Il 5 febbraio l’assemblea plenaria della rete “Società della cura” si è riunita per proporre una lettura dal punto di vista femminista del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), predisposto dal governo italiano in applicazione del Next Generation EU. La discussione, molto partecipata e competente, è partita dal testo critico (che qui riportiamo) redatto dal “Gruppo di lavoro per una lettura femminista del PNRR”. Pur considerando l’eventualità che il cambio di governo in atto comporti modifiche anche sostanziali al PNRR, l’assemblea ha tuttavia convenuto che l’analisi dell’attuale piano resta una buona base di partenza per valutare anche il prossimo.
Questa lettura femminista del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e Next Generation EU è proposta da un
gruppo di donne che ha analizzato i principi di fondo del PNRR e le diverse
proposte che contiene. Ci sembra utile, all’interno del percorso della “Società
della Cura”, condividere questa lettura che non riguarda solo le donne, ma invita
donne e uomini a ragionare con l’orizzonte di un diverso modello sociale,
sulla necessità di una rivoluzione nelle relazioni fra generi, di un
superamento della storica separazione gerarchica fra produzione e riproduzione,
domestica e sociale, e di un cambiamento radicale nei processi
decisionali relativi sia alla distribuzione della ricchezza prodotta che al che cosa e come produrre.
Il PNRR non rappresenta un cambiamento / Il paradigma della cura
Stiamo vivendo una crisi multipla, pandemica ma anche economica,
sociale, politica e culturale. Tale crisi è trasversale ma non neutra, perché nasce
e vive dentro una società nella quale le appartenenze di genere, di classe e di
origine geografica determinano asimmetrie di potere e di status, non colpendo
tutte e tutti allo stesso modo. Le donne, ancor di più se di classe sociale
impoverita e/o migranti, pagano e pagheranno a livello globale un prezzo
altissimo in termini di diritti e di condizioni di vita, di ulteriore
marginalizzazione economica e sociale. Aggiungiamo che il confinamento ha
comportato una maggior esposizione alle violenze maschili, con un aumento
esponenziale di violenza domestica, oltre a una preoccupante ripercussione
sull’applicazione della 194: diversi ospedali, impegnati contro il coronavirus,
hanno sospeso le IVG dichiarandole interventi non urgenti!
Quali siano i soggetti sociali più colpiti è chiaro! Per questo vogliamo agire di conseguenza, conducendo il conflitto dentro e fuori le istituzioni. Il PNRR, non riconoscendo le differenti condizioni materiali di donne e uomini, non avanza proposte capaci di rispondere ai bisogni concreti. È un programma politico che respinge il cambiamento e nega di fatto la soggettività delle donne, non riconoscendone l’unitarietà nella varietà delle scelte e fasi della vita - donne giovani, anziane, madri se vogliono, lavoratrici – in quanto soggetto che si autodetermina. Noi abbiamo una visione diversa: le donne sono più della metà della popolazione, sono soggetti di diritti, sono protagoniste.
Il PNRR rappresenta la ricaduta italiana delle
politiche europee decise durante la epidemia di Covid 19 per affrontare
il conseguente tsunami economico, sociale e umano a cui sono sottoposti uomini
e donne di questo pianeta. L’allarme è sanitario, sociale, ecologico,
umano. Tutto dovrà cambiare, si diceva.
Cosa è rimasto di quel grido?
Il PNRR procede in continuità sostanziale con il passato,
caratterizzato da politiche di austerità che hanno scientemente eroso gli spazi
di libertà e di autodeterminazione che le Costituzioni del secondo dopoguerra
avevano aperto e le lotte degli anni 70’ e 80‘ allargato.
L’ordine dei tre assi strategici - innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione
sociale - è implicitamente gerarchico: mette al primo posto il
salto tecnologico della innovazione e digitalizzazione, presupponendone la neutralità
sociale e di genere; al secondo la transizione ecologica, declinata in modo
ambiguo e contraddittorio; per ultima colloca la inclusione sociale, vista
prevalentemente come induzione, organizzazione e conservazione del consenso, prevenzione del conflitto
sociale e di genere, che sarà inevitabile, date le disuguaglianze in aumento, mai declinate in
tutte le loro facce e causalità, a partire da quelle di genere.
