30/11/20

FDIF/FDIM/WIDF 1945-2020 Una storia da raccontare

 Il 1° dicembre di 75 anni fa nasceva la  Federazione Democratica Internazionale delle Donne




Ricordiamo quel giorno (e ciò che ne seguì) riportando l'introduzione al libro di GALINA GALKINA La Federazione Democratica Internazionale delle Donne. Capitoli nella storia (Edizioni Il Raggio Verde, 2017)

Il volume è reperibile in formato ebook: https://www.bookrepublic.it/book/9788899679286-la-federazione-democratica-internazionale-delle-donne/



Una storia da raccontare

di Ada Donno

«È un’emozione per me salutare tante donne d’ogni provenienza, differenti percorsi di vita ed età, che qui rappresentano più di 40 paesi del mondo» disse Eugénie Cotton, prestigiosa allieva di Marie Curie e presidente dell’Unione delle donne francesi, salutando le convenute a Parigi, nel Palais de la Mutualité, quel 26 novembre 1945. Era il primo incontro internazionale di donne dopo la guerra e l’occasione era di quelle che passano alla storia: 850 donne, o forse più, delegate da oltre 180 organizzazioni d’Europa, Nord  e Sud America, Africa e Australia,  a rappresentare virtualmente 81 milioni di donne,[i] avevano risposto all’invito del Comitato d’Iniziativa Internazionale che si era costituito a Parigi nel mese di giugno di quell’anno.[ii] Era stata la stessa Madame Cotton a lanciare l’idea di un congresso internazionale, dal quale far nascere una grande federazione femminile per la democrazia e la pace [iii].

Finalmente, dopo il lavoro febbrile di molti mesi, l’idea diventava realtà. Tra le delegate c’erano ex deportate nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, donne che avevano perduto marito e figli nella guerra, che avevano conosciuto la dura vita della clandestinità e dell’esilio, che avevano combattuto sui campi di battaglia e nelle file della Resistenza europea. Ad esse si aggiunsero donne di altri continenti, alcune venivano da paesi nei quali le lotte contro il colonialismo e per l’indipendenza nazionale erano agli inizi.

Alcune delle presenti avevano nomi conosciuti oltre i confini dei loro paesi, perfino leggendari, come la pasionaria basca Dolores Ibarruri e la combattente dell’Armata Rossa Nina Popova.[iv] La francese Marie Claude Vaillant Couturier era sopravvissuta ad Auschwitz[v]. La britannica Elizabeth Acland Allen era una pacifista nota per aver contribuito ad organizzare il grande Congresso Mondiale della Pace di Bruxelles del ‘36, alla vigilia della guerra. Victoria Kent rappresentava la Spagna antifranchista costretta all’esilio.[vi] Altre erano semplici operaie, delegate sindacali, attiviste, i cui nomi suonavano sconosciuti ai più.

Della delegazione italiana (fra le più nutrite, insieme a quelle di Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico e Francia), facevano parte donne che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale repubblicana e nel movimento femminile, come Camilla Ravera, Ada Gobetti, Maria Romita, Lina Merlin, Maria Calogero, Anna Lorenzetto, Elena Fischli Dreher, Gigliola Spinelli, Rosetta Longo, Marisa Rodano e altre. [vii]

Da quel congresso, il 1° dicembre 1945, nacque la Federazione democratica internazionale delle donne. La grande tragedia del fascismo e della seconda guerra mondiale – la più distruttiva che l’umanità avesse conosciuto – era alle spalle e i sentimenti prevalenti fra la gente, in Europa come negli altri continenti, erano la speranza che gli orrori a cui aveva assistito non si ripetessero mai più e la determinazione a lottare per questo.

