Una storia di partigiane e partigiani
di ADoC - PCI*
Quando si ricorda la
Resistenza e il 25 aprile, il pensiero non va subito alle partigiane, ma ai
partigiani che combatterono armati per sconfiggere il nazifascismo: magari, il
ricordo si sofferma su quelle poche donne che divennero dirigenti politiche nel
dopoguerra, come Nilde Iotti, Lina o Angelina Merlin, Tina Anselmi.
“Staffette”
è la parola più comunemente usata per definire le partigiane, ma esse non sono
state solo informatrici ed infermiere, ma anche combattenti con le armi in
mano.
Quando
prese piede la Resistenza, dopo l’armistizio dell’8 settembre ‘43, nacquero a
Milano, nel novembre del ‘43, i Gruppi di difesa della donna per iniziativa del
Partito Comunista Italiano, con lo scopo di coinvolgere il maggior numero di
donne in attività resistenziali, indipendentemente dall'appartenenza politica.
A gettarne le basi fu l'incontro tra donne di diversa appartenenza politica,
comuniste, socialiste, azioniste, repubblicane,
cattoliche, a cui si aggiunsero ben presto donne prive di formazione
politico-ideologica.
Dei Gruppi di difesa della donna, è impossibile misurarne
l'entità, poiché intorno a ciascuna delle componenti gravitavano molte altre donne
che talvolta ignoravano perfino l’esistenza del gruppo, ma si attivavano a fornire
cibo, medicine, indumenti e a prestare servizi vari di comunicazione e sostegno.
A Milano, ad esempio. la “sarta di piazza Ferravilla” nascondeva stampa
clandestina e passava informazioni alle unità partigiane. La “pollivendola di
via Aselli” (nessuno ne ha mai saputo il nome) faceva lo stesso. In un’altra via
una portinaia raccoglieva il cibo necessario a due ebrei che stavano nascosti
nei pressi e che riuscirono a salvarsi, ma raccoglieva anche per i partigiani
in montagna calzettoni e golf di lana lavorati a maglia dalle donne del
condominio.
Tali brigate, accomunate a quelle partigiane dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale, organo di direzione della Resistenza, segnarono una rottura epocale: la prima volta delle donne combattenti. Infatti, le partigiane seppero realizzare una sorta di fronte interno che toglieva terreno agli occupanti e che si muoveva alle loro spalle. Ben presto, da ruoli prevalentemente assistenziali, esse passarono a svolgere ruoli importanti nelle attività di informazione, propaganda, trasporto di ordini e munizioni ed attacco armato.
Infatti,
le donne provvedevano a nutrire i partigiani, a vestirli, li avvertivano della
presenza dei tedeschi, li curavano, se feriti, procuravano loro le armi,
attraversavano posti di blocco, diventavano staffette, facevano turni di
guardia, attaccavano con le armi i nazifascisti, salvavano ebrei, facevano
fuggire gli uomini durante i rastrellamenti.
Le donne operaie hanno portato la loro coscienza di classe nella
Resistenza;
allo stesso tempo la nuova esperienza acquisita nella partecipazione alla
Resistenza, ebbe il risultato che le donne dei Gruppi citati, già nel 1944, cominciarono
a dare agli stessi un'impostazione più indirizzata alle attività per
favorire l'emancipazione femminile, attività che proseguirono nel dopoguerra.
Infatti, durante la guerra le donne avevano sostituito gli uomini in molti
luoghi di lavoro, sviluppando coscienza di genere e iniziando le prime lotte
per la parità salariale. Raccontava Antonio Pizzinato che nel marzo del 44, quando nelle fabbriche suonarono le sirene che
annunciavano lo sciopero indetto dalle forze della Resistenza, nessuno osava
uscire. Le prime che si fecero coraggio e uscirono furono le donne della
Borletti: a quel punto gli uomini non poterono tirarsi indietro, e cominciarono
ad uscire, finché tutte le fabbriche milanesi furono in sciopero. Ricordiamo
che allora lo sciopero era reato, punito con il carcere e la deportazione.
Ferruccio Parri nel novembre del 1945 disse che senza le donne non ci sarebbe stata la
Resistenza: affermazione importante, purtroppo trascurata per molti anni dalla
storiografia ufficiale, lacuna che venne colmata solo dal 1990, oltre quattro
decenni dopo la Liberazione.
Secondo
i dati dell’ANPI, sono stati stimati i seguenti numeri: 70000 donne organizzate
nei Gruppi di difesa della donna; 35000 donne partigiane, che operarono come
combattenti; 20000 donne con funzioni di supporto; 4563 arrestate, torturate e
condannate dai tribunali fascisti; 2900 giustiziate o uccise in combattimento;
2750 deportate Germania nei lager nazisti; 1700 donne ferite; 623 fucilate
e cadute; 512 commissarie di guerra.