L’obiettivo di portare il tasso di occupazione femminile ai
livelli medi europei viene finalizzato
all’aumento del PIL, indicatore di crescita economica fortemente criticato
dal femminismo perché inadeguato e ingannevole misuratore del benessere, in
quanto non dà conto della distribuzione del reddito, delle esclusioni sociali,
della qualità della vita. Noi proponiamo
la cura come nuovo paradigma politico-sociale dentro il quale declinare il
benessere, i diritti e le libertà delle donne e degli uomini.
Cura di sé e cura degli altri appaiono nel nostro tempo,
diversamente da tempi lontani, come quello della civiltà greca,
irrimediabilmente separate, con la conseguente perdita del senso politico che
accompagnava la loro unione.
Una società fondata sulla cura oggi significa mettere la cura della vita, delle relazioni,
dell’ambiente, della produzione e riproduzione sociale, del mondo, al centro di
un nuovo modello sociale. Adottare il paradigma vuol dire in primo luogo
valorizzare tutti coloro che si prendono cura delle persone e della nostra
terra (comunità competente), l’interconnessione che produce solidarietà, e
riconoscere il prendersi cura della persona come ingrediente della
cittadinanza.
La transizione ecologica
In relazione a quella che viene definita la transizione ecologica
e rivoluzione verde, la nostra riflessione ha riguardato le politiche
energetiche e quelle agricole perché strettamente connesse con il paradigma
della cura. Arundhati Roy, scrittrice indiana e attivista ecofemminista, ha
scritto: «Per prepararci a quanto ci aspetta, per attrezzarci di strumenti con
cui pensare l’impensabile, le vecchie idee non serviranno». Il PNRR manca di
una visione sul bene comune, ci sono parole
vuote e riferimenti superati nella parte in cui si fonda su crescita,
sviluppo sostenibile, consumo, impresa, puntando sulla grande industria, l’infrastruttura pesante, l’alta
velocità, i nuovi porti. Non c’è più bisogno di grandi opere invasive ed
onerose, ma di un’opera complessiva, da nord a sud, di messa in sicurezza e
protezione dei nostri territori locali, feriti da dissesto idrogeologico e da
attività predatorie. La fragilità dei nostri territori e dell’ambiente intorno
a noi è la fragilità dei nostri corpi, delle nostre vite.
Si è persa l’occasione di realizzare un
cambiamento in senso ecologico della visione sociale, culturale, politica,
economica mettendo al centro la cura della vita, dei corpi, delle persone, di
tutti gli esseri viventi, della natura, dei beni comuni, delle città,
dell’ambiente complessivo. Il PNRR non realizza una rivoluzione ecologica
sostenibile delle energie e del loro approvvigionamento, trascura l’aspetto
della democratizzazione e della generalizzazione dell'accesso all'energia e la
connessione tra questa questione e il mondo del lavoro. Una transizione giusta
è essenziale se l'economia globale vuole passare a un'economia a basse
emissioni di carbonio e capace di evitare danni climatici
catastrofici.
I governi, le
istituzioni internazionali, le imprese, i sindacati, la società civile, le
comunità ed anche gli investitori pongano sempre più attenzione ai posti di
lavoro e ad una dimensione sociale più ampia della transizione. Dato che la
percezione di molti/e è che le grandi imprese stiano bloccando la transizione
energetica, dovrebbero prevalere i movimenti per la giustizia sociale e
climatica, un’opposizione collettiva alle soluzioni del mercato motivate dal
fine di lucro, basandosi sulle diverse forme di democrazia energetica che si vanno
proponendo in Europa. La democrazia energetica richiede la creazione di un
sistema energetico socialmente più giusto, sostenibile e controllato collettivamente. Per rispondere
all'emergenza ambientale occorre staccarsi dalla visione capitalistica di
crescita e consumi illimitati e diffondere il concetto del vivere bene,
partendo dal territorio e dalla sua popolazione e dando riconoscimento alle
tante alternative esistenti.