«A nome di 81 milioni di donne, facciamo solenne giuramento di aderire allo sviluppo di questa grande organizzazione femminile, nata dopo la seconda guerra mondiale. Facciamo solenne giuramento di lottare …» dichiararono le donne riunite a congresso.[viii] Oggi forse il linguaggio suona antiquato e fra le donne non usa più fare solenni pubblici giuramenti, ma non v’è dubbio che una convinzione profonda e un autentico entusiasmo ispirassero le fondatrici della FDIF, come testimoniò la corrispondente di Noi Donne, che scrisse: «Due italiane, tutt’e due appartenenti all’Udi, Ada Gobetti e Camilla Ravera, fanno parte del Comitato esecutivo della Federazione. Tutte noi donne italiane dobbiamo essere liete e fiere che la lunga attività antifascista delle migliori fra noi, che il nostro apporto alla lotta di liberazione e all’opera di ricostruzione – apporto del quale la nostra grande Udi può a buon diritto rivendicare il merito – abbia permesso al nostro paese d’essere degnamente rappresentato in un organismo internazionale di tanta importanza per l’avvenire dell’umanità».[ix]

«La Federazione nasce perché le donne di tutti i continenti possano lottare unite per la realizzazione dei loro interessi e delle loro speranze», disse ancora Eugénie Cotton, che fu eletta presidente della Federazione e conservò l’incarico fino al 1967, anno della sua morte.[x] E aggiunse, commossa: «Per la nostra bella impresa, abbiamo le stesse ambizioni e lo stesso amore che una giovane madre ha per il figlio che sta per nascerle, e noi vogliamo vegliare sulla giustizia e sulla pace come sulla salute preziosa dei nostri figli».[xi]

Quel momento sarà ricordato a lungo, con tenerezza ancora incredula, dalle donne che vi parteciparono, molte delle quali negli anni successivi divennero dirigenti politiche di primo piano nei loro paesi di provenienza. «Oggi una non s’immagina neppure le difficoltà – raccontava molti anni più tardi Marie-Claude Vaillant-Couturier, che della federazione fu segretaria generale per i primi dieci anni -  costituite dai lunghi viaggi non soltanto per venire da paesi lontani come l’Argentina o l’India con i mezzi di trasporto dell’epoca, ma anche per attraversare l’Europa devastata dalla guerra. L’organizzazione materiale del congresso richiese grandi sforzi, non c’erano le apparecchiature per la traduzione simultanea, come oggi, e le traduzioni si facevano per gruppi ad alta voce in un frastuono spaventoso. Ma non era importante, dominava l’emozione di ritrovarsi assieme, di misurare assieme l’importanza della partecipazione delle donne…”». [xii]

La neonata Federazione scelse di darsi obiettivi che riflettevano i sentimenti e le necessità di quel momento storico: la «lotta contro il fascismo e il militarismo, la sola che può permettere di assicurare le condizioni di una pace durevole», un’azione risoluta per «l’uguaglianza completa di diritti per donne e uomini in tutti i campi  della vita sociale, giuridica, politica ed economica» e per «il rispetto di tutte le libertà fondamentali degli esseri umani, senza distinzione di genere, razza, lingua o credo religioso»[xiii].

Alla comunità internazionale il congresso di Parigi chiese «il rispetto dei principi di uguaglianza di diritti e di autodeterminazione per tutti i popoli» e «del diritto di ciascun popolo a scegliere liberamente, senza ingerenze esterne, la forma di governo che gli conviene».[xiv]  La difesa del diritto dei popoli all’indipendenza nazionale e alle libertà democratiche, la costruzione della pace e del disarmo universale apparivano un compito fondamentale delle donne. Già presaghe dei nuovi pericoli che si paravano all’orizzonte, le convenute a Parigi chiesero che l’energia atomica fosse messa «al servizio del progresso e della pace e posta sotto il controllo delle Nazioni Unite».[xv] Uscendo dalla più mortale delle guerre, scatenata dal fascismo, era comprensibile che le questioni della democrazia  e della pace fossero poste in primo piano.

A farsi interprete di questa preoccupazione fu soprattutto Dolores Ibarruri, con la veemenza del suo eloquio trascinante[xvi]: «I nostri cuori di donne e di madri battono d’una indignazione violenta pensando che, mentre ancora sanguinano le ferite della guerra, mentre le rovine delle città distrutte ancora ci si parano davanti, tragica testimonianza di un passato d’orrore, vi siano persone che non soltanto ricominciano a parlare di guerra, ma si preparano a nuove aggressioni”[xvii].

