Roma. Molto frequentato e intenso il convegno del 11, 12 e 13 ottobre alla Casa
internazionale delle Donne, in via della Lungara a Roma, indetto dal gruppo di
lavoro Libertà delle donne nel XXI
secolo in partnership con la stessa Casa
internazionale e Transform Europe:
una quarantina di relatrici, attiviste e studiose internazionali di diverse
generazioni hanno apportato contributi di analisi, resoconto di casi
emblematici e riflessioni sul tema del
Lavoro, sul suo senso per le donne oggi, e sulle prospettive che i nuovi
lavori possono dare alle più giovani: una riflessione in ottica femminista, che si è sforzata di tenere insieme teoria e
pratiche, desideri e realtà, ricerca del lavoro e ricerca di sé.
La necessità di un’economia
politica femminista che ci consenta di svelare la connessione fra
diseguaglianza e radici sociali della violenza e delle guerra è stata la chiave
del significativo intervento della tedesca Heidi
Meinzolt, responsabile per l’Europa della WILPF-Women’s International
League for Peace and Freedom, e coordinatrice del gruppo di lavoro women&gender della Civic Solidarity Platform dell’OSCE- Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in Europa istituita in seguito agli accordi
di Helsinki del 1975.
Da esperta in tema di sicurezza delle persone, rispetto dei
diritti delle donne e della pace, prevenzione e soluzione non violenta dei
conflitti, con particolare attenzione al ruolo delle donne nei processi di
pace, Meinzolt ha approfondito l’impatto
delle politiche neoliberiste sui contesti sociali e sull’innesco di misure
di austerità e conseguente impoverimento, crescita delle spese militari,
perdita dei diritti umani e povertà delle donne.
La relatrice tedesca ha ricordato come non sia stato di aiuto
nell’immettere dinamiche trasformative nel modo di fare economia negli ultimi
venti anni neanche il Global Compact for
Business and Human Rights, un patto volontario, senza però vincolo legale,
per implementare un insieme di valori chiave nelle aree dei diritti umani,
delle donne, delle tutele sindacali e standard del lavoro, legalità, contrasto
alla discriminazione e al lavoro minorile e tutela ambientale. Si tratta di
un’iniziativa accesa a New York nel 1999
dalle Nazioni Unite di Kofi Annan con i business leader riuniti a Davos, e nel
corso di questi decenni è stato sottoscritto dai top manager di oltre 18.000
aziende da 160 Paesi del mondo che, aderendo a una piattaforma di valori
condivisi e linee guida, e attraverso un forum di verifica periodico, si
propongono di contribuire a una nuova fase della globalizzazione che dovrebbe
essere caratterizzata dal coinvolgimento di aziende, sindacati e associazioni
di categoria con azioni precise di sostenibilità nel lungo periodo,
cooperazione internazionale e partnership, con il fine di immettere nelle leggi
economiche anche la prospettiva di portatori
di interesse sociale diverse dalle imprese, quali l’ambiente e il clima, le
minoranze discriminate di tipo etnico, di genere e di orientamento
sessuale, etc.
Un ottimismo progressista che si infrange però sulla realtà del Business globalizzato fatto oggi
di imponenti cambiamenti climatici, recessione economica, competizione per le
risorse divenute insufficienti per garantire i tassi di crescita: uno scenario
che allarga il divario economico fra
Paesi e produce nuovi conflitti e guerre che negli ultimi anni sono apparsi
esplodere in contesti geopolitici locali apparentemente circoscritti – spesso
connotati da dinamiche di tribalismo – ma che a un’analisi attenta sono il
riflesso e il portato di interessi di profitto globali, e criticità volutamente
immesse nel sistema dal neoliberismo forzato dalle élite economico-politiche
sulle masse della popolazione mondiale.
Nei conflitti bellici l’allentamento e la dissoluzione della
compagine sociale sovvertita dalle dinamiche militari – con immancabile
corollario di pulizia etnica, rapimenti, stupri di guerra e sostituzione di
popolazioni – espone le donne in maniera
spropositata alla violenza e allo sfruttamento sessuale, come abbiamo visto
emblematicamente succedere nella guerra contro l’Isis/Daesh e nei conflitti
africani. Questa condizione di insicurezza persiste poi nelle fasi – o
intervalli – postbellici connotandosi stabilmente come Tratta verso il Nord del mondo e traffico di esseri umani.
