17/04/21

VERSO IL 25 APRILE / L'ALTRA METÀ DELLA RESISTENZA / CARLA RAVAIOLI

Carla Ravaioli a Gallipoli nel 1998 foto C.Gerardi

Quel nesso specifico tra le ragioni delle donne e la cultura della pace*

Carla Ravaioli (Rimini 1923/ Roma 2014) giornalista, saggista, senatrice, nella sua lunga proficua vita attiva ha intrecciato impegno politico e scrittura, privilegiando le tematiche del femminismo con quelle dell’economia, del pacifismo e dell’ambientalismo. Riportiamo il suo intervento al convegno nazionale Nella Resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace (Milano, 16-19 maggio 1984), organizzato dalle donne dell’ANPI e altre associazione partigiane, in cui riflette sulle ragioni che portano il movimento femminista a compiere la «scelta di campo contro la guerra».


Da quando il pacifismo è nato e rapidamente cresciuto, fino a divenire richiamo di folle enormi, e a scuotere le capitali del mondo con manifestazioni gigantesche, le donne, specie le più giovani, ne sono state parte cospicua e fortemente attiva. Da subito però la partecipazione diretta è parsa non esaurire le possibilità d’impegno delle donne per la pace.

Da subito tra le donne si è avvertito il bisogno di riflettere sul tema della pace “anche come donne”, di confrontarsi con la prospettiva della pace – una prospettiva ancora tutta da definire, da costruire, da inventare – muovendo dalla propria specificità di donne. Un bisogno che però pose subito ineludibili e intriganti domande: perché “donne e pace”? Esiste uno specifico che imponga alle donne una scelta di campo in favore della pace, o quanto meno le orienti in tal senso? È possibile individuare un nesso tra il discorso elaborato dal movimento delle donne e le ragioni, la speranza, l’utopia, da cui nasce il movimento per la pace?

Sono domande a cui finora non s’è risposto con chiarezza, anche perché, dove si affrontano temi connessi con la specificità femminile, da molte parti si tende ad assumere come referente imprescindibile la specificità corporea della donna, e a dare risposte che a prima vista appaiono ineccepibili, in quanto discese dall’evidenza immediata, addirittura dall’ovvietà del “naturale”. E infatti, anche in materia di “donne e pace” da molte parti, e nell’ambito stesso del movimento femminista, si sostiene che sia la stessa biologia a collocare la donna contro la guerra; che la donna, in quanto dotata di un corpo destinato a riprodurre la vita e fondamentalmente strutturato per questa funzione, è – non può non essere- totalmente aliena da quell’evento di distruzione e morte che è la guerra.


Ma non è una risposta che ci può soddisfare.
Come sappiamo, non è la natura ciò che precipuamente definisce la specie umana e la distingue da tutte le altre, bensì la cultura; e gli stessi dati biologici ineliminabili, connessi alla nostra corporeità, alla nostra insuperabile “animalità”, lungo la storia sono stati oggetto di una complessa elaborazione culturale, che rende estremamente mediato, cioè pochissimo “naturale”, il nostro modo di viverli. E del resto basta percorrere rapidamente la memoria del nostro passato, o gettare un rapido sguardo sul nostro presente, per convincerci che, nonostante il loro destino biologico di produttrici di vita, le donne hanno sempre condiviso nei confronti di pace e guerra le posizioni dei loro paesi: posizioni puntualmente assunte e imposte dai maschi.

La storia di ogni tempo è piena infatti di madri che eroicamente trattengono le lacrime e dominano lo strazio dei loro cuori nel salutare i figli in partenza per il fronte; di madri che orgogliosamente offrono il petto alle decorazioni attribuite alla memoria dei figli caduti in guerra; di madri che dichiarano il loro supremo vanto di donare figli alla patria; di madri che cuciono bandiere e apprestano festeggiamenti per i figli reduci da una vittoria costata comunque distruzione e morte.

Allo stesso modo la nostra vita quotidiana è piena di madri che senza esitazione regalano ai loro maschietti armi-giocattolo, implicitamente dando per scontato che la guerra, o quantomeno l’addestramento alla sua eventualità, sia parte imprescindibile del loro futuro di adulti. La nostra realtà è piena di madri terrorizzate all’idea di crescere un figlio imbelle, che lo incitano a controllare la propria emotività, magari ricorrendo alla classica esortazione: «Via, non piangere, fa’ il bravo soldatino!». Il nostro mondo è pieno di donne che esigono dal loro uomo di essere “un vero uomo”, con ciò riferendosi a quel complesso di connotazioni aggressive, tradizionalmente ritenute tipiche della virilità, di cui il soldato – e la sua disponibilità a uccidere come a morire – rappresenta l’espressione estrema e più essenziale.

