Isotta Gaeta - Foto Enciclopedia delle donne |
*Isotta Gaeta (Torino, 1929 - Nizza, 2009), giornalista e saggista. Nata da una famiglia comunista della prima ora, a sedici anni Isotta è staffetta partigiana nella 107ª Brigata Garibaldi. Negli anni ’50 e ’60, trasferitasi a Milano, collabora con diversi periodici e riviste, tra cui Vie Nuove, Noi Donne, Quarto mondo, Compagne. Negli anni ’80 svolge l’attività di reporter per il Corriere della Sera, con inchieste sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane e battendosi per i diritti civili dei detenuti. Nel ‘92 promuove la Rete delle giornaliste europee e nel ’95 partecipa alla Conferenza Mondiale per le Donne delle Nazioni Unite per le Donne, a Pechino. È tra le fondatrici del Festival Internazionale Cinematografico a regia femminile Sguardi altrove. Nel 1978 ha curato con Lydia Franceschi gli Atti del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza tenutosi a Milano nel novembre 1977, avvio di una lettura al frmminile corale della guerra di Liberazione per voce delle stesse protagoniste.
«Scriveremo finalmente
la nostra storia di donne nella Resistenza, ci riprenderemo il nostro passato
tutto intero per affrontare il nostro futuro» **
Su questa
pagina della nostra storia si è fatta molta retorica e molto trionfalismo. Le
donne sono state esaltate, ricordate, premiate: alcune sono divenute dei
simboli al di sopra della maggioranza delle sconosciute combattenti; altre sono
divenute dei fiori all’occhiello da utilizzare in varie situazioni, ma la storia vera della presenza femminile
nella Resistenza è ancora da scrivere, pur essendoci stato tutto il tempo
per farlo in questi trent’anni che ci separano dalla Liberazione.
In realtà,
ciò che ha impedito che questa storia venisse scritta è stata la non volontà di
affrontare, con una seria analisi politica e di classe, le contraddizioni
presenti all’interno dello stesso movimento partigiano. Quelle contraddizioni
di classe e di sesso che hanno segnato
in maniera latente tutto il periodo della Resistenza e che ritroviamo negli
anni successivi, sono le stesse che, pur con diverse connotazioni, ritroviamo e
viviamo ancora oggi.
Non è stato facile né scontato costruire una organizzazione femminile di massa della Resistenza e ancora meno facile è stato riconoscerle un posto al fianco delle altre forze, che in quel momento combattevano, nonostante in grande contributo che quotidianamente le donne davano alla lotta. Su vari terreni e in vari modi si è cercato d’impedire questa partecipazione femminile organizzata autonomamente, ma di questo non troviamo traccia nei discorsi o nei libri sulla Resistenza. Troviamo invece, largamente documentato, il doppio lavoro che le donne hanno compiuto nel vecchio ruolo imposto e in quello nuovo che si erano scelte: madri, spese, sorelle e, insieme, combattenti di un esercito popolare. E nelle direttive, nei giornali, nei racconti troviamo anche una grande carica di paternalismo. I “dirigenti” si sentivano in dovere di sorvegliare, tutelare, guidare quelle che consideravano inesperte e deboli compagne di lotta, dimenticando che almeno cento militanti antifasciste erano state processate dal tribunale speciale fascista subendo dure condanne e tante altre avevano subito confino, percosse e sorveglianza politica speciale, durante tutto il ventennio.
In un
documento della 1ª divisione Garibaldi
“Piemonte” del 16 settembre 1944, riguardante le direttive per la
costituzione di organismi popolari, si legge, per esempio una nota che riguarda
le donne: «Nei limiti delle possibilità e
sempre che vi siano i requisiti adatti, un elemento femminile può essere
ammesso a far parte di detto organismo». Le donne, dunque, erano mature per
rischiare la vita e combattere duramente, ma non lo erano ancora per dirigere,
per assumere il potere: si poteva ammettere che qualcuna venisse scelta ma non
prima di un severo e accurato esame che nessuno si sognava di proporre per un
uomo.
L’analisi
che tentiamo di fare qui è solo un abbozzo, l’inizio di un lavoro che vogliamo
continuare a sviluppare con il contributo di tutte. Scriveremo finalmente la nostra storia, dopo averla vissuta, anche
a partire da questo primo momento, che deve servire da stimolo e da
provocazione perché si faccia piazza pulita di ogni mistificazione: vogliamo
riprenderci il nostro passato tutto intero per affrontare il futuro senza
ripercorrere gli stessi errori e guardando in faccia i nostri nemici, tutti i
nostri nemici.