Le proposte devono
tener conto del legame tra salute e clima, della distorsione di genere nelle
malattie legate alla crisi ambientale e agli sfollamenti forzati, in un sistema
basato su frontiere e respingimenti. Questi processi violenti sono parte degli
scenari di sfruttamento globale, di cui fanno parte le rotte migratorie, la
tratta degli esseri umani, prevalentemente di donne e bambini, le leggi inique
sull'immigrazione, i meccanismi che criminalizzano la povertà, i processi di
rottura del tessuto sociale... e qualsiasi proposta di transizione eco-sociale
dovrebbe tenerne conto al fine della trasformazione. Poiché il
cambiamento climatico aumenta la vulnerabilità delle donne e il divario di
genere, è fondamentale l’impegno del movimento femminista sull’ambiente per
salvare il pianeta e l'umanità, per contrastare le disuguaglianze. Le donne, e
in particolare le donne povere e tutte quelle soggette a discriminazioni, sopportano il peso
maggiore dell’impatto climatico, mentre si dimostrano essenziali per
rispondere al cambio climatico, piantando alberi, riciclando rifiuti, indicando
minor consumo di carne e mille altre misure. Non è un caso che l’agricoltura,
ed in particolare l’agricoltura femminile, sia assente dal PNRR.
Agricoltura
All’agricoltura nel
Piano vengono dedicate poche righe
con la generica definizione “agricoltura sostenibile e di precisione”. “Agro-ecologia”
non compare, né agricoltura biologica. “Biodiversità” è sconosciuta. Non si
considera che circa un terzo delle emissioni serra è legato al cibo e quasi un
quarto può essere direttamente ricondotto all’agricoltura e all’uso del suolo.
Tale impostazione appare ancora più grave in relazione ad altre forme di
finanziamento delle politiche agricole europee, Politica Agricola Comune (PAC)
in primis, le quali prevedono che il 60% dei fondi non sia vincolato a pratiche agroecologiche e
hanno permesso che l’80% dei fondi andasse ad appena il
20% delle aziende agricole, imprese di grandi dimensioni, per produzione
industriale e allevamento intensivo. Questa impostazione è evidente nell’esiguità dei fondi da investire
(Missione 2) nella
linea Agricoltura sostenibile (5 mld), ma soprattutto nella grande assenza
dell’imprenditoria agricola femminile, esempio di sostenibilità e resilienza.
Le donne rappresentano la visione dell’agricoltura del futuro, basata su produzioni salubri, compatibilità ambientale,
innovazione, rilancio delle aree rurali, che andrebbe promossa e valorizzata
con politiche coraggiose e risorse adeguate. In questo senso, un “nuovo patto
per la terra” non può che partire dalle donne: risorsa indispensabile e uno dei
driver vincenti per il progresso del settore e dell’economia di un paese che
pone il benessere come cifra del suo sviluppo. La presenza delle donne in
agricoltura è la chiave per realizzare gli obiettivi di crescita produttiva e
tutela di biodiversità e tradizione. L’affermarsi dell’imprenditoria femminile,
come scelta non solo economica ma di vita, ha largamente contribuito, ad
esempio, a riequilibrare la forte polarizzazione del mercato agricolo italiano
contrastando la tendenza alle colture e agli allevamenti intensivi, attraverso
indirizzi produttivi diversificati, rendimenti più contenuti, attività con un
uso più intensivo del lavoro, orientandosi verso un modello multidimensionale,
sviluppando canali commerciali diversi e complessi. Si pensi alla nascita dei
Gas o dei Gac o ad altri esempi di piccola distribuzione commerciale
specializzata improntata alla filiera corta e al rapporto diretto con il
consumatore.