L’aggressività della dinamica capitalista nelle comunità rurali del Sud
America, portata avanti dalle multinazionali anche recentemente in Amazzonia,
produce devastazioni ambientali inusitate, e l’impatto violento e il prezzo
maggiore lo pagano le donne e i bambini, ricacciati e costretti in contesti
depauperati, inquinati e privi di qualsiasi diritto e protezione sociale.
Nel continente Europa il capitalismo finanziarizzato sta
perseguendo la flessibilità nel lavoro, l’outsourcing, cioè le
esternalizzazioni e le delocalizzazioni selvagge, e i conseguenti licenziamenti
di massa, per trarre profitto dal dumping intraeuropeo e, nel caso delle
multinazionali, da un regime di sostanziale impunità ed “evasione fiscale”
legalizzate: secondo i dati della CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, le big
corporations pagano il 5% di tasse sui profitti godendo un vantaggio
sistematico rispetto alle altre categorie produttive che sono tassate al 42,4%.
Questi dati si riferiscono al 2017, con l’Italia al sesto posto per imposizione
fiscale tra i grandi Paesi industrializzati. Sempre più la finanziarizzazione
dell’economia – una dinamica
parassitaria in cui si vorrebbe che il denaro creasse altro denaro senza
immettere lavoro nelle società – mette le ali ai paradisi fiscali anche
all’interno della UE, sottraendo risorse e minando pesantemente il welfare
europeo, che aveva tentato timidamente dal dopoguerra di “socializzare i costi”
della “riproduzione sociale” gravante solo sulle spalle delle donne. Ora il welfare sta declinando rapidamente e
sono soprattutto le donne a pagarne il conto: dover scegliere se lavorare o
fare figli (in Italia nel 2018 ci sono stati 35.000 abbandoni lavorativi di
donne con figli).
Si allarga anche la fascia dei working poors: nel 2017 un lavoratore su dieci rientrava in
quest’area grigia, cioè di quanti, soprattutto donne, pur avendo un impiego
sono ricacciati in una condizione di povertà relativa. Intanto al crollo del
welfare sociale la ricetta capitalistica contrappone la privatizzazione e
conseguente monetizzazione dei rischi sociali – vera manna per enti
assicurativi e Fondi di investimento – peccato che le europee guadagnino troppo
poco per permettersi assicurazioni e secondi e terzi pilastri pensionistici.
Al culmine di questo “psicodramma” economico anche gli Stati,
aggrediti dalle agenzie di rating, vengono batostati dalle politiche di
austerità imposte dagli organismi di controllo sovranazionali che hanno
abbracciato la filosofia del “debito
pubblico”.
In questo contesto la questione migratoria – malgestita e
maldigerita – anziché essere letta come epifenomeno e conseguenza delle
contraddizioni della attuale fase capitalistica, ha finito per intercettare e
aumentare il senso di frustrazione del
corpo sociale europeo, che la utilizza come “capro espiatorio”
deresponsabilizzante, mentre si assiste all’esplosione di grandi conflitti
sociali tra cui emblematiche sono state le recenti proteste dei Gilet Gialli nei principali centri
urbani della Francia.
Questa fase dell’Europa si traduce a livello antropologico in
individualismo sociale, sfiducia
istituzionale, diserzione dal voto e dalla partecipazione, mentre a livello
politico assume un volto ideologico, con la rinascita di istanze identitarie, da cui emergono atteggiamenti di nazionalismo esasperato, populismo e razzismo, attacco ai diritti delle donne,
come si osserva in particolare nei Paesi del Gruppo di Visegrad e in Italia, ma un po’ dappertutto in Europa:
atteggiamenti che si coagulano in rivendicazioni localistiche – delle minoranze
Sudtirolesi in Italia e dei Danesi in Germania – e in istanze di
“decontestualizzazione” e autonomia, come in Catalogna o nella richieste di
“andarsene” da parte delle ristrette élite economiche della Brexit inglese.