Abbiamo sempre parlato con orgoglio, e lo facciamo ancora oggi, dei Gruppi di Difesa della Donna (GDD), per ciò che hanno saputo essere nel movimento partigiano e siamo convinte che, senza quel tipo di organizzazione, la Resistenza non sarebbe stata vincente. Dobbiamo riconoscere che, proprio con quello strumento, si fece il primo tentativo di organizzazione autonoma delle donne per porre i problemi specifici della condizione femminile. E tuttavia è proprio nella impostazione del programma e dell’organizzazione dei GDD che si rivelò la prima, profonda contraddizione.
I partiti
della borghesia presenti nel CLN, che temevano un grande ingresso delle donne
nella vita politica perché tendevano a
ricostruire, nell’Italia liberata, il vecchio ordine prefascista, non
potevano tollerare che si mettesse in discussione il ruolo delle donne nella
famiglia e nella società, e intendevano la loro presenza nella Resistenza come
un momento di supporto. Questo obiettivo perseguivano anche attraverso le loro
rappresentanti femminili nei GDD, e che i partiti della classe operaia non
seppero adeguatamente contrastare. L’esigenza dell’unità, che aveva lo scopo di
cementare le diverse componenti dell’antifascismo e mobilitare un vasto fronte
di consensi, caratterizzò le scelte dei GDD: di fronte all’urgenza storica di
battere il nemico, la questione
femminile veniva posta in secondo piano e rimandata a dopo la Liberazione.
Non a caso l’organizzazione si autodefinì «Gruppi di Difesa della Donna e per
l’assistenza ai combattenti per la libertà» codificando anche nel nome una
posizione subalterna e sussidiaria. I compiti e gli obiettivi che si posero al
vertice si attestarono su posizioni moderate che puntavano su iniziative di
assistenza e di solidarietà esclusivamente patriottiche in nome dell’unità
nazionale, escludendo dalle rivendicazioni specifiche femminili l’analisi delle
radici di classe della subordinazione delle donne.
Ma il
movimento che premeva dal basso rendeva stridente questa contraddizione:
l’interclassismo di vertice era in contrasto con la lotta che le donne
conducevano nelle fabbriche, nelle città occupate, nelle campagne. Accanto alle
rivendicazioni immediate per tutti, le donne ne posero di specifiche - uguale
salario per uguale lavoro, servizi di assistenza al parto e sociali pubblici e
gratuiti – con una precisa impostazione anticapitalistica. Nel corso di quasi
due anni di guerra di liberazione, in
prima fila ci furono le operaie, le mondine, le mogli degli operai, che
ponevano obiettivi a partire dai loro bisogni e li imponevano con la lotta.
E fu ancora
dal basso che si cominciò a porre la
questione del potere, dell’inserimento delle donne ad ogni livello
decisionale, premendo sui vertici per il riconoscimento dei GDD da parte del
CLN. Fu un confronto lungo e duro, perché i partiti moderati opponevano una
tenace contrarietà. Ma infine dovettero cedere e i GDD vennero riconosciuti, un anno dopo la loro costituzione. Ma
non dovunque, tanto è vero che, ancora sul numero del 1° aprile 1945 di Noi
Donne, un’operaia scrive: «Noi donne vogliamo essere pari agli uomini
nelle cose pubbliche e di governo. Non abbiamo bisogno di essere tutelate da
coloro che si sono eletti a messia e che sempre ci hanno negato il nostro
diritto e la possibilità di far sentire la nostra volontà e le nostre esigenze.
Mai come oggi le donne italiane hanno contribuito alla guerra per la libertà e
la democrazia, per questo vogliamo e pretendiamo che ci sia riconosciuta la
nostra organizzazione ed esigiamo che le nostre rappresentanti siano da noi
elette democraticamente ed accettate in tutti gli organismi di governo e in
particolare nei Comitati di Liberazione
Nazionale».
Queste
contrarietà, oltre a cercare di frenare il movimento di massa, miravano anche a
preparare il dopo Liberazione, quando alle donne si sarebbe chiesto di tornare al focolare domestico, per
riprendere il vecchio ruolo, in nome delle esigenze del paese da ricostruire.
La seconda
contraddizione andò facendosi sempre più profonda man mano che cresceva
l’impegno delle donne. La contraddizione di sesso, più difficile da riconoscere
e da combattere perché sorretta dal costume e dalle tradizioni secolari, si
delineava anche là dove le donne si erano schierate: i nemici della loro
liberazione, coscienti o incoscienti, erano talvolta i loro stessi compagni di
lotta. C’era un abisso, infatti, fra il posto che le donne occupavano nella
produzione, la spinta che le animava nel loro impegno antifascista, e il posto che venne loro assegnato nelle
file della Resistenza. In rapporto alle migliaia che parteciparono alla
lotta, non furono molte le donne che entrarono nelle formazioni armate e vi
ebbero posti di responsabilità. E anche fra quelle che entrarono nelle
formazioni armate, molte si prestarono a ruoli di servizio, come cuoche,
lavandaie, infermiere.
