LE DONNE NELLA RESISTENZA
Succede d’improvviso quel che non era mai successo: una
grande massa di donne italiane si trova improvvisamente protagonista della
storia, immersa in un ciclo di avvenimenti che le travolge. Dopo l’8 settembre
1943, un intero esercito sbandato e in fuga ha bisogno di abiti civili, di cibo,
di assistenza: dalle povere case di contadini e montanari le donne estraggono
un enorme guardaroba per rivestire migliaia di soldati in viaggio verso le
proprie case, con un’operazione di “maternage” assolutamente inedita per la sua
ampiezza e capillarità.
In un secondo momento, quando i bandi della Repubblica
di Salò e i proclami dell’esercito tedesco esigono che i giovani si presentino
per il servizio militare o del lavoro, ogni giovane in età di leva trova una
donna di famiglia che lo nasconde, lo nutre e lo tiene informato. L’aiuto
prestato al figlio o al fratello si estende poi quasi naturalmente al gruppo di
ribelli cui il giovane si unisce, e la formazione partigiana diventa quasi una famiglia
allargata alla quale le donne continuano a fornire alimenti, abbigliamento,
informazioni, assistenza di ogni genere. La giovane staffetta che corre in
bicicletta trasportando armi e ordini, o la coraggiosa infermiera che sulla
montagna cura i partigiani feriti sono diventate icone della Resistenza al
femminile.
Ma le donne partecipano alla Resistenza anche direttamente
come combattenti: in Emilia Norma Barbolini, operaia ceramista, quando il
fratello viene ferito, lo sostituisce al comando della I Divisione “Ciro
Menotti”; a Torino la studentessa Matilde Dipietrantonio comanda una brigata
cittadina di Giustizia e Libertà; ben 512 donne agiscono come commissari
politici presso le formazioni partigiane, soprattutto garibaldine, svolgendo
incarichi di responsabilità politica su nuclei a maggioranza maschile, come
Manuela, una giovane musicista torinese che in Valtellina assume l’incarico di
commissario di battaglione. Nella Repubblica dell’Ossola, la partigiana Gisella
Floreanini assume la carica di ministro: è la prima volta nella storia d’Italia
che una donna assurge a tale status.
Quando poi la disorganizzazione dei mercati e lo
sconvolgimento delle reti di comunicazione fa mancare cibo, medicine e generi
di prima necessità, come stoffe o sapone, sono ancora le donne che con lunghi
viaggi a piedi o con mezzi di fortuna si incaricano di effettuare gli scambi
necessari. Esemplare il caso della zona libera della Carnia, dove le
comunicazioni sono bloccate e mancano i cereali: uno stuolo di giovani donne, organizzate
dal partito comunista che predispone rifornimenti e posti di ristoro, trasporta
a spalla o con i muli cinque tonnellate di grano dall’Emilia, attraverso un
impervio passo di montagna, salvando dalla fame una popolazione di circa 90.000
persone. Ma anche in tutte le altre zone alpine le donne scendono a valle a
scambiare patate, castagne, prodotti caseari, oggetti di artigianato, con
cereali e altri generi necessari. Dalle coste della Versilia, sono le donne che
ricavano il sale dal loro mare e si recano a piedi in Emilia a scambiarlo con
grano e farina delle ricche cascine della pianura; e nel viaggio riescono anche
a far passare informazioni utili per gli Alleati che stanno risalendo la
penisola. “Quelle povere donne scalze, mentre i loro uomini combattevano sulla
montagna contro i tedeschi, combattevano in pianura contro la fame. E la
battaglia per la libertà e per il pane fu una sola battaglia”, commenta Piero
Calamandrei. E a Carrara, quando i nazifascisti, sotto pressione per la
risalita degli Alleati, volevano distruggere la città, sono le donne che con
furiose manifestazioni riescono ad impedirlo.
Anche nelle città le donne sono le protagoniste delle
manifestazioni contro i fascisti: le razioni alimentari sono ridotte al minimo,
e spesso neppure si riesce ad ottenerle. Le donne gridano la loro rabbia per la
mancanza di pane, sale, legna, ma non è difficile vedere in filigrana
l’opposizione politica sotto la fame: gli stessi fascisti sanno benissimo che
le manifestazioni sono spesso organizzate da donne dalla chiara coscienza
politica, ma come individuarle nella massa di donne furiose per le privazioni?
Dove riescono a organizzarsi, i Gruppi di difesa della donna provvedono
alacremente a raccogliere viveri e abbigliamento per i combattenti sulle
montagne, a nascondere e nutrire ebrei e militanti clandestini, ad appoggiare
l’opera pericolosa dei gappisti nelle città. I Gruppi, dove possibile, servono
anche da palestra per attività sociali, culturali, politiche inedite per quelle
donne, che il fascismo aveva confinato nella funzione procreativa.
Tocca infine alle donne nelle case un compito tanto delicato
quanto dimenticato: quello di proteggere bambini e bambine dai pesanti traumi
psicologici provocati da occupazioni militari, rastrellamenti, incendi,
assassini, cercando di attenuare i drammi e di razionalizzare avvenimenti
tragici e incomprensibili agli occhi dei più piccoli.
Ma non è da credere che l’impegno resistenziale delle donne
derivi solo dalla loro tradizionale dimensione privata, dal lavoro di cura
familiare e dai principi altrettanto tradizionali di ospitalità e solidarismo:
esisteva una grande massa di manodopera femminile, particolarmente importante e
numerosa nelle fabbriche tessili di tutto il nord Italia, ma presente
massicciamente anche nelle fabbriche delle grandi città industriali, dove
sostituiva gli uomini richiamati alle armi. Una massa operaia che aveva patito
in prima persona la miseria, la fame, le angherie imposte dai fascisti, e ne
aveva tratto una chiara coscienza di classe. Le donne operaie partecipano in
massa agli scioperi del marzo 1944: a Milano, quando nelle fabbriche suonano le
sirene che annunciano lo sciopero, c’è un attimo di esitazione: sono le donne
della Borletti a dare l’esempio, uscendo per prime nella strade, e agli uomini
non resta che seguirle. Gli occupanti tedeschi deportano migliaia di operai
(più di 500 solo da Sesto San Giovanni) fra cui molte donne che finiranno nei
campi di sterminio nazisti.
La storia ufficiale ci dice che furono in numero di 35.000 le
donne partigiane, staffette, sappiste e gappiste, 4.633 le donne arrestate,
torturate, condannate dai tribunali fascisti, 2.750 quelle deportate in
Germania, 623 fucilate o cadute in combattimento, 1.750 ferite, 70.000
organizzate nei Gruppi di difesa della donna. Ma questi numeri non comprendono
la massa di casalinghe, bottegaie, portinaie, sartine, che diedero il loro
contributo in forma anonima e quasi ignorata se non dai pochi che le
conoscevano e che magari dovevano loro la vita: come l’ignoto gappista
milanese, al quale, fuggendo con i fascisti alle calcagna, si guastò la
bicicletta: uno sguardo d’intesa con la portinaia, e un pesante portone di
legno si richiuse su di lui, sottraendolo alla cattura, alla tortura, alla
morte.
Un movimento di massa, quello delle donne, di cui non esiste
alcun altro esempio nella storia d’Italia e che dopo la guerra sarà fecondo di
nuove conquiste, prima di tutto il voto.
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