E tutto ciò accade ancora, nonostante che il femminismo, specie nei primi anni della sua esplosione, abbia messo in luce questa funzione conservatrice che la donna è tenuta a svolgere nel suo ruolo educativo; e nonostante che ciò in qualche misura abbia già modificato i comportamenti delle madri. Né la cosa ci può stupire. Le donne si sono infatti trovate a condividere, sia pure da una condizione marginale e subalterna, una realtà antropologica nella quale da millenni la guerra non solo ha piena legittimità, ma svolge una funzione politica primaria, al punto da essere data non di rado come un “valore” in assoluto. E d’altronde l’assimilazione delle donne alla cultura maschile dominante, addirittura la loro complicità con la «legge del padre», con la stessa cultura che le opprime, è ciò che l’autocoscienza è andata scoprendo, e che ha caratterizzato il femminismo sulla base di una consapevolezza del tutto nuova.

E tuttavia quel bisogno che le donne hanno avvertito di confrontarsi «come donne» con la prospettiva della pace, di tentar di dire una parola loro, forse non è vano né immotivato. Forse esiste, e può essere messo a fuoco, uno «specifico femminile», o piuttosto femminista, che non può mancare di indurre le donne a una precisa scelta e a un preciso impegno a favore della pace. Anzi a me pare che questa scelta e questo impegno si pongano come momenti qualificanti e imprescindibili del discorso femminista assunto nella sua interezza e svolto in tutte le sue conseguenze possibili.

A me pare che di fatto le donne abbiano compiuto una scelta di campo contro la guerra, nel momento stesso in cui hanno spinto lo sguardo al di là dell’emancipazione, verso la nuova frontiera della liberazione; cioè nel momento in cui hanno rifiutato l’integrazione senza riserve nella «società dei maschi», per muovere alla ricerca di una loro identità non più mutuata dal modello maschile, anzi capace di opporvisi e di metterlo in crisi.

Ciò che infatti le donne condannavano nella «società dei maschi» non era più soltanto la propria storica condizione di inferiorità, la loro privazione di diritti elementari, la loro identificazione con la funzione familiare, la loro esclusione dal potere; né era soltanto la violenza alla quale scoprivano di essere da sempre soggette nel rapporto sessuale,, la loro cancellazione come portatrici di una sessualità propria, la loro accettazione coatta di un paradigma sessuale esclusivamente maschile.

Ciò che le donne condannavano, e a cui opponevano una sorta di irriducibile estraneità, era un assetto sociale che rimuove dalla propria dimensione pubblica, e accantona nell’ambito del privato, tutti i valori attinenti alla sfera della riproduzione, relativi al corpo, al sesso, agli affetti, ai rapporti personali, al vivere quotidiano, cioè a dire ai momenti più ricchi e intensi della vita di ognuno; mentre fonda la propria struttura e la propria razionalità sui valori tipici della sfera produttiva, come la forza, la competitività, l’audacia, la spregiudicatezza, eccetera, e conseguentemente impone modelli finalizzati al successo, all’acquisto, al possesso, all’accumulo, al consumo: valori e modelli tutti di segno aggressivo, e non a caso storicamente identificati col maschile.

Dalla loro storia separata, dalla loro antica e forzata estraneità ai valori dominanti, e dalla loro altrettanto antica consuetudine con valori “altri”, le donne si sono trovate dunque a condannare e rifiutare una società permeata di violenza e dalla violenza determinata nel proprio agire: una società insomma che contiene la guerra nel proprio grembo, che sempre contempla la guerra come possibile esito di ogni conflitto, di cui la guerra non è che il gesto estremo, la manifestazione più clamorosamente e orrendamente catastrofica, solo nella quantità ma non nella qualità diversa da ogni altra. Per questo dunque, per ragioni che procedono dal loro discorso specifico di donne, nella loro nuova consapevolezza, non possono non essere parte del movimento per la pace.

Ma forse le donne possono essere anche qualcosa di più. Da qualche tempo la riflessione pacifista è orientata ad allargare il proprio orizzonte d’intervento, al di là della limitazione degli armamenti, della prevenzione della guerra e dell’olocausto nucleare, per la promozione di una cultura della pace: per il tentativo cioè di individuare e sconfiggere le radici del fenomeno-guerra nella più complessa e varia fenomenologia sociale della violenza. Ma l’avvio di un’operazione del genere – se si pensa quale enorme spazio abbia occupato la guerra nel ruolo sociale del maschio e nella stessa simbologia del potere, e quale cupo fascino guerra e armi abbiano sempre esercitato sui maschi, ponendosi esplicitamente come metafore di potenza sessuale – non può non significare una svalutazione del “maschile” e una rivalutazione del “femminile”; per risolversi dunque in un mutamento per il quale la parola delle donne non può non costituire il più felice contributo.

* Sta in: MEMORIA PAURA VOLONTÀ SPERANZA. Nella Resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace (Atti del convegno, Milano 16-19 maggio 1984), a cura di ANPI – FIVL – FIAP – ANED.

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