«Staffette: senza di loro la Resistenza sarebbe stata impossibile»
di Manzela Sanna*
*(Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 104, Atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977, avvio di una lettura al frmminile corale della lotta di Liberazione per voce delle stesse protagoniste).
La staffetta è forse la figura più
cara della Resistenza,
la più amata e certamente una delle più indispensabili. Essa è stata la
struttura portante, il cuore dell’intera rete organizzativa di combattimento,
l’occhio della brigata.
Nelle sue mani erano riposti i
collegamenti, gli
ordini, le informazioni per le città, i villaggi, le fabbriche. Nelle sue
sporte venivano nascoste le armi, l’esplosivo, il materiale di propaganda, la
stampa. Alla sua persona erano affidati i messaggi e le disposizioni del CLN
alle formazioni e della brigata alle altre brigate. In sella all’inseparabile
bicicletta – simbolo di tutto un periodo – pedalava per chilometri e chilometri
per portare a termine la missione affidatale, sfidando i rastrellamenti, le
bombe, gli innumerevoli rischi della guerra.
Non è semplice descrivere
compiutamente ciò
che hanno fatto le staffette perché erano dappertutto e hanno fatto di tutto, e
comunque non si riuscirebbe a dare la esatta dimensione della loro importanza perché
non è tanto il peso quantitativo e numerico delle azioni a cui hanno
partecipato che le ha rese indispensabili, quanto quello morale e politico che
ha fatto dire che senza di esse la Resistenza sarebbe stata impossibile.
Molte rimasero colpite nella salute (sterilità, artrosi, pleurite, tbc)
a causa delle dure condizioni in cui operavano; numerose vennero torturate e
spesso violentate e poi fucilate.
L’attività
della staffetta era di estrema importanza e fondamentale l’atteggiamento che
doveva tenere nelle circostanze più disparate. A questo riguardo è interessante
conoscere alcune regole di massima impartite alle compagne addette a
tale incarico.
In una
circolare di un comando partigiano dell’ottobre 1944 si legge: «Compagna corriera, nell’andare ai recapiti
assicurati sempre che nessuno ti segua. Non rivelare mai a nessuno, neppure ai
compagni e alle compagne che fanno il tuo stesso lavoro, gli indirizzi e i
luoghi di recapito. Se ti accorgi che qualche persona sospetta segue i tuoi
movimenti, non recarti al luogo dell’appuntamento.
«Nascondi il materiale nel modo
migliore. Cammina sempre con disinvoltura e senza destare sospetti, abbi sempre
una risposta pronta, una carta d’identità e altri documenti di riconoscimento.
«Il
tuo lavoro è pericoloso. Puoi anche cadere nelle mani del nemico e cioè
essere arrestata. Con le lusinghe, con le minacce e spesso con le torture
fisiche e morali, tenteranno di farti parlare. Tu non parlare mai! Difenditi
nel modo che puoi, a seconda delle circostanze e delle situazioni, ma non dire
nulla, non svelare il nome dei compagni, dei recapiti, delle cose che conosci.
Hai delle possibilità di salvarti solo negando e ancora negando. Comunque
preferisci qualsiasi altra sorte piuttosto che diventare una spia».
Ebbene, fu
molto raro che qualcuna tradisse o parlasse sotto tortura, quantunque
umanamente possibile, e ciò è tanto più importante perché la maggior parte di
esse non erano membri di partito o quadri politici, ma semplici donne che gli
avvenimenti avevano strappato alla chiusa vita famigliare per trasformarle in
combattenti.
Eppure dopo
il 25 aprile per la stragrande maggioranza di coloro che furono l’anima della
Resistenza non ci furono riconoscimenti, spesso neanche quelli di “patriota”:
ed è così che molte torneranno a casa dopo aver trovato nella lotta una nuova
dimensione femminile.
Esse non chiedevano soltanto la fine della guerra, della fame, delle distruzioni: esigevano di essere aiutate a sviluppare una coscienza politica e di classe, di superare l’arretratezza culturale, di trovare un’occupazione. Invece vennero ricacciate in massa nella famiglia, nel lavoro dequalificato, negli impieghi senza carriera. A che vale quindi concedere il voto come grande conquista storica se a questo voto non corrisponde un peso reale nella società? Grandi sono le responsabilità dei partiti di sinistra che questo enorme potenziale di risorse ormai sviluppato non hanno organizzato in maniera conseguente.
Quasi
tutte le donne che hanno reso testimonianza sulla lotta partigiana hanno
affermato che «quello è stato il periodo più bello e pieno della loro vita». E
la partigiana Elsa Oliva nel libro La
Resistenza taciuta afferma: «Il mio rimpianto più grande del dopo è
stato quello di non essere morta prima, durante la lotta». Romanticismo, si
dirà, retorica femminile decadente. Invece questa frase, al di là dello
schematismo con cui è formulata, assume il significato prezioso di un giudizio
storico e politico.
Nelle lotte
successive per l’affermazione della democrazia le donne non si sono mai più
sentite così attive, così partecipi nel rischio, così unite da intenti comuni.
Tant’è che, a più di trent’anni dalla liberazione, rimangono ancora sulla carta
i punti più significativi del programma dei Gruppi di Difesa della Donna,
la cui attuazione era considerata certa nell’Italia liberata.
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