Sul pericolo di arretramento dei diritti delle donne nei
paesi centro europei si è concentrato anche l’intervento dell’ungherese Borbála
Juhász, storica del femminismo e attivista in Ungheria della European Women’s Lobby. La
strumentalizzazione del dibattito sul “gender” nell’Ungheria di Orban, e
l’enfasi sul ruolo tradizionale della donna nella famiglia, posta da ideologie
nazionalistiche e religiose reazionarie, è stato il pretesto per rilanciare una
politica demografica familistica che
attraverso strumenti come il congedo di maternità di tre anni per le mamme sta
espellendo le donne dal mercato del lavoro.
Meinzolt ha anche portato l’esempio della società tedesca
dove lo split sociale e il differenziale nelle opportunità sono in questi anni
drammaticamente aumentati: traumi che producono paura e frustrazione, e grande
rabbia sociale che innesca un cortocircuito di atteggiamenti di ansia,
diffidenza, e aumento della violenza anche nelle relazioni interpersonali e di
genere: «Anche nel cuore dell’Europa la gente sta acquistando armi, e ci
troviamo ormai in presenza anche da noi di una popolazione armata: il 25% dei
tedeschi tiene in casa armi leggere a cui ricorre per difesa e sempre più in
caso di violenza domestica: si registra infatti un aumento di omicidi e
femminicidi».
Dalla crisi del 2008, in Germania il mantra di “mettere le
donne al lavoro” e del loro “Business empowerment” per sostenere la società
viene ancora continuamente ripetuto, e oggi rimotivato secondo la precettistica
della moderna womenomics, senza mai
mettere in discussione le contraddizioni prodotte dalla crescita economica
capitalistica. Anche nella discussione sul clima, anticipata dalla grande
tradizione dei Verdi tedeschi, la pregiudiziale che viene sempre portata dalla
politica è che «gli interventi correttivi devono salvaguardare la crescita».
Nelle Università tedesche in generale non
si prendono in considerazione modelli alternativi, ma alcune economiste
hanno incominciato a introdurre nell’insegnamento elementi di economia
femminista alla ricerca di un’alternativa alla crescita spasmodica e
obbligatoria. «A questo punto è compito delle donne e delle femministe in
particolare mettere in discussione questi assiomi: le donne spagnole, e perfino
le svizzere a modo loro, l’hanno fatto nel 2018, scendendo in strada e
reclamando un cambiamento di sistema e della filosofia stessa del lavoro,
mentre le donne tedesche per ora si rifiutano di ripetere la storica esperienza
delle ‘suffragette’ per chiedere i propri diritti».
Un atteggiamento che, secondo Heidi Meinzolt, il movimento
delle donne contemporaneo dovrebbe rilanciare in tutta l’Europa, mutuando per
esempio la campagna lanciata da WILPF Move
the money from war to Peace per ridurre le spese militari e ri-orientarle
verso voci di welfare sociale come lavoro, salute, scuola. Le donne devono
spingere a livello istituzionale governi e UE a implementare gli obiettivi
della Piattaforma di Pechino promossa dall’ONU nel 1995 e rinnovata in varie Conferenze
Mondiali delle donne: un impegno sottoscritto da quasi tutti i Paesi europei
per implementare 12 aree critiche per le donne, che sono state enfatizzate
anche dalla recente campagna ONU “Pianeta
50-50 entro il 2030”: povertà, istruzione e formazione, salute, diritti
delle bambine e violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e
processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti
fondamentali, media, ambiente.
Annick Coupé, sindacalista e presidente di Attac France, associazione che si batte
per I diritti ambientali, della casa, del lavoro e contro l’impunità delle
multinazionali ha portato il caso Francia come esemplare della situazione dei
paesi europei a sviluppo consolidato dove – con 16 milioni di uomini e 14
milioni di donne nella forza-lavoro – a fronte di 40 anni di occupazione di
massa, persiste l’ineguaglianza delle donne sia nel lavoro domestico – che
resiste nelle famiglie a ogni redistribuzione tra i generi – sia nel mercato
del lavoro sotto vari aspetti: il tasso delle donne sottoccupate, cioè di
quelle costrette a lavorare meno di quanto vorrebbero, resta alto e il lavoro
discontinuo e part-time le vede all’82% del totale, riflettendosi in un futuro
di pensioni povere e svilimento sociale per le donne che già oggi subiscono un
differenziale pensionistico pari al 40%, mentre per le occupate il
differenziale salariale con gli uomini raggiunge il 20%.
