08/04/21

VERSO IL 25 APRILE CON L’ALTRA META’ DELLA RESISTENZA / ISOTTA GAETA*

Isotta Gaeta - Foto Enciclopedia delle donne

 *Isotta Gaeta (Torino, 1929 - Nizza, 2009), giornalista e saggista. Nata da una famiglia comunista della prima ora, a sedici anni Isotta è staffetta partigiana nella 107ª Brigata Garibaldi. Negli anni ’50 e ’60, trasferitasi a Milano, collabora con diversi periodici e riviste, tra cui Vie Nuove, Noi Donne, Quarto mondo, Compagne. Negli anni ’80 svolge l’attività di reporter per il Corriere della Sera, con inchieste sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane e battendosi per i diritti civili dei detenuti. Nel ‘92 promuove la Rete delle giornaliste europee e nel ’95 partecipa alla Conferenza Mondiale per le Donne delle Nazioni Unite per le Donne, a Pechino. È tra le fondatrici del Festival Internazionale Cinematografico a regia femminile Sguardi altrove. Nel 1978 ha curato con Lydia Franceschi gli Atti del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza tenutosi a Milano nel novembre 1977, avvio di una lettura al frmminile corale della guerra di Liberazione per voce delle stesse protagoniste.

«Scriveremo finalmente la nostra storia di donne nella Resistenza, ci riprenderemo il nostro passato tutto intero per affrontare il nostro futuro» **

Su questa pagina della nostra storia si è fatta molta retorica e molto trionfalismo. Le donne sono state esaltate, ricordate, premiate: alcune sono divenute dei simboli al di sopra della maggioranza delle sconosciute combattenti; altre sono divenute dei fiori all’occhiello da utilizzare in varie situazioni, ma la storia vera della presenza femminile nella Resistenza è ancora da scrivere, pur essendoci stato tutto il tempo per farlo in questi trent’anni che ci separano dalla Liberazione.

In realtà, ciò che ha impedito che questa storia venisse scritta è stata la non volontà di affrontare, con una seria analisi politica e di classe, le contraddizioni presenti all’interno dello stesso movimento partigiano. Quelle contraddizioni di classe e di sesso che hanno segnato in maniera latente tutto il periodo della Resistenza e che ritroviamo negli anni successivi, sono le stesse che, pur con diverse connotazioni, ritroviamo e viviamo ancora oggi.


Non è stato facile né scontato
costruire una organizzazione femminile di massa della Resistenza e ancora meno facile è stato riconoscerle un posto al fianco delle altre forze, che in quel momento combattevano, nonostante in grande contributo che quotidianamente le donne davano alla lotta. Su vari terreni e in vari modi si è cercato d’impedire questa partecipazione femminile organizzata autonomamente, ma di questo non troviamo traccia nei discorsi o nei libri sulla Resistenza. Troviamo invece, largamente documentato, il doppio lavoro che le donne hanno compiuto nel vecchio ruolo imposto e in quello nuovo che si erano scelte: madri, spese, sorelle e, insieme, combattenti di un esercito popolare. E nelle direttive, nei giornali, nei racconti troviamo anche una grande carica di paternalismo. I “dirigenti” si sentivano in dovere di sorvegliare, tutelare, guidare quelle che consideravano inesperte e deboli compagne di lotta, dimenticando che almeno cento militanti antifasciste erano state processate dal tribunale speciale fascista subendo dure condanne e tante altre avevano subito confino, percosse e sorveglianza politica speciale, durante tutto il ventennio.

In un documento della 1ª divisione Garibaldi “Piemonte” del 16 settembre 1944, riguardante le direttive per la costituzione di organismi popolari, si legge, per esempio una nota che riguarda le donne: «Nei limiti delle possibilità e sempre che vi siano i requisiti adatti, un elemento femminile può essere ammesso a far parte di detto organismo». Le donne, dunque, erano mature per rischiare la vita e combattere duramente, ma non lo erano ancora per dirigere, per assumere il potere: si poteva ammettere che qualcuna venisse scelta ma non prima di un severo e accurato esame che nessuno si sognava di proporre per un uomo.

L’analisi che tentiamo di fare qui è solo un abbozzo, l’inizio di un lavoro che vogliamo continuare a sviluppare con il contributo di tutte. Scriveremo finalmente la nostra storia, dopo averla vissuta, anche a partire da questo primo momento, che deve servire da stimolo e da provocazione perché si faccia piazza pulita di ogni mistificazione: vogliamo riprenderci il nostro passato tutto intero per affrontare il futuro senza ripercorrere gli stessi errori e guardando in faccia i nostri nemici, tutti i nostri nemici.