L’affermarsi della
occupazione femminile agricola avrà la funzione di coniugare i
bisogni umani e le risorse naturali, le imprese agricole femminili costruiranno
un nuovo modello di agricoltore, che produce cibo sano e di qualità, collabora
con la ricerca scientifica, anticipandola e seguendola nei suoi progressi in
campo alimentare e nutraceutico, aprendosi a tutte le produzioni possibili,
sperimentando nuove fibre, nuovi materiali per bioplastiche, fornendo
agroenergie, generando paesaggi unici, insegnando ai bambini il valore
dell’ambiente e del cibo. Riteniamo quindi che il PNRR debba essere
riformulato, soprattutto attraverso finanziamenti e riforme strutturali che
favoriscano la crescita dell’economia agricola femminile, sul versante
dell’imprenditorialità come del lavoro salariato, con modifica di investimenti
e finanziamenti per l’avvio di imprese agricole femminili a vocazione biologica
e multidimensionali. Questo significa anche inclusione sociale. Per le
donne migranti, le donne vittime di violenza domestica, le donne sole con
figli, le donne che vivono un disagio socio-economico e di marginalità, le
donne che verranno espulse dal mercato del lavoro in conseguenza della crisi
economica post Covid, l’agricoltura può rappresentare un’occasione per riacquistare
un protagonismo attivo, che rilanci anche culturalmente la centralità delle
donne in un futuro diverso.
Occupazione femminile, produrre e riprodurre
Un obiettivo
dichiarato dal PNRR è l’eliminazione del gender
gap, in realtà il risultato sarà il mantenimento dello status quo, nel
quale rientra anche la perpetuazione della marginalizzazione delle donne,
nell’ambito del mercato del lavoro e della società. Il PNRR considera l’accesso
al lavoro delle donne tra gli obiettivi dell’inclusione sociale, non
l’esercizio consapevole di un diritto, della cittadinanza e della propria
soggettività. Non identifica le cause della disparità di genere nel mondo del
lavoro, né tiene conto del fatto che l’attuale crisi è generata dagli squilibri
dell’organizzazione sociale e del sistema di riproduzione. Non è più possibile
programmare la produzione senza farsi carico della riproduzione delle persone,
dell’ambiente e del mondo, possibilmente in pace. Questo PNRR ha un orizzonte miope. La trasversalità dichiarata degli
obiettivi rischia di restare sulla carta, in assenza di politiche finalizzate a
risultati attesi.
Questa “crisi della
cura e della riproduzione sociale”, ha messo in evidenza la fragilità di una
organizzazione sociale che lascia le
donne, le loro intelligenze, le loro risorse fuori dai luoghi decisionali della
organizzazione sociale. La parità di genere sul fronte occupazionale ne
presuppone un cambiamento profondo, attraverso investimenti pubblici che
rimuovano gli ostacoli alla piena partecipazione delle donne nei lavori e nelle
decisioni. L’aumento dell’occupazione delle donne è dichiarato un obiettivo
prioritario e trasversale del piano, ma non viene declinato in obiettivi
misurabili nella programmazione degli interventi. Una nuova società fondata sulla
cura e non sul profitto non promuove gli aspetti
meramente quantitativi della produzione, né i meccanismi di competizione finalizzati al massimo profitto. Il
PNRR dichiara che i massicci investimenti annunciati nell’innovazione
tecnologica e digitale sono funzionali a creare nuovi posti di lavoro,
promuovere l’istruzione e aumentare la competitività in un contesto di green
economy al fine di migliorare la vita dei cittadini. Ma quali posti di lavoro?
Per chi? In che condizioni? Rispondere a queste domande sarebbe stato doveroso,
vista anche la grande quantità di risorse che viene assegnata alla
digitalizzazione.
Sul versante della “riproduzione sociale” spesso sono le donne migranti a svolgere il lavoro
di cura rappresentando un’alternativa al welfare familistico. In questo
senso il lavoro di cura retribuito e non retribuito si incrociano, come le
storie e i percorsi delle donne, dentro un contesto culturale e giuridico di
misconoscimento del lavoro di cura, in una visione che confonde donne e
welfare, come se quest’ultimo fosse appannaggio femminile e servisse solo alle
donne.