Tuttavia c’era anche piena consapevolezza che nessuna vera democrazia si sarebbe costruita, nessuno sviluppo economico e sociale equo sarebbe stato possibile finché le donne non avessero goduto della pienezza dei loro diritti. Di tutti i diritti, in campo politico, economico, giuridico e sociale.[xviii]

«Il nostro incontro di oggi – ammonì Eugénie Cotton – è un evento storico di cui dobbiamo sottolineare l’importanza e la novità. I milioni di lavoratrici di tutti i paesi che hanno inviato delegate a questo Congresso sono oggi anche elettrici. Non solo possono esprimere dei desideri su tutte le questioni che le interessano, ma possono mettere al servizio delle loro rivendicazioni l’autorità dei loro voti. Questa autorità è grande, e noi ne abbiamo coscienza»[xix].

Alle “donne del mondo” fu proposto un programma d’azione con il lungo elenco dei diritti da conquistare e difendere «in quanto madri, lavoratrici e cittadine, per la difesa del diritto alla vita e al futuro per i loro figli, ».[xx]

Su questo punto occorre soffermarsi e insistere.

25/11/20

25 novembre giornata mondiale per l'eliminazione della violenza contro le donne


QUALE VACCINO CONTRO LA PANDEMIA DELLA VIOLENZA DI GENERE?*



di Ada Donno

La ricorrenza del 25 novembre, Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, arriva quest’anno sull’onda della denuncia dell’aumento esponenziale, in ogni paese colpito dall’emergenza sanitaria del Covid-19, delle violenze sulle donne, specialmente nei contesti intrafamiliari.

I centri antiviolenza riferiscono che, nei mesi di marzo e aprile, in Italia il numero di richieste di aiuto per violenze su donne e bambini è raddoppiato e che, nelle ultime settimane, la riproposizione delle misure restrittive per fermare la diffusione dei contagi torna a pesare soprattutto sulle donne, in diversi modi, incluso quello dell’aumento della violenza.  

Il rapporto annuale delle Nazioni Unite conferma che il fenomeno è globale: a qualunque latitudine, per molte donne, trovarsi forzatamente in casa con un partner violento, non poter aver accesso liberamente ai numeri antiviolenza, subire la perdita del lavoro con la conseguente rinuncia alla propria autonomia e alla propria indipendenza economica, è un triste effetto collaterale della pandemia.

Ma se le forme di violenza che le donne subiscono sono varie, la radice – lo diciamo da decenni e finalmente sembra stia diventando pensiero diffuso -  è una: l’oppressione patriarcale che si perpetua nella disparità e asimmetria persistnte nei rapporti fra uomini e donne nel pubblico e nel privato, a cui va ascritta ogni forma di violenza contro le donne, dal rigurgito integralista di gruppi sociali all’aggressione violenta e improvvisa in forma individuale. Ogni sopruso e prepotenza compiuti dalla parte maschile della società contro la parte femminile è il retaggio di un ordine patriarcale le cui regole - anche là dove sono formalmente rinnegate - sopravvivono in codici di comportamento accettati o tollerati, in ordinamenti sociali inqui  e nelle pieghe delle leggi di uno Stato democratico. Ogni violenza è riconducibile alla radice comune della percezione del corpo della donna come “cosa violabile”, che si può velare, nascondere (o esibire come merce, dipende da circostanze e latitudini), usare, sfregiare e, perché no, annientare.

L’Organizzazione mondiale della sanità stima che una donna su tre abbia subito violenza fisica e/o sessuale almeno una volta nella vita. Ma avverte anche che questa cifra è solo la punta dell’iceberg, a causa dello stigma e la vergogna che questa forma di violenza porta con sé, che colpisce le vittime e lascia impuniti i colpevoli.

Il riconoscimento ufficiale della “violenza di genere” nella sua specificità è stato peraltro l’approdo di un percorso non facile né breve. Grazie alle pressioni del movimento femminista internazionale, venne introdotta per la prima volta nella Dichiarazione di Vienna del 1993, a chiusura della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani tenutasi nella capitale austriaca. “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia – si diceva finalmente nella Dichiarazione - è una violazione dei diritti umani delle donne che va contrastata sia in pubblico che in privato e i governi devono assumersi la responsabilità di farlo”. 

