17/04/21

Verso il 25 Aprile / L'altra metà della resistenza / I Gruppi di Difesa della Donna

 


L’opera di assistenza ai combattenti della libertà svolta dai Gruppi di Difesa della Donna durante la Resistenza non fu un fatto “caritativo” né subalterno – come si è detto talvolta per sminuirne l’importanza - ma essenzialmente politico. L’enorme operazione di salvataggio dell’esercito italiano allo sbando dopo l’8 settembre del ’43 e l’indispensabile impegno clandestino di supporto ai resistenti in armi furono - per le 70mila donne che aderirono ai GDD e le altre migliaia che collaborarono nei modi più diversi - una grande scelta di campo che gettò le basi dell’emancipazione femminile nel nostro paese.

di Pina Palumbo* (Milano 1906/1989). Attiva nella Resistenza come capo infermiera nelle brigate Garibaldi, coordinatrice dei GDD, commissaria all'assistenza del CLN Lombardia fino al 31 dicembre 1945, poi ispettrice del ministero dell'Assistenza postbellica in Sicilia. Fu nel comitato direttivo dell'Udi e senatrice del Partito socialista italiano per tre legislature, dal ’48 al ’58.


I Gruppi di Difesa della Donna (GDD) e per l’assistenza ai combattenti della Libertà furono così denominati non per significare uno stato di debolezza delle donne o la loro particolare attitudine ad opere assistenziali, bensì per una visione del tutto politica. Le donne antifasciste dei GDD difendevano, per esempio, le donne ebree perseguitate dal razzismo nazifascista, le lavoratrici minacciate dalle rabbiose rappresaglie fasciste, le deportate nei campi di concentramento. Cercavano di impedire l’arresto delle lavoratrici, la deportazione delle donne in Germania, le condanne a morte. I GDD organizzavano nelle fabbriche atti di sabotaggio e nelle strade dimostrazioni davanti ai negozi, contro l’intollerabile carestia e carovita. Distribuivano alle popolazioni i viveri sottratti agli ammassi alimentari nazifascisti. Così come l’assistenza ai combattenti della libertà non era un atto caritativo, ma essenzialmente politico, perché aiutarli a fuggire, ospitarli, vestirli, alimentarli, curarli, voleva dire per loro la vita o la morte.

Compito importante dei GDD era preparare squadre di infermiere e postazioni clandestine di pronto soccorso: infermiere, dottoresse, staffette portaordini, informatrici. Le donne che esercitavano un’attività di carattere militare, diretta o ausiliaria, andarono poi a formare i primi nuclei femminili delle squadre e dei distaccamenti partigiani. Nel novembre 1943 fu deciso che c’era necessità di uno strumento di informazione e nacque Noi Donne: dapprima ciclostilato, poi nel 1944 stampato clandestinamente. Il giornale fu strumento di agitazione e preparazione degli scioperi, riprendendo i temi delle lotte condotte dalle donne per la libertà e la pace fin dal 1910. Ne furono fondatrici Claudia Maffioli del Psiup, Giovanna Barcellona del Pci, Ginetta Martini Fanoli del PdA, e nel suo programma non c’era solo la lotta al nazifascismo, ma anche l’emancipazione femminile com’era stata già impostata dalla prima élite femminista all’inizio del secolo.

Le varie iniziative assistenziali dei GDD, come raccolte di viveri, indumenti, denaro, medicinali, che venivano distribuiti agli assistiti – partigiani, vittime del regime e loro famiglia – vennero coordinate con la costituzione del Comitato centrale di assistenza, sotto la direzione e con la collaborazione del Comitato di Liberazione Alta Italia (CLNAI). Del comitato facevano parte: Pina Palumbo (Psiup), Elena Dreher (PdA), Gina Bianchi (Pci) e Lucia Corti (Lavoratori Cristiani). Gina Bianchi, responsabile della Commissione assistenza a Sesto S. Giovanni, fu uccisa dai fascisti in fuga sul viale Monza il giorno della Liberazione. Era incinta di otto mesi… e aveva il marito in carcere a S. Vittore. Quando, la sera, fu liberato e uscì dal carcere trovò la moglie morta su un tavolo della Morgue.

Nella loro organizzazione i GDD si dividevano in gruppi di fabbrica, di banca, di ospedale, di caseggiato, di carcere. Insomma erano presenti ovunque vivessero e operassero le donne, per organizzare insieme a loro scioperi, manifestazioni di protesta, sabotaggi tendenti a indebolire il nazifascismo. Si può ben affermare che questa prima azione di organizzazione e propaganda di massa fra le donne diede un grande contributo al successo di tutte le lotte operaie e contadine che in quel periodo si svolsero nel milanese e in tutta la Lombardia, come nel resto dell’Italia occupata, fino alla vigilia della Liberazione…

A coronare tanto lavoro, tanti sacrifici, tanta dedizione alla causa antifascista, arrivò finalmente il 25 aprile 1945, la Liberazione! Ma l’opera delle donne non finì, non poteva finire lì, e i GDD si trasformarono nell’Unione Donne Italiane (Udi), organizzazione unitaria di massa delle donne democratiche antifasciste, che era stata già costituita a Roma dopo la Liberazione della città e aveva tra i suoi principali obiettivi l’ottenimento del voto alle donne, per il quale i movimenti femministi avevano lottato senza successo fin dalla fine dell’‘800. Il voto alle donne era l’atto indispensabile su cui fondare concretamente quella emancipazione femminile che divenne lo scopo essenziale della nuova organizzazione…

Questa è in breve la storia dei GDD, dura, talvolta dolorosa, ma sempre esaltante, e della loro opera clandestina nell’Italia fascista, confluita, a liberazione avvenuta, nella lunga storia d’azione dell’Udi in difesa della pace quale presupposto indispensabile per l’emancipazione femminile, per la traduzione nelle leggi e nelle istituzioni del dettato della nostra Costituzione repubblicana che afferma i diritti della donna come persona, nella famiglia, nel lavoro, nella società tutta.

E se i risultati fin qui ottenuti non sono del tutto soddisfacenti, perché continuiamo a vivere in una società tradizionalista e maschilista, noi donne della Resistenza abbiamo fiducia, non ci scoraggiamo, come non ci scoraggiammo allora davanti alla tracotanza fascista. Abbiamo fiducia nelle nuove generazioni di donne che con noi lottano e dopo di noi lotteranno per affermare i loro diritti e la loro personalità, vogliamo che siano più felici di quanto noi fummo, che non vedano più guerre e distruzioni e che, ricordando i dolori, le umiliazioni e le battaglie di chi le ha precedute, possano trarne qualche vantaggio per la loro esistenza.

 

*Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 58 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, Milano, novembre 1977)

VERSO IL 25 APRILE / L'ALTRA METÀ DELLA RESISTENZA / CARLA RAVAIOLI

Carla Ravaioli a Gallipoli nel 1998 foto C.Gerardi

Quel nesso specifico tra le ragioni delle donne e la cultura della pace*

Carla Ravaioli (Rimini 1923/ Roma 2014) giornalista, saggista, senatrice, nella sua lunga proficua vita attiva ha intrecciato impegno politico e scrittura, privilegiando le tematiche del femminismo con quelle dell’economia, del pacifismo e dell’ambientalismo. Riportiamo il suo intervento al convegno nazionale Nella Resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace (Milano, 16-19 maggio 1984), organizzato dalle donne dell’ANPI e altre associazione partigiane, in cui riflette sulle ragioni che portano il movimento femminista a compiere la «scelta di campo contro la guerra».


Da quando il pacifismo è nato e rapidamente cresciuto, fino a divenire richiamo di folle enormi, e a scuotere le capitali del mondo con manifestazioni gigantesche, le donne, specie le più giovani, ne sono state parte cospicua e fortemente attiva. Da subito però la partecipazione diretta è parsa non esaurire le possibilità d’impegno delle donne per la pace.

Da subito tra le donne si è avvertito il bisogno di riflettere sul tema della pace “anche come donne”, di confrontarsi con la prospettiva della pace – una prospettiva ancora tutta da definire, da costruire, da inventare – muovendo dalla propria specificità di donne. Un bisogno che però pose subito ineludibili e intriganti domande: perché “donne e pace”? Esiste uno specifico che imponga alle donne una scelta di campo in favore della pace, o quanto meno le orienti in tal senso? È possibile individuare un nesso tra il discorso elaborato dal movimento delle donne e le ragioni, la speranza, l’utopia, da cui nasce il movimento per la pace?