Nel PNRR le politiche di
genere vengono in più punti confuse con le politiche definite per la famiglia,
e considerate una cosa sola. Le donne non sono “famiglia”, sono soggetti di
diritti, tra cui il diritto al lavoro e alla autodeterminazione.
La mancanza di un reale approccio di eguaglianza di genere e
sociale rende il PNRR totalmente inadeguato ad affrontare ciò che si potrebbe
definire una riscrittura del patto sociale alla base della possibilità di vita
migliore per questa e per le prossime generazioni. Per farlo servono misure
concrete per la ripartizione dei lavori di cura all’interno dei nuclei
familiari, come prevedere l’aumento e l’obbligatorietà per tutte/i dei congedi
parentali, anche per i padri nei primi anni di vita delle/dei figlie/i; congedi
usufruibili contemporaneamente da entrambi i genitori per la gestione comune
della prole.
Quanto al ricorso al lavoro di cura o domestico salariato, deve avvenire nel pieno rispetto dei diritti del lavoro, compreso quello delle donne migranti per le quali un lavoro regolare sicuro e ben pagato può fare realmente la differenza. In questo discorso vanno incluse le donne richiedenti asilo, che hanno affrontato gli orrori dello sfollamento, della criminalità connessa alla migrazione e delle politiche dei respingimenti. Un Piano che promette l’inclusione sociale dovrebbe prevedere misure volte a favorire i percorsi di accoglienza e di integrazione dei cittadini stranieri, soprattutto delle donne.
Digitalizzazione
La digitalizzazione può aumentare le disuguaglianze anche tra i
generi in quanto processo di riorganizzazione del lavoro non neutro.
Comunemente con il termine digitalizzazione si intende l'introduzione nei
processi lavorativi di nuove tecnologie digitali sostitutive o trasformative.
È importante capire se ci sono e quali sono per le donne i rischi e le
opportunità, visto che il PNRR pone la digitalizzazione non solo al centro
delle politiche di sviluppo economico, equo e sostenibile del paese, ma la
mette al primo posto come fattore di rimozione delle disuguaglianze di genere,
a partire dal mercato del lavoro. Le insidie sono molte, i pregiudizi e gli
stereotipi di genere che investono questo settore sono radicati ad ogni
livello. Spesso nel ragionamento sulle cosiddette discipline STEM si parla di
gender gap, di orientamento e politiche di “segregazione positiva”, di divario
nel mondo dell’istruzione che si riflette nel mondo del lavoro. Ma è un punto
di vista parziale. La digitalizzazione può rappresentare, se sottratta alla logica capitalista e patriarcale , una grande
opportunità per rilanciare un nuovo modello sociale al femminile. Esiste una
consolidata abilità del pensiero femminile all’implementazione tecnologica. Le
donne devono semplicemente essere messe nelle condizioni di sviluppare un
talento che è molto più femminile di quanto si creda, e che potremmo
chiamare una "naturale" vocazione alla praticità, al fare. Di questo
la tecnologia può godere molto. Nel momento in cui si passa dalla catena
di montaggio alla rete di menti pensanti questo argomento assume una maggiore
rilevanza. Pensare la tecnologia significa pensare il mondo. La rivoluzione
digitale ha bisogno di intelligenza e le donne ne hanno da vendere, insieme a
capacità relazionali, nonostante che, per ostacoli prevalentemente culturali,
ancora non ingrossino le fila dei laboratori e dei corsi di scienza e
tecnologia.
La digitalizzazione che emerge dal PNRR invece rappresenta un’operazione
neutra, funzionale, è in sintesi un investimento economico importante, dedicato
in minima parte alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, mentre la
parte maggiore della missione è dedicata alla componente “Innovazione,
competitività, digitalizzazione 4.0 e internazionalizzazione” delle imprese.
