Carla Ravaioli a Gallipoli nel 1998 foto C.Gerardi |
Quel nesso specifico tra le ragioni delle donne e la cultura della pace*
Carla Ravaioli (Rimini
1923/ Roma 2014) giornalista, saggista, senatrice, nella sua lunga proficua
vita attiva ha intrecciato impegno politico e scrittura, privilegiando le
tematiche del femminismo con quelle dell’economia, del pacifismo e dell’ambientalismo.
Riportiamo il suo intervento al convegno nazionale Nella Resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova
cultura della pace (Milano, 16-19 maggio 1984), organizzato dalle donne
dell’ANPI e altre associazione partigiane, in cui riflette sulle ragioni che
portano il movimento femminista a compiere la «scelta di campo contro la guerra».
Da quando il pacifismo è nato e rapidamente cresciuto, fino a divenire richiamo di folle enormi, e a scuotere le capitali del mondo con manifestazioni gigantesche, le donne, specie le più giovani, ne sono state parte cospicua e fortemente attiva. Da subito però la partecipazione diretta è parsa non esaurire le possibilità d’impegno delle donne per la pace.
Da subito tra le donne si è avvertito il bisogno di
riflettere sul tema della pace “anche come donne”, di confrontarsi con la
prospettiva della pace – una prospettiva ancora tutta da definire, da
costruire, da inventare – muovendo dalla propria specificità di donne. Un
bisogno che però pose subito ineludibili e intriganti domande: perché “donne e
pace”? Esiste uno specifico che imponga alle donne una scelta di campo in
favore della pace, o quanto meno le orienti in tal senso? È possibile
individuare un nesso tra il discorso elaborato dal movimento delle donne e le
ragioni, la speranza, l’utopia, da cui nasce il movimento per la pace?
Sono domande a cui finora non s’è risposto con chiarezza,
anche perché, dove si affrontano temi connessi con la specificità femminile, da
molte parti si tende ad assumere come referente imprescindibile la specificità
corporea della donna, e a dare risposte che a prima vista appaiono
ineccepibili, in quanto discese dall’evidenza immediata, addirittura
dall’ovvietà del “naturale”. E infatti, anche in materia di “donne e pace” da
molte parti, e nell’ambito stesso del movimento femminista, si sostiene che sia
la stessa biologia a collocare la donna contro la guerra; che la donna, in
quanto dotata di un corpo destinato a riprodurre la vita e fondamentalmente
strutturato per questa funzione, è – non può non essere- totalmente aliena da
quell’evento di distruzione e morte che è la guerra.
Ma non è una risposta che ci può soddisfare. Come sappiamo, non è la natura ciò che precipuamente definisce la specie umana e la distingue da tutte le altre, bensì la cultura; e gli stessi dati biologici ineliminabili, connessi alla nostra corporeità, alla nostra insuperabile “animalità”, lungo la storia sono stati oggetto di una complessa elaborazione culturale, che rende estremamente mediato, cioè pochissimo “naturale”, il nostro modo di viverli. E del resto basta percorrere rapidamente la memoria del nostro passato, o gettare un rapido sguardo sul nostro presente, per convincerci che, nonostante il loro destino biologico di produttrici di vita, le donne hanno sempre condiviso nei confronti di pace e guerra le posizioni dei loro paesi: posizioni puntualmente assunte e imposte dai maschi.
La storia di ogni tempo è piena infatti di madri che
eroicamente trattengono le lacrime e dominano lo strazio dei loro cuori nel
salutare i figli in partenza per il fronte; di madri che orgogliosamente
offrono il petto alle decorazioni attribuite alla memoria dei figli caduti in
guerra; di madri che dichiarano il loro supremo vanto di donare figli alla
patria; di madri che cuciono bandiere e apprestano festeggiamenti per i figli
reduci da una vittoria costata comunque distruzione e morte.
Allo stesso modo la nostra vita quotidiana è piena di madri
che senza esitazione regalano ai loro maschietti armi-giocattolo,
implicitamente dando per scontato che la guerra, o quantomeno l’addestramento
alla sua eventualità, sia parte imprescindibile del loro futuro di adulti. La
nostra realtà è piena di madri terrorizzate all’idea di crescere un figlio
imbelle, che lo incitano a controllare la propria emotività, magari ricorrendo
alla classica esortazione: «Via, non piangere, fa’ il bravo soldatino!». Il
nostro mondo è pieno di donne che esigono dal loro uomo di essere “un vero
uomo”, con ciò riferendosi a quel complesso di connotazioni aggressive,
tradizionalmente ritenute tipiche della virilità, di cui il soldato – e la sua
disponibilità a uccidere come a morire – rappresenta l’espressione estrema e
più essenziale.