Abbiamo sempre parlato con orgoglio, e lo facciamo ancora oggi, dei Gruppi di Difesa della Donna (GDD), per ciò che hanno saputo essere nel movimento partigiano e siamo convinte che, senza quel tipo di organizzazione, la Resistenza non sarebbe stata vincente. Dobbiamo riconoscere che, proprio con quello strumento, si fece il primo tentativo di organizzazione autonoma delle donne per porre i problemi specifici della condizione femminile. E tuttavia è proprio nella impostazione del programma e dell’organizzazione dei GDD che si rivelò la prima, profonda contraddizione.

I partiti della borghesia presenti nel CLN, che temevano un grande ingresso delle donne nella vita politica perché tendevano a ricostruire, nell’Italia liberata, il vecchio ordine prefascista, non potevano tollerare che si mettesse in discussione il ruolo delle donne nella famiglia e nella società, e intendevano la loro presenza nella Resistenza come un momento di supporto. Questo obiettivo perseguivano anche attraverso le loro rappresentanti femminili nei GDD, e che i partiti della classe operaia non seppero adeguatamente contrastare. L’esigenza dell’unità, che aveva lo scopo di cementare le diverse componenti dell’antifascismo e mobilitare un vasto fronte di consensi, caratterizzò le scelte dei GDD: di fronte all’urgenza storica di battere il nemico, la questione femminile veniva posta in secondo piano e rimandata a dopo la Liberazione. Non a caso l’organizzazione si autodefinì «Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà» codificando anche nel nome una posizione subalterna e sussidiaria. I compiti e gli obiettivi che si posero al vertice si attestarono su posizioni moderate che puntavano su iniziative di assistenza e di solidarietà esclusivamente patriottiche in nome dell’unità nazionale, escludendo dalle rivendicazioni specifiche femminili l’analisi delle radici di classe della subordinazione delle donne.

Ma il movimento che premeva dal basso rendeva stridente questa contraddizione: l’interclassismo di vertice era in contrasto con la lotta che le donne conducevano nelle fabbriche, nelle città occupate, nelle campagne. Accanto alle rivendicazioni immediate per tutti, le donne ne posero di specifiche - uguale salario per uguale lavoro, servizi di assistenza al parto e sociali pubblici e gratuiti – con una precisa impostazione anticapitalistica. Nel corso di quasi due anni di guerra di liberazione, in prima fila ci furono le operaie, le mondine, le mogli degli operai, che ponevano obiettivi a partire dai loro bisogni e li imponevano con la lotta.

E fu ancora dal basso che si cominciò a porre la questione del potere, dell’inserimento delle donne ad ogni livello decisionale, premendo sui vertici per il riconoscimento dei GDD da parte del CLN. Fu un confronto lungo e duro, perché i partiti moderati opponevano una tenace contrarietà. Ma infine dovettero cedere e i GDD vennero riconosciuti, un anno dopo la loro costituzione. Ma non dovunque, tanto è vero che, ancora sul numero del 1° aprile 1945 di Noi Donne, un’operaia scrive: «Noi donne vogliamo essere pari agli uomini nelle cose pubbliche e di governo. Non abbiamo bisogno di essere tutelate da coloro che si sono eletti a messia e che sempre ci hanno negato il nostro diritto e la possibilità di far sentire la nostra volontà e le nostre esigenze. Mai come oggi le donne italiane hanno contribuito alla guerra per la libertà e la democrazia, per questo vogliamo e pretendiamo che ci sia riconosciuta la nostra organizzazione ed esigiamo che le nostre rappresentanti siano da noi elette democraticamente ed accettate in tutti gli organismi di governo e in particolare nei Comitati di Liberazione Nazionale».

Queste contrarietà, oltre a cercare di frenare il movimento di massa, miravano anche a preparare il dopo Liberazione, quando alle donne si sarebbe chiesto di tornare al focolare domestico, per riprendere il vecchio ruolo, in nome delle esigenze del paese da ricostruire.

La seconda contraddizione andò facendosi sempre più profonda man mano che cresceva l’impegno delle donne. La contraddizione di sesso, più difficile da riconoscere e da combattere perché sorretta dal costume e dalle tradizioni secolari, si delineava anche là dove le donne si erano schierate: i nemici della loro liberazione, coscienti o incoscienti, erano talvolta i loro stessi compagni di lotta. C’era un abisso, infatti, fra il posto che le donne occupavano nella produzione, la spinta che le animava nel loro impegno antifascista, e il posto che venne loro assegnato nelle file della Resistenza. In rapporto alle migliaia che parteciparono alla lotta, non furono molte le donne che entrarono nelle formazioni armate e vi ebbero posti di responsabilità. E anche fra quelle che entrarono nelle formazioni armate, molte si prestarono a ruoli di servizio, come cuoche, lavandaie, infermiere.