Senza una valutazione, meno che mai di genere, sui risultati attesi e sulle
strategie per raggiungerli. La logica rimane quella fordista dei processi
produttivi, dove la digitalizzazione è
solo una nuova versione della meccanizzazione. Non c’è traccia nel PNRR di
un’azione per accrescere le competenze digitali sia degli impiegati pubblici
sia dei/delle cittadini/e potenziali fruitori dei servizi online. Senza
affrontare il tema del diffuso analfabetismo digitale nella popolazione, mentre
si pensa di telematizzare di fatto l’esercizio dei diritti, si verificherà un
minore protagonismo della popolazione, con effetti maggiori sulle donne
anziane, sulle donne straniere, sulle donne con un basso livello di
istruzione.
Un altro rischio che si intravede riguarda gli effetti che la
digitalizzazione comporterà per l’occupazione femminile. La trasformazione
digitale rafforzerà o indebolirà la posizione delle donne nel mercato del
lavoro? Sono principalmente due le variabili che saranno introdotte dalla
digitalizzazione: l’automazione e la maggiore flessibilità nelle modalità e
negli orari di svolgimento del lavoro. Per quanto riguarda la flessibilità,
l’Ocse suggerisce che può rappresentare una grande alleata delle donne. Ma
questi potenziali benefici sono contrastati dal rischio di una diminuzione
della qualità del lavoro, dall’aumento della precarietà e del numero di
ore effettivamente dedicate al lavoro.
La digitalizzazione, infatti, se porta anche con sé possibilità di
lavori diversi e più flessibili, per le donne si può trasformare in una nuova
gabbia, stringendole tra lavoro di cura in famiglia e contemporaneo lavoro
produttivo. Lo smart working
emergenziale, di fatto home working,
è stato una vera trappola per le donne con la replicazione della prestazione di
lavoro normalmente svolta in uffici ma svolta nelle abitazioni private, cioè
quindi caratterizzata da una forte rigidità del lavoro. Per questo in
parallelo alla trasformazione dell’organizzazione del lavoro non neutra occorre
disciplinare le nuove tipologie contrattuali come lo smart working andando al di là della legge 81/2017. Occorre
ridefinire questa modalità lavorativa e ribadire che non si è di fronte ad una
misura di conciliazione tra vita e lavoro ma ad una nuova organizzazione del
lavoro rispetto alla quale bisogna prestare attenzione alle mille insidie che
porta con sé, salvaguardando la dimensione sociale e politica del lavoro e
delle relazioni che vi si intrecciano. Occorre pertanto agire il conflitto
dentro alle tendenze di sviluppo del capitalismo. Ma questo è possibile
solamente in presenza di una lettura femminista, in virtù della quale
l’istruzione e la formazione non sono subordinate al mercato e al capitale.
La questione delle discipline e dei settori STEM in connessione
con la spinta della digitalizzazione ha ricadute anche sul piano culturale
della definizione delle soggettività femminili. Occorre parlare di
desegregazione delle discipline scientifiche o STEM ma non di formazione
direzionata e forzata delle ragazze verso quelle stesse discipline. Favorire
per le ragazze percorsi, sia alle superiori sia all’ università, di
carattere tecnico scientifico con opportune politiche sarebbe importante, senza
schiacciare l’istruzione pubblica in una logica di aziendalizzazione. Il senso
costituzionale della scuola è d’altro canto essere il luogo dove si formano
cittadine e cittadini completi, non semplicemente «utili impiegati». Le
criticità della dematerializzazione della scuola attraverso il grande piano di
digitalizzazione che la coinvolge, destinando buona parte dei fondi alla
didattica digitale, avranno ricadute importanti sui percorsi di crescita e
formazione delle ragazze. Infatti non una parola viene spesa sulla formazione
di genere nella scuola, sull’educazione all’affettività per contrastare la
cultura della violenza contro le donne, sulla necessità di adottare testi
scolastici che promuovano la parità di genere e che trasmettono il reale
protagonismo delle donne in tutte le discipline.