Sono domande a cui finora non s’è risposto con chiarezza, anche perché, dove si affrontano temi connessi con la specificità femminile, da molte parti si tende ad assumere come referente imprescindibile la specificità corporea della donna, e a dare risposte che a prima vista appaiono ineccepibili, in quanto discese dall’evidenza immediata, addirittura dall’ovvietà del “naturale”. E infatti, anche in materia di “donne e pace” da molte parti, e nell’ambito stesso del movimento femminista, si sostiene che sia la stessa biologia a collocare la donna contro la guerra; che la donna, in quanto dotata di un corpo destinato a riprodurre la vita e fondamentalmente strutturato per questa funzione, è – non può non essere- totalmente aliena da quell’evento di distruzione e morte che è la guerra.


Ma non è una risposta che ci può soddisfare.
Come sappiamo, non è la natura ciò che precipuamente definisce la specie umana e la distingue da tutte le altre, bensì la cultura; e gli stessi dati biologici ineliminabili, connessi alla nostra corporeità, alla nostra insuperabile “animalità”, lungo la storia sono stati oggetto di una complessa elaborazione culturale, che rende estremamente mediato, cioè pochissimo “naturale”, il nostro modo di viverli. E del resto basta percorrere rapidamente la memoria del nostro passato, o gettare un rapido sguardo sul nostro presente, per convincerci che, nonostante il loro destino biologico di produttrici di vita, le donne hanno sempre condiviso nei confronti di pace e guerra le posizioni dei loro paesi: posizioni puntualmente assunte e imposte dai maschi.

La storia di ogni tempo è piena infatti di madri che eroicamente trattengono le lacrime e dominano lo strazio dei loro cuori nel salutare i figli in partenza per il fronte; di madri che orgogliosamente offrono il petto alle decorazioni attribuite alla memoria dei figli caduti in guerra; di madri che dichiarano il loro supremo vanto di donare figli alla patria; di madri che cuciono bandiere e apprestano festeggiamenti per i figli reduci da una vittoria costata comunque distruzione e morte.

Allo stesso modo la nostra vita quotidiana è piena di madri che senza esitazione regalano ai loro maschietti armi-giocattolo, implicitamente dando per scontato che la guerra, o quantomeno l’addestramento alla sua eventualità, sia parte imprescindibile del loro futuro di adulti. La nostra realtà è piena di madri terrorizzate all’idea di crescere un figlio imbelle, che lo incitano a controllare la propria emotività, magari ricorrendo alla classica esortazione: «Via, non piangere, fa’ il bravo soldatino!». Il nostro mondo è pieno di donne che esigono dal loro uomo di essere “un vero uomo”, con ciò riferendosi a quel complesso di connotazioni aggressive, tradizionalmente ritenute tipiche della virilità, di cui il soldato – e la sua disponibilità a uccidere come a morire – rappresenta l’espressione estrema e più essenziale.

E tutto ciò accade ancora, nonostante che il femminismo, specie nei primi anni della sua esplosione, abbia messo in luce questa funzione conservatrice che la donna è tenuta a svolgere nel suo ruolo educativo; e nonostante che ciò in qualche misura abbia già modificato i comportamenti delle madri. Né la cosa ci può stupire. Le donne si sono infatti trovate a condividere, sia pure da una condizione marginale e subalterna, una realtà antropologica nella quale da millenni la guerra non solo ha piena legittimità, ma svolge una funzione politica primaria, al punto da essere data non di rado come un “valore” in assoluto. E d’altronde l’assimilazione delle donne alla cultura maschile dominante, addirittura la loro complicità con la «legge del padre», con la stessa cultura che le opprime, è ciò che l’autocoscienza è andata scoprendo, e che ha caratterizzato il femminismo sulla base di una consapevolezza del tutto nuova.

E tuttavia quel bisogno che le donne hanno avvertito di confrontarsi «come donne» con la prospettiva della pace, di tentar di dire una parola loro, forse non è vano né immotivato. Forse esiste, e può essere messo a fuoco, uno «specifico femminile», o piuttosto femminista, che non può mancare di indurre le donne a una precisa scelta e a un preciso impegno a favore della pace. Anzi a me pare che questa scelta e questo impegno si pongano come momenti qualificanti e imprescindibili del discorso femminista assunto nella sua interezza e svolto in tutte le sue conseguenze possibili.

A me pare che di fatto le donne abbiano compiuto una scelta di campo contro la guerra, nel momento stesso in cui hanno spinto lo sguardo al di là dell’emancipazione, verso la nuova frontiera della liberazione; cioè nel momento in cui hanno rifiutato l’integrazione senza riserve nella «società dei maschi», per muovere alla ricerca di una loro identità non più mutuata dal modello maschile, anzi capace di opporvisi e di metterlo in crisi.

Ciò che infatti le donne condannavano nella «società dei maschi» non era più soltanto la propria storica condizione di inferiorità, la loro privazione di diritti elementari, la loro identificazione con la funzione familiare, la loro esclusione dal potere; né era soltanto la violenza alla quale scoprivano di essere da sempre soggette nel rapporto sessuale,, la loro cancellazione come portatrici di una sessualità propria, la loro accettazione coatta di un paradigma sessuale esclusivamente maschile.

Ciò che le donne condannavano, e a cui opponevano una sorta di irriducibile estraneità, era un assetto sociale che rimuove dalla propria dimensione pubblica, e accantona nell’ambito del privato, tutti i valori attinenti alla sfera della riproduzione, relativi al corpo, al sesso, agli affetti, ai rapporti personali, al vivere quotidiano, cioè a dire ai momenti più ricchi e intensi della vita di ognuno; mentre fonda la propria struttura e la propria razionalità sui valori tipici della sfera produttiva, come la forza, la competitività, l’audacia, la spregiudicatezza, eccetera, e conseguentemente impone modelli finalizzati al successo, all’acquisto, al possesso, all’accumulo, al consumo: valori e modelli tutti di segno aggressivo, e non a caso storicamente identificati col maschile.

Dalla loro storia separata, dalla loro antica e forzata estraneità ai valori dominanti, e dalla loro altrettanto antica consuetudine con valori “altri”, le donne si sono trovate dunque a condannare e rifiutare una società permeata di violenza e dalla violenza determinata nel proprio agire: una società insomma che contiene la guerra nel proprio grembo, che sempre contempla la guerra come possibile esito di ogni conflitto, di cui la guerra non è che il gesto estremo, la manifestazione più clamorosamente e orrendamente catastrofica, solo nella quantità ma non nella qualità diversa da ogni altra. Per questo dunque, per ragioni che procedono dal loro discorso specifico di donne, nella loro nuova consapevolezza, non possono non essere parte del movimento per la pace.

Ma forse le donne possono essere anche qualcosa di più. Da qualche tempo la riflessione pacifista è orientata ad allargare il proprio orizzonte d’intervento, al di là della limitazione degli armamenti, della prevenzione della guerra e dell’olocausto nucleare, per la promozione di una cultura della pace: per il tentativo cioè di individuare e sconfiggere le radici del fenomeno-guerra nella più complessa e varia fenomenologia sociale della violenza. Ma l’avvio di un’operazione del genere – se si pensa quale enorme spazio abbia occupato la guerra nel ruolo sociale del maschio e nella stessa simbologia del potere, e quale cupo fascino guerra e armi abbiano sempre esercitato sui maschi, ponendosi esplicitamente come metafore di potenza sessuale – non può non significare una svalutazione del “maschile” e una rivalutazione del “femminile”; per risolversi dunque in un mutamento per il quale la parola delle donne non può non costituire il più felice contributo.

* Sta in: MEMORIA PAURA VOLONTÀ SPERANZA. Nella Resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace (Atti del convegno, Milano 16-19 maggio 1984), a cura di ANPI – FIVL – FIAP – ANED.

15/04/21

Ramsey Clark / Tributo alla memoria di un grande amico della pace con giustizia


 Ramsey Clark è stato fondatore dell'International Action Center e ha ispirato gli attivisti politici che hanno usato la sua struttura per difendere le lotte di liberazione dei popoli, opporsi alle guerre di aggressione statunitensi, difendere i prigionieri politici sia nel complesso carcerario-industriale degli Stati Uniti che nelle dittature sostenute dagli Stati Uniti in tutto il mondo.




di Sara Flounders, co-direttrice dell'International Action Center


Salutiamo Ramsey Clark, morto il 9 aprile 2021, schietto difensore di tutte le forme di resistenza popolare all'oppressione, leader sempre pronto a sfidare i crimini del militarismo statunitense e dell'arroganza globale. È stato sempre ottimista sul potere delle persone di determinare la storia. La sua voce coraggiosa ci mancherà.