Le donne nella loro generalità in Europa non sono state in
questi decenni risparmiate dall’aderire a quel dispositivo messo in gioco dal capitalismo sviluppista che è consistito
nell’espansione della (bassa) classe media, una dinamica del desiderio che ha
saputo creare l’illusione di una forma
di mobilità sociale che appaga soprattutto il bisogno e le aspirazioni di
autorealizzazione individuali. E allora nel corso delle generazioni
novecentesche molte si sono gettate negli studi e nel perseguire carriere
professionali un tempo riservate agli uomini: peccato che nel mercato del
lavoro francese oggi le donne continuino a vivere nel de-mansionamento cronico
– 2/3 dello Smic, il salario minimo introdotto in Francia nel 1950, finisce
nelle buste paga delle donne – con limitate filiere professionali accessibili,
blocco delle carriere, prepensionamento forzato.
Soprattutto, le giovani donne oggi sono costrette a vivere
all’ombra della sottoccupazione e di
salari parziali frutto di “lavoretti” e patchwork esistenziali
insostenibili. L’alta scolarizzazione raggiunta dalle giovani donne e l’alta
formazione universitaria che le vede ben più protagoniste dei maschi nelle
lauree e nei dottorati non sono più dinamiche capaci di garantire un qualche
ascensore sociale al “gentil sesso”. Non
sono bastate dunque le leggi a garantire diritti sociali e lavorativi reali
alle donne all’interno del costrutto patriarcale delle società occidentali: la
società e il mondo del lavoro resistono al desiderio di uguaglianza femminile e
potranno essere investiti dal cambiamento solo attraverso un’azione di
decostruzione culturale che passi per la messa
in discussione del ruolo della donna, prima che nel lavoro, nella politica,
nella famiglia e nelle relazioni di genere fra donna e uomo.
Anche l’italiana Claudia
Candeloro ha evidenziato come in
ragione del processo di integrazione europea la normativa italiana sul lavoro
abbia subito grandi cambiamenti che hanno fatto deragliare il sistema
italiano delle tutele da una fase di “universalità” dei diritti guadagnata
sulla scia delle lotte del movimento operaio degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento
alla fase attuale, in cui vaste categorie di lavoratori e lavoratrici nella New Economy non sono più tutelati nei
diritti sindacali, del lavoro e della conciliazione famiglia-lavoro. Accanto
alla erosione di tutele storiche
come il diritto al reintegro nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta
causa (che impegnava a tempo pieno avvocati e giudici lavoristi durante le
crisi industriali tra gli anni Sessanta e Novanta), si è evoluta una normativa
antidiscriminatoria che ambirebbe alla tutela rafforzata di gruppi di
lavoratori considerati potenzialmente a rischio di discriminazione a motivo
della loro ideologia, età, genere, orientamento sessuale, o condizioni di
disabilità. Candeloro denuncia come una siffatta normativa, lungi dall’aver garantito una tutela
rafforzata alle lavoratrici – peraltro rimaste oggetto di ricatto su più
fronti in ambito lavorativo – le costringa invece ad assumere l’onere quasi
sempre insostenibile di dimostrare che la violazione dei loro diritti è
conseguenza di un “atteggiamento discriminatorio”, derubricando di fatto a conflitto inter
partes ( di natura privatistica) la fondamentale lesione di un diritto
alla tutela nel Lavoro che è e deve restare universale.