Cura vuol dire pace e sicurezza nel mondo
La pandemia COVID-19 ha dimostrato che la nostra sicurezza dipende
dall'accesso all'assistenza sanitaria, all'approvvigionamento alimentare,
all'istruzione, a redditi dignitosi. Sicurezza è prendersi cura l’uno/a
dell’altro/a e del mondo. Le armi non
possono fornire nulla di tutto ciò. Benvenuto il Trattato per la
proibizione delle armi nucleari, ma anche l’Italia (che “ospita” 40 testate
nucleari) deve ratificarlo!
Le armi non sono servite a darci sicurezza contro la pandemia, e
non serviranno contro il riscaldamento globale e le sue conseguenze. La
pandemia ha mostrato che le minacce alla sicurezza umana sono globali, non
contenute da confini nazionali
militarizzati; ha messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella “sicurezza
militarizzata” a scapito della sicurezza umana e della salute
collettiva.
Il PNRR avrebbe potuto offrire l'opportunità per mostrare la
volontà politica e l'azione concreta per l’affermazione di una sicurezza
nazionale e globale sostenibile, giusta e pacifica. Disarmare e disinvestire
dal militare per investire nella riconversione al civile, nella capacità di
prevenzione dei conflitti, che costa meno della partecipazione ai conflitti, in
termini di vite umane, ecosistemi e in termini economici. Un modello di
sviluppo incentrato sull’economia del profitto favorisce la spinta alla concentrazione dei profitti, alle
conseguenti disuguaglianze sociali, squilibri mondiali, guerre per il controllo dei mercati: in una parola, all’insicurezza
globale e all’ulteriore spinta verso la “sicurezza militarizzata”.
In un tempo in cui gli equilibri mondiali appaiono più che mai
incerti e la guerra continua ad essere utilizzata come strumento per disegnarne
di nuovi, mentre si estendono i regimi autoritari e repressivi e aumenta
esponenzialmente la violenza, occorre puntare tutto sulla cooperazione
internazionale e sulla restituzione di fiducia nelle capacità di mediazione
delle istituzioni internazionali.
Disinvestire da operazioni
militari come Frontex, che prosciugano le risorse, e stanziare i fondi per
garantire viaggio e accoglienza sicura e dignitosa ai/alle migranti. In
particolare guardando all’area del Mediterraneo, diventato un mare di morte per
chi fugge da guerre e povertà, bisognerebbe scegliere la strada della riduzione
drastica della produzione e commercio di armi, spostando le risorse su settori
di interesse sociale – anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha
chiesto un cessate il fuoco globale umanitario per permettere che la lotta al
virus coinvolga le popolazioni in situazioni di guerra e in maggiore pericolo;
cessare le esportazioni e i trasferimenti di armi ai regimi che violano diritti
umani e diritto internazionale e usano ogni
forma di violenza, compresa quella di genere.
Ben venga la revoca dell’export di bombe verso Arabia Saudita ed
Emirati Arabi. Ma il nostro paese non dovrebbe più fare affari attraverso
l’export di armi (cosa che peraltro viola la legge dello stato italiano
n.185/90) con paesi coinvolti in teatri di guerra e con regimi oppressivi e dittatoriali
dove crescono le ambizioni di dominio dei governanti (dall’Egitto alla Turchia
a Israele, per citare alcuni tra i maggiori clienti dell’export militare
italiano nell’area mediterranea).
È inconcepibile e
contraddice pesantemente il “niente sarà più come prima”, la possibilità (già
preannunciata dai Ministeri della Difesa e dello Sviluppo economico) che,
attraverso il capitolo dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione,
accedano ai finanziamenti del PNRR anche numerosi progetti relativi a nuovi
sistemi d’arma, o legati alla produzione di armi, peraltro aggiuntivi
rispetto al bilancio ordinario: in Italia la spesa militare ha avuto una grande
crescita soprattutto negli ultimi 5 anni (è prevista di 23 miliardi nel 2021) che non si arresterà dal momento che
è vincolata al raggiungimento del 2% del PIL, come richiesto dalla NATO.
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