Ramsey Clark sarà ricordato da persone e movimenti in tutto il mondo come una personalità di spicco che ha usato il suo nome, la sua reputazione e le sue capacità legali per difendere i leader dei popoli e dei movimenti che i mass media  avevano completamente demonizzato.

L’iniziale fiducia di Clark nel ruolo degli Stati Uniti si è trasformata, attraverso la dura esperienza e l'osservazione di quelli che considerava crimini di guerra statunitensi, nella determinazione a sfidare la politica degli Stati Uniti e difendere le vittime delle aggressioni statunitensi, anche a costo di pagare di persona. Le sue azioni, la leadership e gli scritti hanno mostrato il suo sviluppo politico negli ultimi 60 anni, soprattutto, le sue azioni.

Nato in una famiglia notabile del Texas nel 1927, suo padre era il giudice della Corte Suprema Tom Clark, Ramsey è stato educato a credere nel potere delle leggi statunitensi. È diventato maggiorenne quando gli Stati Uniti erano all'apice della potenza alla fine della seconda guerra mondiale e ha vissuto il lungo declino e decadenza dell'impero statunitense. È stato nominato assistente procuratore generale nel 1961 durante l'amministrazione John F.Kennedy e procuratore generale durante l'amministrazione Lyndon Johnson nel 1967.

L’onda possente del Movimento per i diritti civili e della lotta di liberazione dei neri negli anni '60 richiedeva un cambiamento radicale nel governo. In qualità di procuratore generale, Clark ha imposto la desegregazione delle scuole in tutto il Sud e ha supervisionato la stesura del Voting Rights Act del 1965 e del Civil Rights Act del 1968. Ha redatto una bozza di legislazione sugli alloggi e l'applicazione dei diritti del Trattato delle Nazioni Indigene.

A differenza di quasi tutti gli altri funzionari di livello governativo, che hanno sfruttato il proprio incarico in una carriera multimilionaria, dopo aver lasciato il governo, Ramsey Clark ha utilizzato il suo prestigio di ex procuratore generale per agire per i poveri e i senza voce.

Vietnam, Iran, Cuba, Venezuela

Nel 1972 si recò nel Vietnam del Nord durante la campagna di bombardamenti del presidente Richard Nixon. Era a Teheran, in Iran, nel 1979, nei giorni in cui milioni di iraniani sfidarono le mitragliatrici della Savak, la polizia dello scià, e rovesciarono il suo brutale regime appoggiato dagli Stati Uniti. Ha visitato Cuba numerose volte per sfidare il blocco degli Stati Uniti ed esprimere profonda ammirazione per gli importanti cambiamenti resi possibili dalla rivoluzione cubana.

Insieme alle manifestazioni di decine di migliaia di persone contro le guerre statunitensi nel 1991 e nel 2003, Ramsey Clark ha guidato importanti raduni di massa in Solidarietà con Cuba al Javits Convention Center nel 1992 e con il Venezuela bolivariano nel 2005 al Town Hall.

Clark ha sostenuto la rivoluzione sandinista del 1979 in Nicaragua e la lotta per la liberazione di El Salvador negli anni '80 contro le dittature appoggiate dagli Stati Uniti. Si è recato a Panama dopo l'invasione degli Stati Uniti nel dicembre 1989 per documentarne l'enorme tributo di vite.

Mentre molti accoglievano il crollo dell'Unione Sovietica come la fine della Guerra Fredda e l'inizio di un'era di pace e prosperità, Clark riteneva che ciò avrebbe portato a infinite guerre di espansione degli Stati Uniti e ai tentativi di ri-colonizzare molti paesi. 

Opposizione alla guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq

Con grande rischio personale, Ramsey Clark si è recato in Iraq al culmine dei bombardamenti statunitensi del 1991. Unendo il coraggio personale alle capacità politiche e legali, ha scritto un atto d'accusa in 19 punti dell'amministrazione Bush per crimini di guerra e crimini contro l'umanità che ha avuto risonanza in tutto il mondo.

L'accusa divenne la base di una commissione d'inchiesta che tenne udienze popolari di massa in 19 paesi e 26 città degli Stati Uniti. Ramsey ha partecipato a ogni udienza di massa. Il tribunale finale si è tenuto a New York City nel febbraio 1992 davanti a migliaia di persone e delegati internazionali. Gli eventi hanno attirato una forte copertura mediatica in tutto il mondo e una censura totale nei media statunitensi.

Durante gli anni delle sanzioni più mortali contro l'Iraq che hanno causato la morte di mezzo milione di bambini iracheni in quattro anni, Ramsey ha condotto delegazioni internazionali ogni anno per contestare e denunciare l'impatto delle sanzioni.

Queste delegazioni di accertamento dei fatti e per i diritti umani includevano quasi sempre cineoperatori, giornalisti e fotografi per documentare l'impatto sulle popolazioni civili indifese. Ha incoraggiato altri a organizzare anche delegazioni di solidarietà.

Dopo l'invasione e l'occupazione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti e degli inglesi del 2003 e in condizioni ancora più pericolose, Clark si è recato in Iraq numerose volte. Ha fornito difesa legale a Saddam Hussein, il presidente iracheno catturato, che gli Stati Uniti e i loro lacchè iracheni hanno messo sotto accusa in un processo farsa.

Sebbene il risultato fosse inevitabile, Clark era determinato a denunciare che il vero crimine era la distruzione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti e non si è scusato per la sua difesa di Saddam Hussein. Tre dei suoi avvocati della difesa irachena sono stati assassinati per il loro ruolo di difensori. Saddam Hussein è stato giustiziato il 30 dicembre 2006.

Sudan, Jugoslavia

Nel 1998 gli Stati Uniti hanno bombardato un piccolo stabilimento farmaceutico che produceva gli unici farmaci anti-malaria in Sudan, sostenendo che si trattava di un impianto segreto di gas nervino VX. Ramsey ha immediatamente organizzato medici, farmacisti e operatori video per denunciare questo crimine contro la popolazione civile.

Nella più grande e pericolosa aggressione ai confini europei dal 1945, gli Stati Uniti, determinati ad espandere l'alleanza militare della NATO nei Balcani e nell'Europa orientale, hanno lanciato la guerra del 1999 per smembrare e distruggere la Jugoslavia, durante l'amministrazione Bill Clinton. Ramsey Clark è stato in Jugoslavia due volte durante i 78 giorni di implacabili bombardamenti statunitensi, esprimendo solidarietà alla popolazione sotto attacco documentando che il Pentagono ha consapevolmente preso di mira i civili.

Clark ha dato la priorità a visitare le scuole bombardate, gli ospedali, i mercati, gli impianti di purificazione dell'acqua, i silos per il grano e gli impianti farmaceutici, come ha fatto in altri paesi bombardati dagli Stati Uniti. Dopo la guerra, ha redatto un'accusa pubblica contro Clinton e altri leader dei paesi della NATO e ha ispirato un tribunale popolare di massa sui crimini di guerra statunitensi in Jugoslavia, la cui udienza finale è stata nel giugno 2000.

Clark non ha esitato a incontrare il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic in Jugoslavia durante i bombardamenti statunitensi e successivamente all'Aia dopo che il presidente sequestrato ha affrontato un tribunale internazionale illegale che gli Stati Uniti hanno istituito per processare i leader jugoslavi. Il punto di vista di Ramsey era che i leader fossero accusati ingiustamente. Secondo la sua accusa per il tribunale del 2000, Clinton avrebbe dovuto essere sul banco degli imputati, insieme al Segretario di Stato Madeleine Albright e ai corrispondenti leader di Germania, Gran Bretagna, Francia e altre potenze della NATO.

Detenuti politici staunitensi

Mentre gran parte del lavoro di Ramsey Clark si è concentrato sulla difesa delle nazioni sotto attacco da parte degli Stati Uniti, egli ha anche difeso decine se non centinaia di prigionieri politici dell'impero, dentro e fuori gli Stati Uniti. Questi includevano l'attivista indigeno Leonard Peltier; l’Imam Jamil Al-Amin (alias H. Rap ​​Brown), detenuto in un carcere di massima sicurezza. Clark e Lynne Stewart erano disposti a difendere lo sceicco egiziano Omar Abdel Rahman. (Per il suo ruolo, la Stewart è stata accusata e incarcerata).