Moltissime furono staffette, compito che, per essere considerato di servizio, si rivelò poi decisivo e indispensabile per la vita delle brigate partigiane a tutti i livelli: una staffetta era praticamente un ufficiale di collegamento e doveva essere capace e coraggiosa come qualsiasi altro combattente. Ma la scelta venne fatta per la ragione che le donne sfuggivano più facilmente al controllo del nemico, non perché si affidasse loro un compito ritenuto importante. Le donne furono quindi sempre presenti a livello operativo – e su questo terreno contarono moltissimo – ma non lo furono altrettanto a livello decisionale.

È abbastanza significativo ciò che scrive in una relazione al Comando generale delle brigate Garibaldi il comandante della Brigata “Eusebio Giambone”: «Annunciamo la formazione di un vero e proprio distaccamento femminile nell’organico di questa brigata. Tale distaccamento è costituito da donne (per lo più sorelle, spose, madri di garibaldini) che dovettero abbandonare la loro residenza attuale perché erano ricercate dalla polizia e perseguitate dalla sbirraglia fascista. Molte di queste donne lavoravano per noi in qualità di staffette e di segnalatrici.

«Invece di affidarle alla discrezione protettiva di famiglie o di enti locali favorevoli, abbiamo creduto bene di raggrupparle in un unico distaccamento che vorremmo portasse il nome di qualche compagno martire. Tale distaccamento consta, per ora, di trentotto unità. Ne è comandante un garibaldino, il quale è pure capo-sarto. Le donne, inoltre, sono suddivise in due gruppi direttamente comandati e controllati da due donne anziane.

«Queste nostre garibaldine lavorano dalle 7 alle 12 e dalle 14 alle 18 di ogni giorno. Stirano, cuciono, rammendano per i nostri uomini oltre a confezionare pantaloni, camiciotti, mutande, ecc. Fruiscono della libera uscita dalle 19 alle 22 e hanno l’obbligo di non avere alcun rapporto di carattere più o meno intimo, specialmente con i civili del luogo. Per quanto riguarda il loro trattamento economico esse sono equiparate in tutto ai nostri garibaldini. Questo comando provvede inoltre, nei limiti del possibile, al loro equipaggiamento prelevando gli oggetti di vestiario dai magazzini della valle.

«Poiché sono sottoposte a un lavoro continuo e, in un certo senso, a catena, l’ordine e la disciplina fanno sì che si possa essere pienamente soddisfatti del loro comportamento. Esse vengono sottoposte, settimanalmente, a visita medica. Il loro morale è ottimo perché lavorano con entusiasmo».

Nelle parole di questo compagno, che pure era un combattente per una società nuova, ritroviamo insieme la vecchia cultura e i vecchi tabù ma, soprattutto, verifichiamo quanto fosse ancora lontana la questione della parità. Un ordine del giorno del Comando generale delle brigate Garibaldi segnalò l’iniziativa della brigata “Giambone” accogliendola con entusiasmo e invitando le altre formazioni ad estenderla. Gli stessi GDD, in un rapporto di attività steso alla vigilia dell’insurrezione, ricordano l’esistenza di questo distaccamento, portandolo come esempio. È solo un esempio, anche se significativo, ma potremmo ricordarne tanti altri se ci mettessimo a trascrivere le storie delle migliaia di donne patriote e partigiane. E se rileggessimo tutto ciò che è stato scritto, dagli ordini del giorno ai volantini, dagli articoli dei giornali clandestini alle poesie e alle canzoni dedicate alle donne: ritroveremmo sempre, insistente, quella figura di compagna dell’uomo o di madre o sorella, che sembrava essere l’unica conosciuta.

La parità fra uomini e donne non fu affermata formalmente né ci fu di fatto: questo segnò non solo la partecipazione delle donne all’interno della Resistenza, ma anche quella nella vita politica futura. E di questo portano la responsabilità anche i gruppi dirigenti del movimento operaio, i quali temevano di aggravare le tensioni e le divisioni già presenti nel movimento partigiano. Ma questo non poteva che portare alla mortificazione e alla rimozione di una contraddizione reale e profonda che si sarebbe riprodotta nel dopoguerra.

 

**Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 33 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977)

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