Skerdilajda Zanaj – Economista, docente associata e
delegata di Genere all’Università del Lussemburgo, nonché consulente del
governo albanese per la regolamentazione economica e il processo di adesione
all’Unione Europea – ha presentato il caso del suo paese, l’Albania: la nazione
europea più povera ma con un tasso di
partecipazione delle donne al lavoro maggiore che in Italia. Nella Culture Economics le ricerche recenti
indagano, formalizzano attraverso dati matematici ed enfatizzano l’impatto dei
differenziali di formazione, genere, etnia, e altre variabili socio-economiche
tra le discriminanti nell’accesso al lavoro e a migliori opportunità occupazionali,
soprattutto dopo l’avvento della New
Economy. Con riferimento a 4 fattori fondamentali attivi sul divario di
Genere nel lavoro nella generalità dei Paesi – fattori storico-geografici,
norme sociali e loro trasmissione, sviluppo economico e povertà – Zanaj ha
evidenziato come in Albania
l’atteggiamento sociale nei confronti delle donne e dei loro ambiti
lavorativi sia stato diverso durante l’occupazione ottomana per cinque secoli
dal 1478 al 1912, l’occupazione italiana e tedesca dal 1939 al ‘43 e
nell’esperienza della Repubblica Socialista di Albania tra ’46 e 1991.
Nel 2003 uno studio realizzato da Guiso, Sapienza e Zingales
aveva evidenziato come, pur con differenziali fra le diverse religioni, le
persone religiose e i fedeli attivi esprimono meno supporto verso i diritti
delle donne e verso un ruolo delle donne all’interno della famiglia diverso da
quello tradizionale. Lo studio Telhaj&Murphy del 2019, ha analizzato
secondo seri criteri econometrici la variabilità della partecipazione al lavoro
delle donne nel periodo “antireligioso” successivo al 1967, anno in cui
l’Albania si era dichiarata primo paese ateo al mondo, vietando ogni forma di
espressione religiosa. Dalla ricerca emerge il profondo impatto della religione sui ruoli di genere e l’accesso
delle donne al mercato del lavoro. Da paese “feudale” fino al 1946, dove la
donna lavorava nei campi, sostanzialmente esclusa dal mercato del lavoro, in 20
anni sono state guadagnati grandi diritti al lavoro per le donne, prima nella
fase dell’Albania comunista, e poi il trend è continuato grazie alla trasmissione intergenerazionale tra madre e
figlia albanese del nuovo modello culturale di donna-lavoratrice e le donne
non sono più “tornate a casa”. Oggi l’accesso alla formazione universitaria
delle donne albanesi è in costante crescita e la loro partecipazione al mercato
del lavoro è esplosa raggiungendo il 57,7% con un incremento veloce di 8 punti
negli ultimi 5 anni, mentre il divario salariale fra donne e uomini è di solo
5,4 punti percentuali, quando la media mondiale è del 18,4% (dati ILO-International
Labour Organization, 2018).
Tra gli studenti universitari albanesi il 44,6% sono maschi e
il 67,9% sono femmine e gli stage di specializzazione all’estero
(Tirana-Lussemburgo, per es.) vedono protagoniste quasi solo le studentesse,
che si mettono in gioco molto più dei colleghi maschi. Oggi le donne in
possesso del titolo di professore ordinario nell’università di Tirana sono il
45,2%, mentre in Lussemburgo sono il 14,2%, e nel 2017 la presenza femminile
negli organi accademici dirigenti a Tirana è stata del 38,1%.
Un aspetto particolare è poi la propensione e l’alto numero
di studentesse iscritte alle facoltà di scienze esatte – le cosiddette STEM:
Science, Technology, Engineering and Mathematics – più alto della Francia e
Belgio messi insieme (Dati EUROSTAT), pur avendo l’Albania un’unica università
pubblica fondata nel 1957, l’Università statale di Tirana, da cui è gemmata
divenendo autonoma l’Università Politecnica. Fondato nel 1957, l’ateneo di
Tirana oggi comprende sette facoltà con oltre trenta Dipartimenti che coprono
le scienze umane e sociali, economiche, naturali e biomediche. Gli studenti
immatricolati sono circa 14.000 e i professori 600. Il fenomeno della
propensione alle Stem sembra riflettere però anche una scarsa libertà di scelta
delle donne ed è stato osservato in vari paesi in via di sviluppo come Algeria,
Tunisia, Vietnam, Albania, Indonesia, dove la scelta delle competenze diventa
pregiudiziale per l’inserimento lavorativo nei campi tecnologici dei nuovi
lavori, mentre nei paesi a sviluppo socio-economico di più antica data come
quelli nord e centro europei (Svezia, Irlanda Svizzera, Germania, Francia,
Italia) le donne continuano a scegliere secondo il proprio “gusto” valoriale
che appare tuttora legato a modelli culturali tradizionali (facoltà
umanistiche, scienze sociali o dell’area medica) che non intercettano le
possibilità lavorative offerte dal modello di sviluppo globalizzato e sempre
più tecnologizzato.