Ha sostenuto l'indipendenza di Porto Rico e la libertà dei suoi numerosi prigionieri politici. Si è recato in Perù per difendere la cittadina statunitense Lori Berenson, detenuta dalla dittatura peruviana; nelle Filippine ha difeso Jose Maria Sison dalle accuse di "terrorismo". Clark ha pubblicamente sostenuto la dottoressa Aafia Siddiqui, una donna pakistana torturata in Afghanistan e che sta scontando una pena di 86 anni nella prigione federale degli Stati Uniti, come pure Mumia Abu-Jamal detenuto nella prigione statale della Pennsylvania.

Si è recato in Nepal quando un’insurrezione rivoluzionaria ha portato un nuovo governo e nella Repubblica popolare democratica di Corea per protestare contro i “war games” e le minacce nucleari statunitensi.

Solidarietà con la Palestina

Quando il leader palestinese Yasser Arafat è stato preso di mira dalle forze statunitensi e israeliane, Clark lo ha incontrato in Libano, e in seguito si è recato a Gaza sotto il totale blocco israeliano e ha incontrato la leadership di Hamas. I lunghi anni di sostegno di Clark alla lotta per la liberazione palestinese gli hanno procurato le continue denunce delle forze sioniste.

Clark ha denunciato ogni aspetto della “Guerra degli Stati Uniti al terrorismo” come guerra contro l'Islam con le infinite operazioni militari, le sanzioni, gli attacchi con droni, le operazioni di cambio di regime, omicidi, detenzioni segrete e una serie di basi in tutta l'Africa fino all'Asia centrale e agli Stati del Golfo.

Nel 2011, gli imperialisti della NATO hanno approfittato di un'apertura fornita dalla Primavera araba e dall'ondata di massa che ha rovesciato le dittature in Tunisia ed Egitto, per aprire un bombardamento di 220 giorni sulla Libia e per uccidere il leader libico Muammar Gheddafi, atto che ha distrutto il paese con il più alto tenore di vita in Africa.

L'imperialismo degli Stati Uniti ha quindi concentrato i suoi sforzi per abbattere il governo della Siria. Ramsey si è recato in Siria diverse volte nel tentativo di focalizzare nuovamente l'attenzione sull'impatto della sovversione statunitense sui civili.

Viaggiando a rischio personale, Clark ha rivelato ciò che le sanzioni statunitensi, l'armamento di decine di migliaia di mercenari e il bombardamento di infrastrutture vitali stavano infliggendo a interi paesi.

Nel corso dei decenni Ramsey ha mantenuto un intenso programma di ascolto e coinvolgimento degli attivisti in progetti impegnativi, oltre a parlare, viaggiare e consultare chiunque fosse sotto attacco.






VERSO IL 25 APRILE/L'ALTRA METÀ DELLA RESISTENZA/BIANCA GUIDETTI SERRA

biancaguidettiserra100.eu

 «Come si può contrastare la violenza della guerra decisa al di sopra di noi, al di fuori di noi?»*


Bianca Guidetti Serra (Torino, 1919/2014) partigiana combattente, giurista, saggista, parlamentare, è stata fra le figure più autorevoli della vita democratica italiana, impegnata nel campo del diritto del lavoro e di famiglia, della tutela dei minori e dei carcerati. Quello che riportiamo è il suo intervento al convegno nazionale “Nella resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace”, organizzato da ANPI e altre associazioni partigiane a Milano, 18-19 maggio 1984.


Come riuscire a dare un apporto concreto a quello che chiamiamo il problema della pace, che è poi il problema della sopravvivenza? Tutti infatti viviamo come intollerabile la violenza della guerra. E, più terribile ancora, la violenza di coloro che possono deciderla al di sopra di noi, al di fuori di noi.

Come li si può contrastare? Cosa si può contrapporre? Essenziale è opporre una «cultura della pace» agli stereotipi della «cultura bellica» cui da secoli ci si rifà - talvolta inconsapevolmente - fonte di contraddizioni ed equivoci. Basterebbe pensare, per fare un esempio, al brindisi di festeggiamento di quel consiglio di fabbrica che aveva costruito la corazzata che, con i suoi strumenti bellici, ha determinato la vittoria (della reale marina britannica ndr) nella insensata guerra delle Maldive. Si compiacevano del perfetto risultato tecnico di un mezzo di distruzione. E magari qualcuno di loro, fuori, aveva firmato appelli per la pace o sfilato nei cortei pacifisti!

Quali strumenti può darsi una «cultura di pace» che sia anche azione? In concreto, sono sufficienti i mezzi del convincimento a creare una barriera alle iniziative belliche o devono essere usati anche mezzi forti, addirittura violenti? Ma se li usassimo, sia pure per la «buona causa», non cadremmo in contraddizione?

Meno di un mese fa, mi è accaduto, a motivo della mia professione, di difendere al Tribunale di Ragusa, con altri, delle pacifiste che avevano attuato un blocco stradale davanti alla base militare di Comiso per impedire l’ingresso degli autocarri che portavano materiale per l’installazione dei missili Cruise. Dodici ragazze, provenienti da vari paesi europei. Sentivo da un lato una grande adesione a questa loro iniziativa; ma dall’altro mi chiedevo: che cosa possono fare dodici persone (forse qualcuna di più che non era stata arrestata) che si stendono per terra, su una strada? Vengono arrestate e il missile da guerra resta lì implacabile, con tutta la sua minacciosa potenza distruttrice.

D’altro canto quel tipo d’azione (che è stato punito proprio perché ne sono state riconosciute le alte finalità) è pur sempre contro la legge, perché il blocco stradale è considerato reato. Una piccola illegalità, certo, accettabile. Ma se, continuando nell’esempio, nella base fossero entrate divellendo i cancelli o le reti protettive? Se avessero danneggiato suppellettili e strumenti? O se, estremizzando in un crescendo d’intensificazione, avessero usato armi? Non proseguo perché l’arretratezza dell’esempio mi porterebbe a cadere nell’assurdo. Ma il problema di base di un modo efficace di ribellione e di lotta che non diventi simile o uguale a quelli dei portatori di guerra mi pare rimanga.

È problema non nuovo, del resto. Se ne parlava anche in riferimento alla violenza di popolo, esercitata durante la Resistenza, in risposta a più atroci ed ingiuste violenze. E se a Comiso, invece di dodici o venti o cinquanta quante erano quella volta, fossero state diecimila, centomila, un milione, tanti milioni, forse sarebbe prevalso il principio di una forza che vince.

Dunque la forza del numero? Certo, ma non da solo. Credo che occorra aggiungervi la consapevolezza delle azioni che si compiono, la fermezza nel perseguirle. Questa potrebbe essere una strada. E allora molto meglio si comprende la ragione di un convegno come questo. Ragione di informare, di non dimenticare le cose che avvengono, di diffondere le opinioni, di stimolare ad agire – anche solo con la testimonianza della presenza – se fossimo milioni e milioni che intervengono direttamente, ma con tenacia e continuità, non delegando l’iniziativa, si potrebbero conseguire risultati.

Quello della non delega è un discorso che andiamo facendo in tante, oggi, e che vien fuori dall’esperienza. Disabituiamoci a delegare ad altri quanto deve essere fatto, abituiamoci invece alla responsabilità personale. Questa è «cultura di pace» che deve presiedere alle nostre scelte. Saremo molte di più, ma soprattutto più forti. Non ci potranno essere “capi” o “potenti” che – di fronte al dissenso espresso con la forza e la qualità del numero – possano decidere da soli o con pochi altri.

  *Sta in: MEMORIA PAURA VOLONTÀ SPERANZA. Nella resistenza e nella società le donne protagoniste per una nuova cultura della pace, Atti del convegno nazionale, a cura dell’ANPI-FIVL-FIAP-ANED, 1984 (pag.161)


12/04/21

Verso il 25 Aprile / L’altra metà della Resistenza – Staffette partigiane

Lisetta Prosperina -Partigiana in Valle d'Aosta


«Staffette: senza di loro la Resistenza sarebbe stata impossibile»  

di Manzela Sanna*


*(Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 104, Atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977, avvio di una lettura al frmminile corale della lotta di Liberazione per voce delle stesse protagoniste).


La staffetta è forse la figura più cara della Resistenza, la più amata e certamente una delle più indispensabili. Essa è stata la struttura portante, il cuore dell’intera rete organizzativa di combattimento, l’occhio della brigata.

Nelle sue mani erano riposti i collegamenti, gli ordini, le informazioni per le città, i villaggi, le fabbriche. Nelle sue sporte venivano nascoste le armi, l’esplosivo, il materiale di propaganda, la stampa. Alla sua persona erano affidati i messaggi e le disposizioni del CLN alle formazioni e della brigata alle altre brigate. In sella all’inseparabile bicicletta – simbolo di tutto un periodo – pedalava per chilometri e chilometri per portare a termine la missione affidatale, sfidando i rastrellamenti, le bombe, gli innumerevoli rischi della guerra.