Nelle Conferenze del Cairo del ‘94 e di Pechino del ‘95 si cominciarono a dare le cifre globali e si definirono le diverse aree di violenza contro le donne: da quelle compiute all'interno della famiglia agli stupri di guerra, a quelle legate alla prostituzione e al traffico internazionale delle donne, o a pratiche tradizionali e intolleranza religiosa; fino ad ogni forma di violenza legata al ruolo riproduttivo delle donne che impedisce loro di decidere della propria sessualità e maternità. Da qualche decennio in qua si è aggiunta una nuova forma di violenza, virtuale ma non meno feroce, perpetrata attraverso le reti sociali. 

La giornata mondiale del 25 novembre, proclamata dalle Nazioni Unite nel dicembre del ’99, è stata importante per favorire l’emersione del fenomeno, tanto antico e occultato, quanto diffuso e trasversale. Talmente esteso da non poter essere riducibile a sacche di arretratezza culturale, ad appartenenze di tipo etnico, economico, o religioso, come confermano i rapporti annuali dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani. La ricorrenza fu scelta in ricordo delle tre sorelle Mirabal, attiviste antifasciste della repubblica dominicana trucidate, il 25 di novembre di sessant’anni fa, per ordine del dittatore Trujillo. 

L’Europa ha sancito il suo impegno per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica con la Convenzione di Istanbul del 2011, insistendo specialmente sugli interventi legislativi da adottare nei paesi membri. Ma ci sono sette paesi del Consiglio d’Europa che non l’hanno ancora ratificata: Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Slovacchia, Lettonia, e perfino (seppur per altri motivi) il Regno Unito. 

L'opposizione di questi paesi, oltre a bloccare tuttora l'adesione complessiva del Consiglio alla Convenzione (e a creare imbarazzo negli altri componenti), indebolisce oggettivamente l’efficacia di iniziative come Spotlight initiative, il piano d’azione lanciato con grande enfasi dall’Unione europea, in partnership con le Nazioni Unite nel 2017, e anche la Strategia sui diritti delle vittime, annunciata più di recente dalla Commissione europea per potenziare i servizi di pubblica utilità contro la violenza sessuale e domestica. Come se non bastasse, i governi di Ungheria e Polonia minacciano, un giorno sì e l’altro pure, di ritirare addirittura la firma, mentre nella stessa Turchia, che fu il primo paese a ratificarla nel 2012, cresce il rumore integralista contro questa Convenzione che minerebbe la salute della famiglia tradizionale! 

E in Italia? L’osservatorio femminista sempre all’erta denuncia da qualche anno una recrudescenza degli attacchi, aperti o subdoli, ai diritti delle donne e ai luoghi organizzati delle donne: da parte delle destre integraliste in materia di sessualità e riproduzione; da parte di politiche obbedienti ai dettami neoliberisti che impongono tagli drastici allo stato sociale e promuovono nuove forme di sfruttamento del lavoro femminile; da parte di amministrazioni locali che puntano allo sgombero degli spazi in cui operano i collettivi femministi che gestiscono i centri antiviolenza. 

Ecco perché per questo 25 novembre, come ogni anno, si organizzano eventi in ogni città, anche se per forza di cose in modalità online: per dire alla società tutta che i percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere sono attivi anche al tempo della pandemia; per dire alle istituzioni di governo, da quello centrale a quelli locali, che serve a poco un approccio al problema di tipo emergenziale, che si limiti a prendere misure “speciali” sull’onda emotiva dell’ultimo femminicidio.

Serve potenziare i centri antiviolenza e accoglienza delle donne che subiscono abusi, potenziare il servizio telefonico di pubblica utilità contro la violenza domestica, ma servono soprattutto interventi strutturali, serve allargare gli spazi di agibilità democratica per le donne, per farle uscire dalla condizione di minorità in cui ancora in molte realtà sono confinate; servono politiche organicamente mirate a colpire le sacche di emarginazione e segregazione sociale che ancora coinvolgono le donne. Serve valorizzare la presenza femminile nella sfera pubblica contro ogni discriminazione possibile, supportando i percorsi di emancipazione e liberazione femminili di tutte le donne, native e migranti. A cominciare dall'accesso al lavoro: l’Italia è uno dei paesi europei in cui le donne sono meno attive nel mercato del lavoro, circa il 56%, percentuale lontana dalla media europea del 68%.