Moltissime furono staffette, compito che, per essere considerato
di servizio, si rivelò poi decisivo e indispensabile per la vita delle brigate
partigiane a tutti i livelli: una staffetta era praticamente un ufficiale di
collegamento e doveva essere capace e coraggiosa come qualsiasi altro
combattente. Ma la scelta venne fatta per la ragione che le donne sfuggivano
più facilmente al controllo del nemico, non perché si affidasse loro un compito
ritenuto importante. Le donne furono quindi sempre presenti a livello operativo
– e su questo terreno contarono moltissimo – ma non lo furono altrettanto a
livello decisionale.
È abbastanza
significativo ciò che scrive in una relazione al Comando generale delle brigate Garibaldi il comandante della
Brigata “Eusebio Giambone”: «Annunciamo la formazione di un vero e proprio distaccamento femminile nell’organico
di questa brigata. Tale distaccamento è costituito da donne (per lo più
sorelle, spose, madri di garibaldini) che dovettero abbandonare la loro
residenza attuale perché erano ricercate dalla polizia e perseguitate dalla
sbirraglia fascista. Molte di queste donne lavoravano per noi in qualità di
staffette e di segnalatrici.
«Invece di
affidarle alla discrezione protettiva di famiglie o di enti locali favorevoli,
abbiamo creduto bene di raggrupparle in un unico distaccamento che vorremmo portasse
il nome di qualche compagno martire. Tale distaccamento consta, per ora, di
trentotto unità. Ne è comandante un garibaldino, il quale è pure capo-sarto. Le
donne, inoltre, sono suddivise in due gruppi direttamente comandati e
controllati da due donne anziane.
«Queste nostre garibaldine lavorano
dalle 7 alle 12 e dalle 14 alle 18 di ogni giorno. Stirano, cuciono, rammendano
per i nostri uomini oltre a confezionare pantaloni, camiciotti, mutande, ecc.
Fruiscono della libera uscita dalle 19 alle 22 e hanno l’obbligo di non avere
alcun rapporto di carattere più o meno intimo, specialmente con i civili del
luogo. Per quanto riguarda il loro trattamento economico esse sono equiparate in tutto ai nostri
garibaldini. Questo comando provvede inoltre, nei limiti del possibile, al
loro equipaggiamento prelevando gli oggetti di vestiario dai magazzini della
valle.
«Poiché sono
sottoposte a un lavoro continuo e, in un certo senso, a catena, l’ordine e la
disciplina fanno sì che si possa essere pienamente soddisfatti del loro
comportamento. Esse vengono sottoposte, settimanalmente, a visita medica. Il loro morale è ottimo perché lavorano con
entusiasmo».
Nelle parole
di questo compagno, che pure era un combattente per una società nuova,
ritroviamo insieme la vecchia cultura e i vecchi tabù ma, soprattutto,
verifichiamo quanto fosse ancora lontana
la questione della parità. Un ordine del giorno del Comando generale delle
brigate Garibaldi segnalò l’iniziativa della brigata “Giambone” accogliendola
con entusiasmo e invitando le altre formazioni ad estenderla. Gli stessi GDD,
in un rapporto di attività steso alla vigilia dell’insurrezione, ricordano
l’esistenza di questo distaccamento, portandolo come esempio. È solo un
esempio, anche se significativo, ma potremmo ricordarne tanti altri se ci
mettessimo a trascrivere le storie delle migliaia di donne patriote e
partigiane. E se rileggessimo tutto ciò che è stato scritto, dagli ordini del
giorno ai volantini, dagli articoli dei giornali clandestini alle poesie e alle
canzoni dedicate alle donne: ritroveremmo sempre, insistente, quella figura di compagna dell’uomo o di
madre o sorella, che sembrava essere l’unica conosciuta.
La parità
fra uomini e donne non fu affermata formalmente né ci fu di fatto: questo segnò
non solo la partecipazione delle donne all’interno della Resistenza, ma anche
quella nella vita politica futura. E di questo portano la responsabilità anche
i gruppi dirigenti del movimento operaio, i quali temevano di aggravare le
tensioni e le divisioni già presenti nel movimento partigiano. Ma questo non
poteva che portare alla mortificazione e
alla rimozione di una contraddizione reale e profonda che si sarebbe riprodotta
nel dopoguerra.
**Sta in: L’altra metà della resistenza, ed.
Mazzotta, Milano 1978, pag. 33 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via
della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977)
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