stata grande narratrice (Il suo romanzo Fronti e frontiere è tuttora uno dei testi più letti della narrativa resistenziale), autrice di diari, saggi, raccolte di poesie. Negli anni ’60 si dedicò a un’intensa campagna di sostegno ai movimenti di liberazione anticoloniale dell’Africa e del Medio Oriente, traducendo e divulgando l’opera di poeti come Nazim Hikmet e Agostinho Neto.
Attenta osservatrice e fautrice delle lotte studentesche e femminili, è stata fino all’ultimo testimone ed energica divulgatrice dei valori resistenziali fra le generazioni più giovani. Nel 1977 partecipò al convegno nazionale L’altra metà della Resistenza, promosso a Milano dall’ANPI e altre associazioni partigiane, avvio di una lettura frmminile corale della guerra di Liberazione per voce delle stesse protagoniste..
«Per le donne la scelta
della Resistenza era già una conquista e un’affermazione di libertà personale…»*
La partecipazione della società rurale alla Resistenza si
può definire “di massa”, perché ogni punto d’appoggio coinvolgeva un intero aggregato famigliare e non bastava un membro
solo a creare un collegamento resistenziale. L’intera famiglia contadina
collaborava come nucleo e come base alla guerra di liberazione. E si dice
“guerra” giustamente, essendo in quel modo tutti e ognuno in prima linea.
Poteva accadere che un partigiano nascosto o un prigioniero
di guerra ospitato da una famiglia contadina venisse scoperto e arrestato: lui
veniva forse riportato in prigione o in campo di concentramento, ma era la
famiglia che pagava per prima e veniva fucilata sul posto: tutti, uomini,
donne, bambini, vecchi. Spesso non si salvava nessuno.
Quando una qualsiasi famiglia veniva coinvolta nella
Resistenza, per situazioni particolari o per scelta, immediatamente qualcosa
esplodeva al suo interno: non reggevano
più i vecchi rapporti tradizionali e la sua struttura patriarcale. Al
contatto operativo con una lotta popolare che esigeva sodalizio, fiducia,
contatti, segretezza, non era certo possibile imporre alle ragazze di ritirarsi
alle sette di sera, o alla moglie di cucire e cucinare in silenzio, in un
angolo della casa. Ognuno partecipava collettivamente alle nuove esigenze e
quasi automaticamente si stabiliva un assetto democratico all’interno del
nucleo famigliare allargato. Questo affrancava le donne in una sorta di prima
liberazione, creando nuovi interessi e nuovi rapporti tra i membri della
famiglia.
Quando poi le donne raggiungevano le formazioni partigiane, la loro scelta era già una conquista e un’affermazione di libertà personale.
È vero che talvolta anche nelle formazioni accadeva che le donne venissero adibite a
delle funzioni subalterne, ricreando la gerarchia famigliare e sociale da
cui erano appena uscite. Personalmente ricordo che, durante i miei collegamenti
tra vari gruppi partigiani operanti in Italia, più di una volta le compagne si
lamentarono con me dicendo: «Mi tocca lavare i panni del comandante…». E io
chiedevo: «Ma tu gliel’hai detto al comandante? Ne avete parlato in assemblea,
ci avete provato?». In generale, erano state zitte.
In realtà, quando si poneva questa questione nelle riunioni
politiche, di fronte a dei compagni già maturati da una forte tensione morale e
politica, com’era quella della lotta armata, ben raramente accadeva di trovarli insensibili al problema della parità.
Io mi sento di dovere spezzare una lancia in favore dei compagni di allora, che
aderirono prontamente alla discussione e alla risoluzione di queste
controversie, sorte molto spesso per una mancata focalizzazione del problema.
Naturalmente quando nessuna sollevava questa questione, le
cose proseguivano nel loro andazzo tradizionale, per inerzia, per consuetudine
e soprattutto per mancanza di una visione critica dell’assetto sociale e
famigliare da sempre esistito e mai contestato. Ma dovunque noi, come donne, abbiamo parlato impostando sia
teoricamente che concretamente la questione, i risultati si sono toccati con
mano.
Un movimento storico si qualifica sempre dalle sue punte più
avanzate, non già da quelle di retroguardia: e senza dubbio c’era ormai un fortissimo
filone storico che stimolava il dibattito all’interno della Resistenza, non
solamente su problemi contingenti, ma sugli aspetti sociali più svariati e
anche su quelli tabù.
Lo specifico
femminile, i rapporti della donna col marito e con i figli, il suo ruolo
all’interno della famiglia ed altri quesiti scottanti emersi in questi anni,
vennero allora per la prima volta esaminati e in seguito ripetutamente discussi
nelle riunioni politiche serali: c’era un ascolto attentissimo e una
sensibilità diffusa su questi argomenti, mentre le idee e la coscienza
crescevano e uomini e donne maturavano nella dignità della lotta comune.
E allora viene da
chiedersi perché, dopo la grande insurrezione del 25 aprile, che ha visto
la donna per la prima volta in una posizione di parità e di prestigio, le sia
nuovamente calata addosso questa pesante cappa di conformismo e di repressione.
E perché tutte le
antiche e logore forze tradizionali siano così prontamente tornate a galla,
ricacciando al fondo gli strati più depressi della società, le donne per prime,
richiamandole ai santi valori del sacrificio. Perché, dopo le esaltanti
giornate della Liberazione, sia ritornata, quasi
di soppiatto, la restaurazione.
*Sta in: L’altra metà della resistenza, ed.
Mazzotta, Milano 1978, pag. 111 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via
della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977)
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