Serve infine, ultima ma non per ultima, costruire la cultura del rispetto a partire dalla scuola, dal linguaggio e dal senso delle parole, lavorare per rompere modelli relazionali ed educativi patriarcali. Serve snidare la cultura che produce la violenza e costruire una nuova convivenza basata sull'idea condivisa della libertà femminile, che ha inizio nell'inviolabilità del corpo delle donne. Da questa prospettiva, il percorso da realizzare è ancora lungo..

*già pubblicato su: https://www.ventidiponente.it/index.php

 

15/11/20

21 novembre mobilitazione in tutta Italia

 Fuori dall’economia del profitto, per la società della cura




Gruppi, singole donne e uomini, comitati, reti associative e di movimento, realtà studentesche, lavorative, sindacali e ricreative sono chiamate a dar vita in tutte le piazze del Paese (nel pieno rispetto delle norme anti-Covid) ad una grande giornata di mobilitazione per proporre un piano di radicale conversione sociale, economica, ecologica, e culturale capace di trovare una risposta equa e unitaria alle crisi sanitaria, economica, ambientale e climatica che stringono alla gola le nostre società 




Alcune cose da  fare subito:

  • Reddito per tutt* e aiuti adeguati fino alla fine dell’emergenza sanitaria
  • Vigilanza costante sul rispetto delle misure di prevenzione, salute e sicurezza in tutti i luoghi di lavoro
  • Investimenti e assunzioni per garantire sanità e istruzione pubbliche, infrastrutture sociali, accoglienza, casa, trasporti
  • Un piano di prevenzione primaria a tutela di salute, vita, beni comuni e territorio

Dove recuperare le risorse

  • Tassa straordinaria su tutti gli alti redditi, patrimoni e rendite
  • Riduzione drastica delle spese militari
  • Abrogazione dei sussidi ambientalmente dannosi, tasse sulle emissioni di gas climalteranti e sulla plastica monouso
  • Blocco delle opere – grandi e piccole – dannose per l’ambiente, il clima e la salute
  • Utilizzo fondi di Cassa Depositi e Prestiti per gli investimenti pubblici sui servizi

09/11/20

Palestina / Liberate Khitam Saafin!


Esigiamo dallo Stato di Israele il rispetto dei diritti umani e il rilascio di Khitam e di tutti i detenuti politici palestinesi. Esigiamo il ritiro delle forze di occupazione israeliane dai Territori Palestinesi e il pieno riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina, con  Gerusalemme
capitale.


Il 2 novembre 2020, le forze di occupazione israeliana hanno arrestato a Beitunia, città palestinese nelle vicinanze di Ramallah, Khitam Saafin, attivista palestinese, dirigente dell'Unione Generale delle donne palestinesi (GUPW) e leader dei Comitati femminili palestinesi, dopo un assalto la sua casa. Ancora un’altra leader della resistenza palestinese arrestata e trattenuta in detenzione “amministrativa” dalle autorità israeliane, vale a dire senza formulare a suo carico precisi atti di accusa, in evidente violazione del diritto internazionale. 

Khitam Saafin è l’ennesima vittima della sistematica campagna di arresti mirata a colpire le figure preminenti della lotta contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e per il rilascio dei tanti prigionieri palestinesi detenuti in condizioni estremamente difficili, senza tener conto dei diritti umani e delle precauzioni sanitarie minime, soprattutto di fronte all'attuale situazione epidemiologica.

L’Awmr Italia – Donne della Regione Mediterranea accoglie l’invito rivolto dall’Unione Generale delle Donne Palestinesi alla comunità internazionale, particolarmente alle organizzazioni delle donne e per i diritti umani, a lanciare una campagna di solidarietà a sostegno del rilascio di Khitam e degli altri prigionieri politici palestinesi che sono vittime di arresti arbitrari e di detenzione amministrativa.

Accogliamo l'invito a fare del prossimo 28 novembre 2020 una giornata internazionale di azione contro le politiche di Apartheid e di annessione messe in atto da Israele nei Territori Palestinesi, per il pieno riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina con Gerusalemme capitale.

Esigiamo dallo Stato di Israele il rispetto dei diritti umani e dell'autodeterminazione del popolo palestinese.