Non è semplice descrivere compiutamente ciò che hanno fatto le staffette perché erano dappertutto e hanno fatto di tutto, e comunque non si riuscirebbe a dare la esatta dimensione della loro importanza perché non è tanto il peso quantitativo e numerico delle azioni a cui hanno partecipato che le ha rese indispensabili, quanto quello morale e politico che ha fatto dire che senza di esse la Resistenza sarebbe stata impossibile.

Molte rimasero colpite nella salute (sterilità, artrosi, pleurite, tbc) a causa delle dure condizioni in cui operavano; numerose vennero torturate e spesso violentate e poi fucilate.

L’attività della staffetta era di estrema importanza e fondamentale l’atteggiamento che doveva tenere nelle circostanze più disparate. A questo riguardo è interessante conoscere alcune regole di massima impartite alle compagne addette a tale incarico.

In una circolare di un comando partigiano dell’ottobre 1944 si legge: «Compagna corriera, nell’andare ai recapiti assicurati sempre che nessuno ti segua. Non rivelare mai a nessuno, neppure ai compagni e alle compagne che fanno il tuo stesso lavoro, gli indirizzi e i luoghi di recapito. Se ti accorgi che qualche persona sospetta segue i tuoi movimenti, non recarti al luogo dell’appuntamento.

«Nascondi il materiale nel modo migliore. Cammina sempre con disinvoltura e senza destare sospetti, abbi sempre una risposta pronta, una carta d’identità e altri documenti di riconoscimento.

«Il tuo lavoro è pericoloso. Puoi anche cadere nelle mani del nemico e cioè essere arrestata. Con le lusinghe, con le minacce e spesso con le torture fisiche e morali, tenteranno di farti parlare. Tu non parlare mai! Difenditi nel modo che puoi, a seconda delle circostanze e delle situazioni, ma non dire nulla, non svelare il nome dei compagni, dei recapiti, delle cose che conosci. Hai delle possibilità di salvarti solo negando e ancora negando. Comunque preferisci qualsiasi altra sorte piuttosto che diventare una spia».

Ebbene, fu molto raro che qualcuna tradisse o parlasse sotto tortura, quantunque umanamente possibile, e ciò è tanto più importante perché la maggior parte di esse non erano membri di partito o quadri politici, ma semplici donne che gli avvenimenti avevano strappato alla chiusa vita famigliare per trasformarle in combattenti.

Eppure dopo il 25 aprile per la stragrande maggioranza di coloro che furono l’anima della Resistenza non ci furono riconoscimenti, spesso neanche quelli di “patriota”: ed è così che molte torneranno a casa dopo aver trovato nella lotta una nuova dimensione femminile.

Esse non chiedevano soltanto la fine della guerra, della fame, delle distruzioni: esigevano di essere aiutate a sviluppare una coscienza politica e di classe, di superare l’arretratezza culturale, di trovare un’occupazione. Invece vennero ricacciate in massa nella famiglia, nel lavoro dequalificato, negli impieghi senza carriera. A che vale quindi concedere il voto come grande conquista storica se a questo voto non corrisponde un peso reale nella società? Grandi sono le responsabilità dei partiti di sinistra che questo enorme potenziale di risorse ormai sviluppato non hanno organizzato in maniera conseguente. 

Quasi tutte le donne che hanno reso testimonianza sulla lotta partigiana hanno affermato che «quello è stato il periodo più bello e pieno della loro vita». E la partigiana Elsa Oliva nel libro La Resistenza taciuta afferma: «Il mio rimpianto più grande del dopo è stato quello di non essere morta prima, durante la lotta». Romanticismo, si dirà, retorica femminile decadente. Invece questa frase, al di là dello schematismo con cui è formulata, assume il significato prezioso di un giudizio storico e politico.

Nelle lotte successive per l’affermazione della democrazia le donne non si sono mai più sentite così attive, così partecipi nel rischio, così unite da intenti comuni. Tant’è che, a più di trent’anni dalla liberazione, rimangono ancora sulla carta i punti più significativi del programma dei Gruppi di Difesa della Donna, la cui attuazione era considerata certa nell’Italia liberata.


11/04/21

VERSO IL 25 APRILE CON L’ALTRA METÀ DELLA RESISTENZA / JOYCE LUSSU

Joyce Lussu - foto sardegnareporter.it

Joyce Salvadori Lussu (Firenze 1912 - Roma 1998) partigiana, scrittrice, traduttrice, poeta. Entrò nella Resistenza militando nei gruppi di “Giustizia e Libertà”, accanto al marito Emilio Lussu, in Francia e in Italia. Decorata con medaglia d’argento al valor militare, è stata grande narratrice (Il suo romanzo Fronti e frontiere è tuttora uno dei testi più letti della narrativa resistenziale), autrice di diari, saggi, raccolte di poesie. Negli anni ’60 si dedicò a un’intensa campagna di sostegno ai movimenti di liberazione anticoloniale dell’Africa e del Medio Oriente, traducendo e divulgando l’opera di poeti come Nazim Hikmet e Agostinho Neto

Attenta osservatrice e fautrice delle lotte studentesche e femminili, è stata fino all’ultimo testimone ed energica divulgatrice dei valori resistenziali fra le generazioni più giovani. Nel 1977 partecipò al convegno nazionale L’altra metà della Resistenza, promosso a Milano dall’ANPI e altre associazioni partigiane, avvio di una lettura frmminile corale della guerra di Liberazione per voce delle stesse protagoniste..


«Per le donne la scelta della Resistenza era già una conquista e un’affermazione di libertà personale…»*

La partecipazione della società rurale alla Resistenza si può definire “di massa”, perché ogni punto d’appoggio coinvolgeva un intero aggregato famigliare e non bastava un membro solo a creare un collegamento resistenziale. L’intera famiglia contadina collaborava come nucleo e come base alla guerra di liberazione. E si dice “guerra” giustamente, essendo in quel modo tutti e ognuno in prima linea.

Poteva accadere che un partigiano nascosto o un prigioniero di guerra ospitato da una famiglia contadina venisse scoperto e arrestato: lui veniva forse riportato in prigione o in campo di concentramento, ma era la famiglia che pagava per prima e veniva fucilata sul posto: tutti, uomini, donne, bambini, vecchi. Spesso non si salvava nessuno.

Quando una qualsiasi famiglia veniva coinvolta nella Resistenza, per situazioni particolari o per scelta, immediatamente qualcosa esplodeva al suo interno: non reggevano più i vecchi rapporti tradizionali e la sua struttura patriarcale. Al contatto operativo con una lotta popolare che esigeva sodalizio, fiducia, contatti, segretezza, non era certo possibile imporre alle ragazze di ritirarsi alle sette di sera, o alla moglie di cucire e cucinare in silenzio, in un angolo della casa. Ognuno partecipava collettivamente alle nuove esigenze e quasi automaticamente si stabiliva un assetto democratico all’interno del nucleo famigliare allargato. Questo affrancava le donne in una sorta di prima liberazione, creando nuovi interessi e nuovi rapporti tra i membri della famiglia.

Quando poi le donne raggiungevano le formazioni partigiane, la loro scelta era già una conquista e un’affermazione di libertà personale.

È vero che talvolta anche nelle formazioni accadeva che le donne venissero adibite a delle funzioni subalterne, ricreando la gerarchia famigliare e sociale da cui erano appena uscite. Personalmente ricordo che, durante i miei collegamenti tra vari gruppi partigiani operanti in Italia, più di una volta le compagne si lamentarono con me dicendo: «Mi tocca lavare i panni del comandante…». E io chiedevo: «Ma tu gliel’hai detto al comandante? Ne avete parlato in assemblea, ci avete provato?». In generale, erano state zitte.

In realtà, quando si poneva questa questione nelle riunioni politiche, di fronte a dei compagni già maturati da una forte tensione morale e politica, com’era quella della lotta armata, ben raramente accadeva di trovarli insensibili al problema della parità. Io mi sento di dovere spezzare una lancia in favore dei compagni di allora, che aderirono prontamente alla discussione e alla risoluzione di queste controversie, sorte molto spesso per una mancata focalizzazione del problema.

Naturalmente quando nessuna sollevava questa questione, le cose proseguivano nel loro andazzo tradizionale, per inerzia, per consuetudine e soprattutto per mancanza di una visione critica dell’assetto sociale e famigliare da sempre esistito e mai contestato. Ma dovunque noi, come donne, abbiamo parlato impostando sia teoricamente che concretamente la questione, i risultati si sono toccati con mano.