E tutto ciò accade ancora, nonostante che il femminismo,
specie nei primi anni della sua esplosione, abbia messo in luce questa funzione
conservatrice che la donna è tenuta a svolgere nel suo ruolo educativo; e
nonostante che ciò in qualche misura abbia già modificato i comportamenti delle
madri. Né la cosa ci può stupire. Le donne si sono infatti trovate a
condividere, sia pure da una condizione marginale e subalterna, una realtà
antropologica nella quale da millenni la guerra non solo ha piena legittimità,
ma svolge una funzione politica primaria, al punto da essere data non di rado
come un “valore” in assoluto. E d’altronde l’assimilazione delle donne alla
cultura maschile dominante, addirittura la loro complicità con la «legge del
padre», con la stessa cultura che le opprime, è ciò che l’autocoscienza è
andata scoprendo, e che ha caratterizzato il femminismo sulla base di una
consapevolezza del tutto nuova.
E tuttavia quel bisogno che le donne hanno avvertito di
confrontarsi «come donne» con la prospettiva della pace, di tentar di dire una
parola loro, forse non è vano né immotivato. Forse esiste, e può essere messo a
fuoco, uno «specifico femminile», o piuttosto femminista, che non può mancare
di indurre le donne a una precisa scelta e a un preciso impegno a favore della
pace. Anzi a me pare che questa scelta e questo impegno si pongano come momenti
qualificanti e imprescindibili del discorso femminista assunto nella sua
interezza e svolto in tutte le sue conseguenze possibili.
A me pare che di fatto le donne abbiano compiuto una scelta
di campo contro la guerra, nel momento stesso in cui hanno spinto lo sguardo al
di là dell’emancipazione, verso la nuova frontiera della liberazione; cioè nel
momento in cui hanno rifiutato l’integrazione senza riserve nella «società dei
maschi», per muovere alla ricerca di una loro identità non più mutuata dal
modello maschile, anzi capace di opporvisi e di metterlo in crisi.
Ciò che infatti le donne condannavano nella «società dei
maschi» non era più soltanto la propria storica condizione di inferiorità, la
loro privazione di diritti elementari, la loro identificazione con la funzione
familiare, la loro esclusione dal potere; né era soltanto la violenza alla
quale scoprivano di essere da sempre soggette nel rapporto sessuale,, la loro
cancellazione come portatrici di una sessualità propria, la loro accettazione
coatta di un paradigma sessuale esclusivamente maschile.
Ciò che le donne condannavano, e a cui opponevano una sorta
di irriducibile estraneità, era un assetto sociale che rimuove dalla propria
dimensione pubblica, e accantona nell’ambito del privato, tutti i valori
attinenti alla sfera della riproduzione, relativi al corpo, al sesso, agli
affetti, ai rapporti personali, al vivere quotidiano, cioè a dire ai momenti
più ricchi e intensi della vita di ognuno; mentre fonda la propria struttura e
la propria razionalità sui valori tipici della sfera produttiva, come la forza,
la competitività, l’audacia, la spregiudicatezza, eccetera, e conseguentemente
impone modelli finalizzati al successo, all’acquisto, al possesso,
all’accumulo, al consumo: valori e modelli tutti di segno aggressivo, e non a
caso storicamente identificati col maschile.
Dalla loro storia separata, dalla loro antica e forzata
estraneità ai valori dominanti, e dalla loro altrettanto antica consuetudine
con valori “altri”, le donne si sono trovate dunque a condannare e rifiutare
una società permeata di violenza e dalla violenza determinata nel proprio
agire: una società insomma che contiene la guerra nel proprio grembo, che sempre
contempla la guerra come possibile esito di ogni conflitto, di cui la guerra
non è che il gesto estremo, la manifestazione più clamorosamente e orrendamente
catastrofica, solo nella quantità ma non nella qualità diversa da ogni altra.
Per questo dunque, per ragioni che procedono dal loro discorso specifico di
donne, nella loro nuova consapevolezza, non possono non essere parte del
movimento per la pace.
Ma forse le donne possono essere anche qualcosa di più. Da
qualche tempo la riflessione pacifista è orientata ad allargare il proprio
orizzonte d’intervento, al di là della limitazione degli armamenti, della
prevenzione della guerra e dell’olocausto nucleare, per la promozione di una
cultura della pace: per il tentativo cioè di individuare e sconfiggere le radici
del fenomeno-guerra nella più complessa e varia fenomenologia sociale della
violenza. Ma l’avvio di un’operazione del genere – se si pensa quale enorme
spazio abbia occupato la guerra nel ruolo sociale del maschio e nella stessa
simbologia del potere, e quale cupo fascino guerra e armi abbiano sempre
esercitato sui maschi, ponendosi esplicitamente come metafore di potenza
sessuale – non può non significare una svalutazione del “maschile” e una
rivalutazione del “femminile”; per risolversi dunque in un mutamento per il
quale la parola delle donne non può non costituire il più felice contributo.
* Sta in: MEMORIA PAURA VOLONTÀ SPERANZA. Nella Resistenza
e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace (Atti
del convegno, Milano
16-19 maggio 1984), a cura di ANPI – FIVL – FIAP – ANED.
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