Skerdi Zanaj sottolinea anche come, oltre all’alta
formazione, un altro fattore che impatta sul lavoro delle donne sono le
politiche di genere dello Stato (Gender
Policies) risultato dell’attività legislativa prevalentemente parlamentare:
ebbene, queste politiche di genere aumentano e si qualificano proporzionalmente
alla presenza nei Parlamenti nazionali e sovranazionali di un alto numero di
deputate e senatrici donne: in Albania si è passati dal 18% del 2013 al 29% del
2018. Molto interessante a questo proposito lo Studio Lippman del 2019 che in
Francia ha analizzato l’attività parlamentare nell’arco del 2017, in cui sono
stati presentati circa 300.000 emendamenti parlamentari. Dallo studio emerge
come le donne parlamentari difendano gli interessi e i diritti delle donne più
dei deputati maschi, concentrando la propria attività legislativa sulle
questioni di genere, seguite dai temi riguardanti i minori e la salute. I
parlamentari maschi hanno invece una maggior probabilità di presentare
emendamenti sulle questioni elettorali e militari. Le donne in Parlamento
dunque hanno il doppio delle probabilità di avviare emendamenti relativi alle
donne, ed è quindi evidente come le
Quote di Genere negli ambiti della rappresentanza politica producano uno
spostamento delle decisioni politiche e una maggiore priorità per le questioni
femminili in Parlamento.
Enrica Rigo, professora associata di Filosofia
del diritto all’Università Roma Tre, è una ricercatrice sui temi giuridici
della cittadinanza anche in rapporto ai confini esterni dell’Europa e in
rapporto al processo di allargamento europeo e alla critica postcoloniale. Riga
è anche attivista a Roma del movimento Non
Una di Meno. Dalla sua esperienza di direttora della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza ha riportato
osservazioni sulle contraddizioni del rapporto fra donne autoctone e donne
migranti: richiamandosi agli scritti di Sara Farris e raccontando l’esperimento
sociale di Barbara Ehrenreich – la
saggista, accademica e opinionista socialdemocratica statunitense che a fine
anni novanta visse in prima persona l’esperimento sociale di sopravvivere tre
mesi lavorando con un salario minimo come cameriera, donna delle pulizie e commessa
nei supermercati Walmart – ci ha ricordato come la liberazione delle donne occidentali si sia poggiata storicamente e
continui a fare perno sulla subordinazione delle donne migranti.
Denunciando come la mobilità dei lavoratori in Europa sia
oggi appiattita sotto una definizione e regolamentazione legata al solo lavoro
produttivo, Rigo ha analizzato il ruolo
che la mobilità umana, in particolare delle donne, svolge nel processo di
riproduzione sociale e della forza-lavoro, come emerge anche dagli studi di
Silvia Federici e Alisa del Re, ed evidenziando il grande
apporto delle donne migranti alle società di arrivo (sia in termini fiscali e
contributivi sia in termini di lavoro di cura e di welfare sociale per donne,
bambini e anziani) e naturalmente alle società di partenza in termini di
rimesse economiche, fondamentali per la sopravvivenza di interi nuclei
familiari nel paese d’origine.
Sulle tematiche migratorie è intervenuta anche Edda Pando, peruviana giunta in Italia
da Lima vari anni fa, nel 1991, e fondatrice di ARCI Todo Cambia, dell’Università Migrante di Milano e della rete
Milano senza frontiere; come attivista per i diritti dei migranti sostiene
l’autorganizzazione dei migranti nel capoluogo lombardo e percorsi
interculturali fra immigrati e autoctoni. Pando parla di «paradigma migrante», nel senso che i lavoratori e le lavoratrici
stranieri immigrati in Italia rappresentano sempre più ciò che il sistema vorrebbe estendere come modalità generalizzata di
sfruttamento verso i lavoratori e le lavoratrici autoctone: precarietà
assoluta, assenza di qualsiasi stabilità lavorativa, mancanza di tutele
sindacali, ricattabilità costante e perenne instabilità materiale ed
esistenziale.