Un movimento storico si qualifica sempre dalle sue punte più avanzate, non già da quelle di retroguardia: e senza dubbio c’era ormai un fortissimo filone storico che stimolava il dibattito all’interno della Resistenza, non solamente su problemi contingenti, ma sugli aspetti sociali più svariati e anche su quelli tabù.

Lo specifico femminile, i rapporti della donna col marito e con i figli, il suo ruolo all’interno della famiglia ed altri quesiti scottanti emersi in questi anni, vennero allora per la prima volta esaminati e in seguito ripetutamente discussi nelle riunioni politiche serali: c’era un ascolto attentissimo e una sensibilità diffusa su questi argomenti, mentre le idee e la coscienza crescevano e uomini e donne maturavano nella dignità della lotta comune.

E allora viene da chiedersi perché, dopo la grande insurrezione del 25 aprile, che ha visto la donna per la prima volta in una posizione di parità e di prestigio, le sia nuovamente calata addosso questa pesante cappa di conformismo e di repressione.

E perché tutte le antiche e logore forze tradizionali siano così prontamente tornate a galla, ricacciando al fondo gli strati più depressi della società, le donne per prime, richiamandole ai santi valori del sacrificio. Perché, dopo le esaltanti giornate della Liberazione, sia ritornata, quasi di soppiatto, la restaurazione.

 

*Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 111 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, tenutosi a Milano nel novembre 1977)


Seminario Internazionale / 11 aprile: la vita al di sopra dei profitti /Jornada Internacional de Lucha


LA VITA AL DI SOPRA DEI PROFITTI: VACCINI E SANITA' PUBBLICA PER TUTTI
SEMINARIO INTERNAZIONALE 

Nell’ambito della Jornada Internacional de Lucha Antiimperialista “La vita al disopra del profitto. Vaccini per tutte e tutti!” si è tenuto il seminario internazionale on line per discutere dei diversi temi che costituiscono l’insieme della Settimana di lotte che stiamo costruendo intorno alla questione del Vaccino per la salute pubblica e gratuita: vaccini, sanità pubblica, lavoratori e lavoratrici della sanità, sovranità alimentare e organizzazione popolare, guerre imperialiste di fronte alla pandemia. Nel seminario si sono articolati i diversi fronti di azione e lotta che i popoli del mondo hanno prodotto in tempo di pandemia e per segnalare la necessità di dare continuità al processo di articolazione intorno a questi temi. Questo seminario è stato un primo passo.

Vi hanno preso parte:  Dr. Satyajit Rath, immunologo, Istituto Indiano di Educazione e Ricerca Scientífica (India); Carlos Ron, presidente dell’Istituto Simón Bolívar (Venezuela); Ana Vracar, del People’s Health Movement (Croazia); Pramesh Pokharel, de La Via Contadina (Nepal); Lorena Peña Mendoza, presidente Federación Democrática Internacional de Mujeres (FDIM); Lerato Mthunzi, presidente del Sindacato Young Nurses Indaba Trade Union (YNITU) del Sudafrica; Julie Steendam per il coordinamento Europeo della campagna No Profit on Pandemic, Belgio; Aziz Rhali, Asociazione per i Diritti Umani (Marocco).


08/04/21

VERSO IL 25 APRILE CON L’ALTRA META’ DELLA RESISTENZA / ISOTTA GAETA*

Isotta Gaeta - Foto Enciclopedia delle donne

 *Isotta Gaeta (Torino, 1929 - Nizza, 2009), giornalista e saggista. Nata da una famiglia comunista della prima ora, a sedici anni Isotta è staffetta partigiana nella 107ª Brigata Garibaldi. Negli anni ’50 e ’60, trasferitasi a Milano, collabora con diversi periodici e riviste, tra cui Vie Nuove, Noi Donne, Quarto mondo, Compagne. Negli anni ’80 svolge l’attività di reporter per il Corriere della Sera, con inchieste sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane e battendosi per i diritti civili dei detenuti. Nel ‘92 promuove la Rete delle giornaliste europee e nel ’95 partecipa alla Conferenza Mondiale per le Donne delle Nazioni Unite per le Donne, a Pechino. È tra le fondatrici del Festival Internazionale Cinematografico a regia femminile Sguardi altrove. Nel 1978 ha curato con Lydia Franceschi gli Atti del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza tenutosi a Milano nel novembre 1977, avvio di una lettura al frmminile corale della guerra di Liberazione per voce delle stesse protagoniste.

«Scriveremo finalmente la nostra storia di donne nella Resistenza, ci riprenderemo il nostro passato tutto intero per affrontare il nostro futuro» **

Su questa pagina della nostra storia si è fatta molta retorica e molto trionfalismo. Le donne sono state esaltate, ricordate, premiate: alcune sono divenute dei simboli al di sopra della maggioranza delle sconosciute combattenti; altre sono divenute dei fiori all’occhiello da utilizzare in varie situazioni, ma la storia vera della presenza femminile nella Resistenza è ancora da scrivere, pur essendoci stato tutto il tempo per farlo in questi trent’anni che ci separano dalla Liberazione.

In realtà, ciò che ha impedito che questa storia venisse scritta è stata la non volontà di affrontare, con una seria analisi politica e di classe, le contraddizioni presenti all’interno dello stesso movimento partigiano. Quelle contraddizioni di classe e di sesso che hanno segnato in maniera latente tutto il periodo della Resistenza e che ritroviamo negli anni successivi, sono le stesse che, pur con diverse connotazioni, ritroviamo e viviamo ancora oggi.


Non è stato facile né scontato
costruire una organizzazione femminile di massa della Resistenza e ancora meno facile è stato riconoscerle un posto al fianco delle altre forze, che in quel momento combattevano, nonostante in grande contributo che quotidianamente le donne davano alla lotta. Su vari terreni e in vari modi si è cercato d’impedire questa partecipazione femminile organizzata autonomamente, ma di questo non troviamo traccia nei discorsi o nei libri sulla Resistenza. Troviamo invece, largamente documentato, il doppio lavoro che le donne hanno compiuto nel vecchio ruolo imposto e in quello nuovo che si erano scelte: madri, spese, sorelle e, insieme, combattenti di un esercito popolare. E nelle direttive, nei giornali, nei racconti troviamo anche una grande carica di paternalismo. I “dirigenti” si sentivano in dovere di sorvegliare, tutelare, guidare quelle che consideravano inesperte e deboli compagne di lotta, dimenticando che almeno cento militanti antifasciste erano state processate dal tribunale speciale fascista subendo dure condanne e tante altre avevano subito confino, percosse e sorveglianza politica speciale, durante tutto il ventennio.

In un documento della 1ª divisione Garibaldi “Piemonte” del 16 settembre 1944, riguardante le direttive per la costituzione di organismi popolari, si legge, per esempio una nota che riguarda le donne: «Nei limiti delle possibilità e sempre che vi siano i requisiti adatti, un elemento femminile può essere ammesso a far parte di detto organismo». Le donne, dunque, erano mature per rischiare la vita e combattere duramente, ma non lo erano ancora per dirigere, per assumere il potere: si poteva ammettere che qualcuna venisse scelta ma non prima di un severo e accurato esame che nessuno si sognava di proporre per un uomo.

L’analisi che tentiamo di fare qui è solo un abbozzo, l’inizio di un lavoro che vogliamo continuare a sviluppare con il contributo di tutte. Scriveremo finalmente la nostra storia, dopo averla vissuta, anche a partire da questo primo momento, che deve servire da stimolo e da provocazione perché si faccia piazza pulita di ogni mistificazione: vogliamo riprenderci il nostro passato tutto intero per affrontare il futuro senza ripercorrere gli stessi errori e guardando in faccia i nostri nemici, tutti i nostri nemici.

Abbiamo sempre parlato con orgoglio, e lo facciamo ancora oggi, dei Gruppi di Difesa della Donna (GDD), per ciò che hanno saputo essere nel movimento partigiano e siamo convinte che, senza quel tipo di organizzazione, la Resistenza non sarebbe stata vincente. Dobbiamo riconoscere che, proprio con quello strumento, si fece il primo tentativo di organizzazione autonoma delle donne per porre i problemi specifici della condizione femminile. E tuttavia è proprio nella impostazione del programma e dell’organizzazione dei GDD che si rivelò la prima, profonda contraddizione.