Le
donne che ricevettero medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la
resistenza sono state solo diciannove: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna
Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina
Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani,
Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari. Altre
furono decorate con medaglie d'argento al valore militare: Norma Barbolini,
Joyce Lussu, Valkiria Terradura, oltre alla veneta
Zaira Meneghin, due volte imprigionata e atrocemente torturata dai
nazifascisti, ed entrambe le volte tornata a combattere. Solo una donna
ebbe la medaglia d'oro al valor civile: Rosa Guarnieri Calò Carducci.
Le
partigiane fecero parte sia dei Gap (Gruppi d'azione partigiana), sia delle Sap (Squadre d'azione partigiana). Fra le donne che
parteciparono alla Resistenza ci fu un buon numero di partigiane che ebbero
responsabilità di comando, come la leggendaria Manuela in Valtellina.
Una
menzione particolare meritano la brigata della
comandante Norma Barbolini, in Emilia, composta esclusivamente da donne, e la
“brigata Alice Noli”, composta da sole donne anche nei gradi di comando, che fu
attiva sui monti liguri. Deve il suo nome, come omaggio, ad una giovane
staffetta di Campomorone, paese dell’entroterra genovese, seviziata e uccisa
dalle milizie nere, perché aveva dato sepoltura ad alcuni tra i 147 partigiani
morti nell’eccidio della Benedicta, nell’aprile del 1944. Inoltre, l’8 marzo
1945 le partigiane della ‘Alice Noli’ distribuirono clandestinamente a Genova
20mila volantini e realizzarono oltre 500 scritte sul selciato, per
testimoniare il proprio ruolo nella Resistenza. Infine, va ricordata Gisella Floreanini, ministra della
Repubblica dell'Ossola, prima donna ad assurgere alla carica di ministro in
Italia.
Bisogna ricordare, come fanno notare alcune psicologhe, che
praticamente a tutte le madri toccò il difficile compito di spiegare e
razionalizzare agli occhi di bambine e bambini, ragazze e ragazzi tutto quello
che stava succedendo: incendi, devastazioni, assassinii, stragi, battaglie, o
anche - più semplicemente - la fame.
Il 25
aprile e nei giorni che seguirono vi furono le sfilate nelle città liberate,
prima gli alleati, poi i gruppi partigiani composti dagli uomini, solo in fondo
alla parata alcune donne (e non sempre, perché gli uomini, già partigiani,
anche quelli di sinistra, consideravano scostumato fare sfilare le partigiane
che erano state sui monti con loro. Per questo comportamento ignobile, le
storie uniche e irripetibili di questo meraviglioso esercito femminile finì nel
dimenticatoio, dal quale vennero strappate solo molti anni dopo.
Pregevole,
a questo riguardo, fu il lavoro di varie storiche che raccolsero le
testimonianze e le memorie di molte donne che avevano fatto la Resistenza e ne
fecero dei libri. Inoltre, ci furono ex partigiane che scrissero le proprie
autobiografie come Libere sempre di
Marisa Ombra, Con cuore di donna di
Carla Capponi, Fronti e frontiere di
Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio
di Marisa Musu, Autobiografia di
Maria Teresa Regard.
Si
riporta, in ricordo delle tantissime partigiane italiane, una poesia scritta da
Maria Montuoro che fece la Resistenza in Lombardia, venne arrestata e detenuta
a San Vittore, deportata nel lager di Ravensbrück, trasferita a Siemensstadt in
una fabbrica di armi dove, insieme ad altre donne, boicottò la produzione di
ordigni mortali. Sopravvissuta a quell’inferno, con i suoi scritti, descrisse
le condizioni di non vita nel campo femminile.
DIMENTICARE
Se perdono vuol dire
non desiderare neppure per un attimo
che i vostri crimini ricadano sui figli
innocenti
in questo senso noi perdoniamo.
Se perdono vuol dire
non ammettere neppure
che dobbiate soffrire
lungamente l’agonia
sinché la morte divenga liberazione
in questo senso noi perdoniamo.
Se perdono vuol dire
sperare che anche per voi
sorga il giorno
perché nella ritrovata matrice
in voi rinasca il fratello ucciso
in questo senso noi perdoniamo.
Ma se perdono vuol dire
disperdere la memoria
come al vento la cenere dei morti
chiudere occhi, orecchi
impedire al cervello di pensare
mentre voi sognate altri massacri
altri bagni di sangue, altri roghi
ebbene
cercate altrove
i vostri complici e i vostri servi.
Finché avremo un respiro
un atomo di forza
un lampo di pensiero
li useremo contro di voi
finché quel ventre non sarà isterilito.
Dopo, soltanto dopo
potremo dimenticare.
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