Enrica Rigo ed Edda Pando hanno posto questioni che chiedono
una risposta urgente e politica: «Per quale motivo in Italia i Decreti Flussi non si fanno più dal
2011 e in Italia si entra solo per ricongiungimento o Asilo? Integravamo
170.000 lavoratori stranieri l’anno; ora dove li prendiamo e perché preferiamo prenderli dalle
migrazioni forzate? Tra il 2014 e il 2017 le donne richiedenti asilo sono
quadruplicate e si muovono per lo più sulla rotta del Mediterraneo centrale,
mentre su quella Balcanica più del 50% sono donne e bambini. Perché stiamo chiudendo le frontiere
proprio adesso? Perché non si rinnovano i permessi di soggiorno? Perché la
raccolta di pomodori viene pagata 3 euro l’ora e non si costruiscono case ma
ghetti per i migranti impiegati nei lavori agricoli? Perché si negano i diritti
di cittadinanza e lo ius culturae, se
non per colpire le condizioni di vita delle donne e degli uomini migranti,
perpetuando e allargando le occasioni del loro sfruttamento?
La femminista italiana Cinzia
Arruzza è professoressa presso la New
School of Social Research di New York. Recentemente, insieme a Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya, ha pubblicato il volume «Un Manifesto per un femminismo del 99%». Durante il convegno alla
Casa delle Donne di Roma, Arruzza è intervenuta in collegamento video
riproponendo alcune delle tesi, espresse nel libro, sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla
luce della nuova onda femminista su scala internazionale: «Il femminismo del
99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi
decenni era diventato egemonico per l’estinguersi delle mobilitazioni e delle
lotte in tutto il mondo. Con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo a
un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che persegue
l’eliminazione delle diseguaglianze di genere con strumenti accessibili solo
alle donne che appartengono all’élite: si pensi al modello incarnato da
personalità come Hillary Clinton o altre donne che hanno perseguito un empowerment che le mette comunque in
posizioni apicali e di privilegio; oppure si pensi al femminismo predicato
dalle destre che in Europa, soprattutto nei paesi dell’Est, sta diventando un
alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti
delle donne”, come ha spiegato Sara Farris nel suo libro “In the Name of Women′s Rights: The Rise of Femonationalism”.
Invece il femminismo del 99% è anche apertamente anticapitalista e
antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla
necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità,
non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il
saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. È
parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici
sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano
per un mondo che sia migliore per il 99%».
«Io penso che la recente nuova onda femminista è l’unica
mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e
uomini di tutto il mondo. Inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento
femminista: penso soprattutto all’Argentina, ma anche alla Spagna o
all’Italia. Credo che coloro che sono sinceramente interessati a un ritorno
della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli
atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda
femminista. Dovrebbero smettere di
pensare che le mobilitazioni femministe sono un’antitesi della lotta di classe
o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. Vorrei invitare a pensare al
nuovo movimento femminista come a un processo di radicalizzazione e
politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici – molto spesso
giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate
sessualmente nei luoghi di lavoro – sta
emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista».
A conclusione dell’edizione 2019 di “Libertà delle donne nel
XXI secolo”, a far sintesi dei molti temi dibattuti, rimbalzano le domande
poste da Nicoletta Pirotta di Iniziativa Femminista Europea: «Come si
ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare
l’ideologia della domesticità e lo sfruttamento della catena globale della
cura? È sufficiente rivendicare parità di salario, tempi di lavoro compatibili
con la riproduzione, diritto alla maternità e fine delle discriminazioni di
genere se non si intaccano le divisioni
sessiste e razziste del mondo del lavoro? Un salario minimo europeo e un
reddito di autodeterminazione possono costruire per le donne percorsi di
autonomia e fuoriuscita dalla violenza? Le esperienze di autogestione e di neo-mutualismo,
che stanno coinvolgendo molte donne e alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale possono
essere obiettivi da lanciare su scala europea? Come diffondere la pratica dello
sciopero globale delle donne,
lanciato da Non Una di Meno contro l’oppressione in ogni ambito della vita e
come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione, la
femminilizzazione e la razzializzazione del lavoro?».