06/04/21

7 APRILE / MANIFESTO INTERNAZIONALE PER LA VITA

 


La FDIM/WIDF aderisce alla Settimana europea di lotta antimperialista (7-11 aprile 2021) per costruire un mondo più giusto e uguale, dove la vita e la salute contino più del profitto


La vita prima del profitto: vaccini e cure mediche pubbliche e gratuite per tutte e tutti!

La pandemia di Covid-19 ha universalmente messo a nudo le contraddizioni del capitalismo che antepone il profitto alla vita delle persone:

Le compagnie farmaceutiche pensano solo ai loro profitti; danno i loro vaccini a quelli che sono disposti a pagarli di più. Di tutti i vaccini distribuiti fino ad oggi, il 75% è arrivato ai 30 paesi più ricchi, mentre 130 paesi poveri nel sud del mondo non hanno ancora accesso.

La maggioranza dei governi ha preso misure per proteggere l'economia prima della vite delle persone. Solo in pochi hanno avuto il coraggio di imporre una completa chiusura delle attività non essenziali per fermare la diffusione del virus.

In tutto il mondo ci sono persone che non hanno accesso ai vaccini, all'occupazione o al reddito. Queste persone sono state abbandonate, senza un futuro. Questa situazione, se analizzata da un punto di vista etnico e di genere, si aggrava per le donne, i giovani, le persone nere e indigene. Siamo in guerra contro un virus invisibile che colpisce tutta l'umanità e che ha già causato quasi 3 milioni di morti.

L'imperialismo statunitense e i suoi alleati sono interessati solo alle questioni geopolitiche e ai profitti delle loro aziende. Questo nonostante abbiano ampie risorse economiche, tecniche e finanziarie che potrebbero salvare vite umane.

Il governo statunitense non perde occasione per mantenere ed estendere gli embarghi economici, commerciali e finanziari, soprattutto contro Cuba, il Venezuela e l'Iran.

Oltre a questo, continua a promuovere una “nuova guerra fredda” contro la Cina, con una retorica ostile al governo e al popolo cinese, imponendo sanzioni economiche, perseguitando aziende cinesi e diffondendo la menzogna che la diffusione della pandemia sia colpa del governo cinese.

Alla luce di questa situazione, dobbiamo unire gli sforzi di tutte le organizzazioni sociali, popolari, territoriali e politiche in tutto il mondo per sostenere e rivendicare l'applicazione delle misure necessarie per la protezione della vita degli esseri umani.

Dalle nostre organizzazioni, concordando e amplificando gli orientamenti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), proponiamo le seguenti misure:

Vaccino gratis per tutti! Garantire modi di acquisire il vaccino per tutti i paesi nei modi più giusti ed equo, togliendo i brevetti che mantengono i vaccini di proprietà dell'industria farmaceutica privata. Il vaccino è un bene comune dell'umanità!

Completa chiusura di tutte le attività non essenziali nei paesi in cui il Covid-19 è fuori controllo.

Reddito di emergenza garantito che assicuri condizioni di vita degne alle famiglie più povere – che sono quelle più colpite dalla pandemia – in modo da poter gestire la propria vita.

Cancellazione del debito che grava sui paesi del sud del mondo a causa dei paesi del nord e delle loro istituzioni finanziarie.

Mai più guerre! Vogliamo pace e vaccini! Sospensione di ogni attività militare, in tutti i paesi del mondo, durante la pandemia; fine della repressione poliziesca come risposta alle mobilitazioni e alle famiglie che occupano case e terre.

Piani di attività produttive per il post-Covid-19 per sostenere la vita in tutto il mondo, basate sull'occupazione per tutti e la produzione di beni di prima necessità per una vita dignitosa. Supporto ai programmi di produzione di alimenti sani per le persone e i loro mercati locali in tutti i paesi.

Implementazione di politiche pubbliche e leggi responsabili della riproduzione sociale, in modo da promuovere la de-mercificazione della vita e la fornitura di servizi pubblici e protezione sociale per lavoratrici e lavoratori.

Cessazione delle sanzioni unilaterali coercitive imposte dagli Stati Uniti e dai loro alleati che violano il diritto internazionale. Queste “sanzioni” colpiscono l'accesso a cibo, medicine, dispositivi individuali di protezione (dip) e perfino al carburante, elementi fondamentali per combattere la pandemia.

L'Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) e le Nazioni Unite si assumano la responsabilità di accedere alle risorse finanziarie nascoste nei paradisi fiscali e di porre limiti ai governi che non rispettano le regole della democrazia e la vita dei loro popoli in questo momento di seria crisi di salute pubblica a livello internazionale.

In occasione del 7 aprile, Giornata Mondiale della Salute decretata dalle Nazioni Unite nel 1948, invitiamo tutte le organizzazioni popolari, sociali e politiche, i collettivi, le campagne e le entità locali, nazionali e internazionali di tutti i paesi, a contribuire alla costruzione della Settimana Internazionale di lotta anti-imperialista dal 7 all'11 aprile 2021, per manifestare la nostra indignazione e riaffermare il nostro impegno per costruire un mondo più giusto e uguale, dove la vita venga prima del profitto.

Unite/uniti possiamo portare avanti la nostra causa in difesa dell'umanità.


VERSO IL 25 APRILE CON L’ALTRA METÀ DELLA RESISTENZA / Lydia Franceschi


Lydia Franceschi - Fondazione Roberto Franceschi
Lydia Buticchi Franceschi è nata nel 1925 a Odessa, la città russa dove i genitori si erano rifugiati per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Rimasto vedovo con la piccola Lydia, il padre torna a Milano, ma alcuni anni dopo viene ucciso dai fascisti. Nel ’43 Lydia entra nella Resistenza come staffetta partigiana, dopo la Liberazione diventa insegnante e poi madre di due figli, Roberto e Cristina.  Segue da vicino le lotte studentesche e del movimento femminista a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, fino al momento in cui la sua vita è segnata da un’altra tragedia: il l 23 gennaio del ’73 il figlio Roberto, studente alla Bocconi, è ucciso dalla polizia chiamata dal rettore a respingere l’occupazione studentesca. Lydia si dedica con grande tenacia alla lunga battaglia giudiziaria volta a perseguire la verità sull’assassinio del figlio. Con il risarcimento ottenuto in sede processuale, nel ’96 crea la Fondazione Roberto Franceschi. Nel 1978, insieme a Isotta Gaeta, ha curato la pubblicazione degli Atti del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza, promosso dall’ANPI e altre associazioni partigiane nel novembre 1977 a Milano, avvio di una lettura al frmminile corale della lotta di Liberazione per voce delle stesse protagoniste..

La Resistenza non è terminata nel lontano aprile del 1945…*

Il 25 aprile 1945 avrebbe dovuto sancire il diritto di partecipazione attiva alla vita politica ed economica nel paese del movimento democratico e popolare, sia per le lotte sostenute dai militanti antifascisti durante il ventennio della dittatura, sia per l’alto contributo di sangue da uomini e donne nella guerra partigiana.

Eppure è stato ancora necessario il sacrificio di altre vite umane per affermare questo diritto, contro il sopruso della classe dominante che continua a perpetuare i suoi privilegi e a mostrare la stessa ottusità morale e sociale del periodo fascista. Tra i militanti antifascisti uccisi in questi ultimi anni compaiono anche i nomi di decine di donne: ricordiamo alcune di esse che la storia ufficiale ha ignorato nei suoi libri e cercato di cancellare dalla nostra memoria.

Ricordiamo le donne braccianti uccise durante le manifestazioni per l’assegnazione di terre incolte o per il lavoro, come: Giuditta Levato a Catanzaro (28 novembre 1946); Isabella Cervelli a Pettiglia Policastro (13 aprile 1947); Anna Rimondi Corato (18 novembre 1947); Angelina Mauro a Melissa (30 ottobre 1949); Filippa Mollica Nardo a Bagheria (20 novembre 1949). E ancora i nomi delle donne cadute davanti alle fabbriche o perché chiedevano l’acqua potabile, come: Jolanda Bertaccini a Forlì (3 giugno 1949); Onofria Pellizzeri, con Giuseppina Valenza e Vincenza Messina a Mussumeli (17 febbraio 1954). Ed ancora, le donne assassinate nel corso di manifestazioni antifasciste, come quelle cadute il 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra o come Maria Alice a Genova il 15 luglio 1948; Rosa La Barbera a Palermo nella manifestazione popolare in risposta alla strage di Reggio Emilia (8 luglio 1960); le compagne cadute in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974: Giulietta Bazoli Banzi, Livia Bottardi Milani, Clementina Trebeschi e, ultima in ordine di Tempo, Giorgiana Masi, il 12 maggio 1977 a Roma durante una manifestazione per i referendum abrogativi.