Esigiamo dalle autorità israeliane che cessino le politiche di detenzione amministrativa, isolamento e sequestro di donne e uomini attivisti della resistenza palestinese, che costituiscono una grave violazione dei diritti umani fondamentali, delle norme e dei patti internazionali come la Convenzione di Ginevra, oltre che la negazione dei valori umani e morali più elementari.

Awmr Italia – Donne della Regione Mediterranea

(Ufficio europeo della Federazione Democratica Internazionale delle Donne)

Roma, 6 novembre 2020

#StopAnnexation  #EndApartheid  #DayOfAction

08/11/20

Palestina / Solidarietà del MDM (Portogallo) a Khitam Al-Saafin

 Con le donne palestinesi e il loro popolo in lotta per la vita e l'indipendenza nazionale

Il 29 novembre, giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, leviamo un grido a una sola voce: ora più che mai, la pace in Medio Oriente e nel mondo esige la giusta soluzione della Questione palestinese.



Il Consiglio Nazionale del Movimento Democrático de Mulheres(MDM) esprime preoccupazione per le continue detenzioni arbitrarie “amministrative” di Palestinesi - uomini, donne e ragazzi – da parte delle forze di occupazione israeliane. Ci preoccupano le condizioni a cui sono soggetti nelle carceri israeliane e le intimidazioni permanenti nelle diverse aree della Cisgiordania, che hanno l’obiettivo evidente di piegare e punire gli attivisti che lottano in difesa del popolo palestinese e della sua indipendenza e legittimità internazionale riconosciuta dalle Nazioni Unite.

Esprimiamo la solidarietà dell’MDM a Khitam Al-Saafin, della segreteria dell’Unione Generale delle Donne Palestinesi, incarcerata illegalmente lo scorso 2 novembre, e a tutte le attiviste palestinesi che lottano per i loro diritti e quelli del loro popolo minacciato e con le vite distrutte per mano del regime sionista israeliano.

Esigiamo il rilascio immediato di Khitam e dei ragazzi palestinesi arrestati, la liberazione di tutti i prigionieri politici. Dichiariamo la nostra solidarietà totale con la giusta lotta delle donne e del popolo palestinesi, moltiplichiamo i nostri sforzi per una Palestina libera e indipendente, per la Pace nella regione.

Il 29 novembre, giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, leviamo come donne portoghesi e donne del mondo intero un grido a una sola voce: è tempo di realizzare la pace in Palestina, di esigere la creazione dello stato di Palestina con capitale Gerusalemme, il ritorno dei profughi, la liberazione dei prigionieri, la consacrazione del diritto alla terra. Ora più che mai, la pace in Medio Oriente e nel mondo esige la giusta soluzione della questione palestinese.

Lisbona, 7 novembre 2020

Movimento Democratico delle Donne (MDM)

Ingl.

The National Council of the Democratic Women's Movement (MDM - Portugal) expresses concern about the continued arbitrary “administrative” arrests of Palestinians, men, women and children by Israeli forces. It is concerned about the conditions to which they are subjected in Israeli prisons and the continuing intimidation in different areas of the West Bank with the clear aim of intimidating and punishing activists in defense of the Palestinian people and their independence and international legitimacy declared by the United Nations.

We express MDM's solidarity with Khitam Al-Saafin, member of the of the General Secretariat of the General Union of Palestinian Women, illegally jailed on the 2nd of November and to all Palestinian women activists fighting for the rights of women and people who are threatened and their lives destroyed by the hand of Israel's fascist and Zionist regime.

We demand the immediate release of Khitam, as well as of all the children, youth and all political prisoners in Palestine.

We reinforce our total solidarity with the just struggle of women and the Palestinian people for a free and independent Palestine and we will multiply our efforts for Peace in Palestine.

On the 29th of November, International Day of Solidarity with the Palestinian People, we call on Portuguese women and women of the world, a cry with one voice. It is time to fulfil and enforce Peace in Palestine. We demand the creation of the State of Palestine with its capital in Jerusalem, the return of refugees, the release of prisoners, the consecration of the right to land. More than ever, peace in the Middle East - and in the world - demands a solution to the Palestinian problem.

Lisbon, 7th of November 2020