Come non capire che la Resistenza non è terminata nel lontano aprile del 1945, ma che essa continua perché non sono state, volutamente, rimosse le cause dell’oppressione, del terrore, dello sfruttamento e della emarginazione? Come non capire che la Resistenza in questi anni è stata mercificata come un oggetto di consumo, svuotata dei suoi significati veri, reinterpretata in maniera dogmatica e occultata nella sua verità storica?

Bisogna avere il coraggio di non ricorrere alle esaltazioni epico-retoriche e cercare di raccontare la storia con esattezza documentata, rifacendoci anche alla memoria popolare, perché solo in questa maniera potremo trasformare la narrazione della Resistenza armata in uno strumento di analisi utile per il futuro.

Ma per questo c’è necessità dell’incontro tra generazioni di donne: da una parte quelle in possesso di un patrimonio di memorie della lotta antifascista, che però non ha potuto determinare le trasformazioni radicali attese; dall’altra giovani donne sinceramente impegnate nella ricerca della trasformazione, ma che per la loro stessa età mancano di quella memoria storica che facilita la comprensione e l’analisi.   


*Sta in: L’altra metà della resistenza, ed. Mazzotta, Milano 1978, pag. 177 (atti del convegno L’Altra Metà della Resistenza, un incontro fra generazioni sulla via della liberazione femminile, Milano novembre 1977)


04/04/21

VERSO IL 25 APRILE CON L’ALTRA META’ DELLA RESISTENZA / GIULIANA GADOLA BELTRAMI*

 

Giuliana Gadola - Foto ANPI


*Giuliana Gadola (Milano, gennaio 1915/luglio 2005), partigiana, scrittrice e poeta. Entra nella Resistenza insieme al marito Filippo Beltrami subito dopo l’8 settembre ‘43. Rimane ferita in uno scontro a fuoco con le forze tedesche di occupazione presso il lago d’Orta. Quando, nel febbraio del 1944, la formazione partigiana in cui milita Beltrami è accerchiata ed egli viene ucciso, Giuliana si rifugia in Val d’Aosta con i figli. Il giorno della Liberazione, 25 aprile ’45, sfila a Milano con la Divisione alpina intitolata al marito caduto. Nel dopoguerra entra a far parte della Presidenza onoraria dell’ANPI, svolgendo un’intensa e continuativa azione divulgativa sulla partecipazione delle donne alla Resistenza con articoli e recensioni su Anpi oggi, Patria indipendente e Resistenza unita  Fra le sue pubblicazioni, Il Capitano, 1946 (Milano, Gentile). Nel novembre 1977 è una delle promotrici e organizzatrici del convegno nazionale L’altra metà della Resistenza a Milano, dove tiene la relazione introduttiva, nella quale indaga, fra le altre cose, come e perché le donne partigiane non ricevettero subito il dovuto riconoscimento.

Quante erano? Chi erano? Perché c’erano?**

Occorre partire da questi interrogativi se si vuole seriamente affrontare quell’analisi della partecipazione femminile alla Resistenza che in più di trent’anni non è mai stata neppure tentata e che ci proponiamo finalmente oggi di affrontare, se pure in maniera sommaria e approssimata.

Le giovani che in questi anni con tanto impeto si battono per la loro liberazione ne sentono il bisogno e hanno ragione; certamente qui troveranno radici affondate nel tempo. Noi peraltro, che quei momenti li abbiamo vissuti, sentiamo il dovere di offrir loro strumenti per approfondire l’argomento e avvertiamo l’urgenza di far presto, prima che i fatti siano dimenticati e le persone tutte scomparse.

Certo la risposta alle domande che abbiamo formulato non è facile. Nessuno lo sa meglio di me, che da un paio d’anni indago in questa direzione, leggendo libri vecchi, nuovi e articoli d’ogni genere, analizzando documenti, scrivendo lettere nei più sperduti paesi e soprattutto interrogando direttamente un gran numero di testimoni. Si tratta di un lavoro lungo e paziente, ma in compenso assai gratificante: l’incontro con tante donne, parecchie delle quali notevolissime, mi stimola e mi rivela di giorno in giorno una realtà storica del tutto sconosciuta, di dimensioni impensate e di straordinaria qualità.


La maggior difficoltà della ricerca
sta nel fatto che le protagoniste di allora, anche quando sono ancora in vita, sono in gran parte sparite, risucchiate nella sfera del privato, dimenticate e dimentiche esse stesse dei loro giorni di gloria.

Anche questo sarebbe da analizzare: come mai donne che avevano compiuto un passo così grande, superando d’un balzo il loro ruolo tradizionale e secolare, donne che oggi dichiarano unanimi che quello è stato il momento più alto e intenso della loro esistenza, hanno potuto – per quanto profondamente mutate – rientrare al loro posto di prima, a fare le cose di prima?

Naturalmente non è accaduto a tutte: molte hanno continuato a da attività in associazioni e partiti; ma si tratta, direi esclusivamente, di partiti della sinistra e si tratta in maggioranza di donne che già nella Resistenza avevano avuto mansioni politiche e organizzative. Per le altre, per la grande massa anonima, il costume ha prevalso: la famiglia – nella quale, date le particolari difficoltà dell’immediato dopoguerra, si sentivano più necessarie che mai – se le è mangiate come una gigantesca piovra. E nessuno ci ha fatto caso.

Queste, ritrovarle oggi è spesso impossibile.

La seconda grossa difficoltà della ricerca sta nel fatto che mancano quasi del tutto i testi. Nei numerosi libri di storia e di memorie che pure sono stati scritti, delle donne si parla soltanto per rapidi cenni, quando occorre strappare una lacrima o un sorriso, o quando è sentito il dovere di assolvere a un debito di riconoscenza. «Guarda, io devo la vita a una donna», dice ogni tanto un capo o un qualunque partigiano. «Non ricordo neppure come si chiamasse, ma sai cos’ha fatto?». E qui inizia un racconto straordinario.

Questo non può destare meraviglia se si considera il contesto socio-culturale del tempo, che non è neppur molto cambiato. Quando si esaminano i fatti in una certa ottica, la censura è inevitabile: è addirittura inconscia. La nostra società è maschile. La presenza della donna in una guerra o in una lotta politica è accettata, addirittura richiesta, magari anche glorificata, solo quando è indispensabile. Ma non appena sembra si possa farne a meno, la si emargina persino dal ricordo.

Gli storici e i memorialisti della guerra di liberazione sono quasi tutti uomini. I capi della Resistenza erano uomini e questo allora pareva naturale anche alle donne. Nessuno di loro si è accorto che l’esercito della liberazione era un esercito composto in maggioranza da donne.

S’intende che parlo della Resistenza nel suo insieme: forze combattenti e forze d’appoggio. Ma perché non farlo, dal momento che dovunque si era in prima linea? E che si rischiava la fucilazione anche solo, come sta scritto in un famoso editto repubblichino, a dare un bicchier d’acqua a un partigiano?

In appoggio alla mia tesi che nella Resistenza ci fossero più donne che uomini, citerò Arrigo Boldrini, esperto di questioni militari, oltre che famoso comandante della guerra di liberazione: «Se in un esercito normale il rapporto tra combattenti e addetti ai servizi è di uno a sette, nella guerra partigiana è di uno a quindici; intorno a ogni patriota ci sono quindici persone che in grande maggioranza sono donne».[1] Di fronte a tale affermazione, le cifre ufficiali (35mila partigiane combattenti, 20mila patriote, 70mila iscritte ai Gruppi di difesa della donna) diventano risibili. Se facciamo un conto induttivo, sulla base fornitaci da Boldrini arriveremmo almeno a due milioni di donne anziché a 125mila.

L’enorme divario fra le due cifre è facilmente spiegabile se si pensa che solo una piccola minoranza di esse andò, alla Liberazione, a farsi dare il riconoscimento ufficiale, mentre gli uomini ci andarono tutti; ci andò anche, come qualche volta si è detto, qualcuno in più. Del resto si capisce, a loro poteva anche giovare, non fosse che per ragioni di servizio militare; ma le donne, per tornare a casa, di quel pezzo di carta che se ne facevano? Senza contare che nella maggior parte di loro aveva il sopravvento una invincibile modestia che le portava a ritenere di non aver fatto “niente di speciale”.

Comunque non stiamo a disquisire sulle cifre. Si tratta in ogni caso di un numero grandissimo di donne, certamente molte volte superiore a quello degli uomini.

Come si spiega questo fenomeno?